Il Figlio di Dio è nato da donna

Il racconto lucano passa dal Tempio dove officia un sacerdote alla casa di una giovane donna, smaschilizzando il rapporto religioso.

Il primo racconto del Vangelo di Luca inizia con il sacerdote Zaccaria che officia l’offerta dell’incenso nel Tempio di Gerusalemme (Lc 1,5-25). Subito dopo, la narrazione si sposta nella casa di una giovane donna promessa sposa in un paese nelle campagne della Galilea (Lc 1,26-35). Come scrive la biblista Rosanna Virgili su Avvenire, questa simbolica successione di scene esprime «una progressiva smaschilizzazione del rapporto religioso». Infatti, la religione sacerdotale della Giudea interpretata dal maschile (Zaccaria) è un fallimento: essa non riesce a mediare tra il popolo, che prega fuori dal Tempio, e Dio, che vi risiede. Inoltre il sacerdote, che osserva pedantemente la Legge, è solo e ha reso muto non solo sé stesso, ma anche il Signore, per mancanza di fede e assenza di testimonianza.

Così, «Dio va a cercare la fede a casa di Maria e sulle ali dell’angelo Gabriele esoda dalle aule del Tempio per adombrare l’Altissimo nel suo ventre di terra. Dal Tempio alla casa: da un luogo tutto maschile ad un ambito affatto femminile che sarà sede delle chiese cristiane». Paolo sottolinea infatti che «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4), ma successivamente nella Chiesa si cercò addirittura di maschilizzare la nascita di Gesù. Nell’undicesimo Concilio di Toledo del 675 d.C., pur di evitarne l’origine femminile si stabilì che il Figlio fosse generato e messo al mondo de utero patris. Non si voleva che la Chiesa, il cui fondamento è Cristo, derivasse da una donna.

Partendo da convinzioni come questa, nella Chiesa le donne sono spesso state portate a essere solo ascoltatrici ed esecutrici della parola dei maschi. Ma all’opposto l’evangelista Luca, dopo aver mostrato Zaccaria che esce dal Tempio chiuso nel suo mutismo, racconta di Maria che «scioglie il suo “eccomi” in un Magnificat, un fiume di parole che inonda il mondo per dare voce al grido dei poveri e ricolmare la terra di giustizia, di pace e di speranza». Paolo, inoltre, presenta Giunia, insieme a suo marito Andronico, quali «insigni tra gli apostoli che erano in Cristo già prima di me» (Giunia che secoli dopo diventerà Giunio, perché era inaccettabile che una donna fosse chiamata apostolo); Febe come diacona di Cencre (ma ancor oggi a lei si riserva il generico compito di essere «a servizio»); Aquila e Priscilla come «miei collaboratori in Cristo Gesù»; Maria, Trifena e Trifosa «che hanno faticato per il Signore»; Perside, «l’amata».

Insomma, da Maria in poi molte donne sono state anelli preziosi della comunione ecclesiale. Anche il modello femminile è fondamentale, perché lo stesso Paolo si pone nelle condizioni materiali e morali in cui vivevano le donne. Egli abbandona il potere del Tempio per farsi diacono in un’abitazione che non è sua (At 28,30), proprio come le donne che all’epoca erano solo al servizio della casa, che non potevano ereditare dai loro padri né esserne proprietarie. Esse non erano nemmeno proprietarie dei figli, messi al mondo perché garantissero la discendenza dei padri. Paolo, scegliendo il celibato, non genera figli per sé, però ai galati dice: «figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!» (Gal 4,19).