Lettura della “Fratelli tutti” di Papa Francesco, capitolo per capitolo, per riscoprire il volto fraterno dell’umanità. Capitolo I.
Lettura della “Fratelli tutti” di Papa Francesco, capitolo per capitolo, per riscoprire il volto fraterno dell’umanità. Capitolo I.
1. Unioni e divisioni
Nella complessità dell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco, il primo capitolo rappresenta l’affresco generale sulle criticità del mondo contemporaneo. Il titolo del capitolo “Le ombre di un mondo chiuso” già dà il segno inequivocabile della forte preoccupazione di Papa Francesco verso un mondo tendente alla chiusura e per questo produttore di ombre che impediscono alla luce di penetrare e illuminare la vita delle persone. Ombre obnubilanti per molti popoli e comunità che vivono forti divisioni ed egoismi collettivi e individuali. I tempi del Concilio Vaticano II sembrano davvero lontanissimi quando si gioiva dei chiarori di un’aurora promettente dopo gli orrori della II guerra mondiale. «Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la abita» (Fratelli tutti, n. 10).
Papa Francesco mette in risalto come negli anni immediatamente dopo la II guerra mondiale si avesse fiducia nel futuro, poiché dopo i milioni di morti, gli eccidi, l’olocausto di ebrei e rom e la distruzione di intere città, lavorare per costruire percorsi di pace diventava un imperativo. Forte speranza nonostante tutte le contraddizioni del secondo dopoguerra mondiale, come sottolineato negli scritti di un uomo di fede e di impegno sociale e politico come Giuseppe Dossetti, che rimarcò i rischi del persistere di profonde ingiustizie con la costituzione di blocchi contrapposti all’interno della stessa Europa che secondo la sua visione avrebbe dovuto invece essere unita ed indipendente dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.
Nonostante tutti i limiti del nuovo ordine mondiale, è indubitabile che nei decenni successivi almeno in Europa si diede vita a processi di integrazione tra Stati e popoli per esorcizzare il ritorno a nazionalismi esasperati, già produttori di persecuzioni di minoranze interne e di guerre tra Stati. L’utopia di un’Europa Unita – immaginata e tratteggiata attraverso il Manifesto per un’Europa Libera e Unita da oppositori del regime fascista al confine nell’isola di Ventotene come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni – non è rimasta irrealizzata. Oggi l’Europa non è una vera federazione di Stati ma certamente un’Unione di Stati che potrebbe accrescere ulteriormente la sua coesione interna se a impedirla non fossero i risorti nazionalismi mascherati da sovranismi. «Si accendono conflitti anacronistici – scrive Papa Francesco – che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali» (Fratelli tutti, n. 11).
Se in Europa la situazione è a forte rischio di crescenti nazionalismi, soprattutto nei paesi dell’ex blocco socialista, in Africa purtroppo non mancano i casi di leader e gruppi politici pronti a costruire le loro fortune fomentando odio contro gruppi di popolazioni non uniformi alla maggioranza. Ma effettivamente in Africa purtroppo conflitti esasperati sono una costante degli ultimi tre decenni. Un esempio emblematico è la Costa d’Avorio e la cosiddetta invenzione dell’ivoirité. Questo paese è stato caratterizzato da consistenti flussi migratori prima e dopo l’indipendenza del 1960 guidata da Houphouët-Boigny, poiché le sue terre fertili hanno continuato ad attrarre lavoratori per tutto il Novecento e intere famiglie dagli Stati confinanti come Burkina Faso (ex Alto Volta, solo nel 1947 separato della Costa d’Avorio), del Mali, della Guinea, del Ghana. Negli anni Ottanta la Costa d’Avorio era “il paese della pace e dell’ospitalità” con quindici milioni di abitanti, di cui un terzo di origine straniera. Tuttavia gli stranieri coltivavano le terre considerandole loro, ma senza avere alcun documento che lo certificasse ed oltretutto, nonostante risiedessero in quel paese da più generazioni non avevano acquisito la cittadinanza, pur avendo diritto a voto.
Quando, su spinta della Francia, dal partito unico negli anni Novanta si è passati ad una vera e propria concorrenza elettorale, con la nascita del Fronte Popolare Ivoriano, con un leader in ascesa come Laurent Gbambo, tutti i nodi irrisolti sono emersi pericolosamente. Quest’ultimo, infatti, per contrastare lo strapotere del vecchio Presidente ha fomentato l’odio verso coloro che si erano insediati in Costa d’Avorio provenendo dagli Stati vicini. Dai primi anni Novanta ad oggi il paese è stato insanguinato da continui scontri e profonde lacerazioni. La comunità internazionale e alcune organizzazioni come Sant’Egidio hanno più volte contribuito a promuovere accordi di pace, ma l’esasperazione delle differenze per scopi politici ed economici crea delle spaccature che difficilmente si rimarginano. Tra la popolazione del Nord e del Sud rimangono forti pregiudizi e diffidenze reciproche, che spesso si registrano tra gli stessi emigranti nei paesi europei .
«I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune – si legge ancora nell’enciclica – vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. […] L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il “divide et impera”» (Fratelli tutti, n. 12).
Il tema dell’identità dei popoli e delle nazioni è molto delicato, poiché bisogna sicuramente difendere l’indipendenza e la capacità di trovare vie nuove e originali al benessere dei proprio cittadini, soprattutto in un momento in cui finalmente il legame tra pericolosi cambiamenti climatici e l’inquinamento ambientale è innegabile, ma bisogna sperare e lavorare per favorire le unioni e le integrazioni regionali evitando di irrigidire i confini. Purtroppo i confini con tutta l’ambiguità della loro maggiore o minore porosità accrescono diseguaglianze e lacerazioni, soprattutto oggi in cui i drammi ambientali portano sempre più gruppi di popolazione a spostarsi per sfuggire alla desertificazione. Per rendere meno vulnerabili e meno dipendenti i piccoli paesi dalle potenze regionali bisogna trovare opportunità di nuove unioni anziché di nuove lacerazioni. Il tema in questione è particolarmente importante per l’Africa, divenuta di nuovo territorio di conquista di varie potenze.
Come ha scritto Mario Giro: «Dopo un decennio di abbandono l’Africa è tornata ad essere al centro degli interessi del commercio globale, sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. Tutto ciò sta alla base di molti conflitti e crisi che stanno insanguinando il continente e continuano a tormentarlo». Purtroppo in molti paesi africani non emergono ultimamente imprenditori politici della speranza capaci di scommettere sul futuro, ma imprenditori politici della paura, che, spesso, si trasformano in nuovi dittatori o signori della guerra. E la guerra diventa spesso essa stessa un affare, perché i “capi milizia” come dei veri e propri imprenditori sono capaci di attrarre tanti giovani a sé e di fare rete con altri trafficanti, contrabbandieri e speculatori per aumentare a dismisura il loro giro di affari. I trafficanti di armi legati ad aziende delle potenze occidentali e orientali fanno grandi affari come decenni prima, allorquando a fomentare le guerre locali erano il blocco occidentale o il blocco sovietico, in contrapposizione l’uno all’altro. Come evidenziato nell’enciclica le guerre locali apparentemente dovuti a conflitti etnici non sono altro che il frutto di una globalizzazione capace di portare in ogni angolo del pianeta gli interessi capitalistici.
2. Democrazia e libertà
«Un modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico, l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione» (Fratelli tutti, n. 14). Parlare oggi del significato delle parole libertà, democrazia e giustizia è davvero dura. La lunga uscita dalla pandemia di Covid 19 sta mostrando tutte le debolezze del pensiero critico. Infatti, se giustamente abbiamo con durezza criticato il sistema neoliberale imperante che spinge gli Stati di quasi tutto il mondo ad un ripiegamento strategico per passare il testimone agli individui inaugurando la stagione della ragion dello Stato minimo , nel momento in cui lo Stato – a seguito di una devastante pandemia in termini di morti e di danni sull’economia reale – prova a mettere dei limiti ragionevoli alla libertà individuale a favore della salute pubblica e della collettività, si scatenano critiche feroci e proteste di ogni tipo.
Se da un lato Papa Francesco giustamente sottolinea il rischio che parole come democrazia e libertà vengano utilizzate in maniera distorta dal pensiero unico globalista e neoliberale, d’altra parte è necessario che noi cristiani prendiamo coscienza dell’individualismo da cui sono pervasi e che si riviene anche tra i sinceri amanti della giustizia sociale. Forse l’individualismo liberista tanto a parole esecrato, nei fatti lo abbiamo talmente introiettato nelle nostre vite che viviamo secondo i suoi precetti ma crediamo di esserne i critici più attenti. Per comprendere meglio questo atteggiamento culturale, si potrebbe utilizzare il concetto di senso comune di Antonio Gramsci come lo ha proposto David Harvey in Breve storia del neoliberalismo: «A differenza del “buon senso”, che può essere il risultato di una riflessione critica, il “senso comune” si costruisce attraverso pratiche consolidate di socializzazione culturale, spesso profondamente radicate in tradizioni regionali o nazionali; esso può dunque essere particolarmente fuorviante, in quanto maschera i veri problemi sotto pregiudizi culturali».
Se aggiorniamo il tema delle tradizioni con quello dell’informazione sul web e sull’uso spregiudicato dei social media, possiamo agevolmente comprendere come si possa costruire un forte “senso comune” basato solo su semplici pregiudizi culturali. In tal senso mi sembra utile fare un salto nella lettura dell’enciclica e rileggere insieme la riflessione sui movimenti digitali: «D’altra parte, i movimenti digitali di odio e distruzione non costituiscono – come qualcuno vorrebbe far credere – un’ottima forma di mutuo aiuto, bensì mere associazioni contro un nemico. Piuttosto, “i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche”. C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un noi” ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (Fratelli tutti, n. 43).
Non posso fare a meno leggendo questa pagina dell’Enciclica di pensare a un personaggio molto riuscito del comico Maurizio Crozza: Napalm51. Chiaramente si tratta di una figura caricaturale ma che rende l’idea meglio di qualsiasi tipizzazione sociologica. Questo personaggio, infatti, vive il rapporto con le notizie raccolte sul web in modo talmente immersivo da diventare un fanatico capace di credere a qualsiasi tipo di complotto e odiare con tutto se stesso il nemico di turno individuato. Purtroppo sappiamo dalla storia quante volte i grandi complotti, inventati totalmente o ispirati da piccoli fatti reali, possano portare a drammatici esiti. Sappiamo anche quanto oggi sia facile in pochissimi click diffondere notizie totalmente infondate ma utili a confermare teorie complottiste o istigare all’odio contro il nemico di turno.
3. I diritti umani dalla proclamazione alla realtà
«Molte volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali diritti” è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune”. Ma “osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati”. Che cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti fondata sulla medesima dignità umana?» (Fratelli tutti, n. 22).
È del tutto evidente che ci sono seri ostacoli alla possibilità di garantire i diritti umani in tutto il mondo. L’Afghanistan purtroppo non è l’unico paese al mondo che non riesce a liberarsi da forze oscurantiste e liberticide. Vent’anni di occupazione di Stati Uniti e alleati, costata un numero di morti civili superiore secondo alcune stime alle trecentomila unità, insegna d’altronde che affidarsi alle armi per promuovere libertà e diritti umani non è poi così sensato. Oggi la speranza è che l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale continui a mantenere il più possibile il faro puntato su questo paese, per ridurre i rischi di persecuzione nei confronti delle donne emancipate che vogliono continuare a lavorare o delle ragazzine che vogliono continuare a frequentare la scuola. I paesi in cui persistono situazioni di rischio per i diritti umani sono veramente tanti. L’Egitto nei mass media italiani è emerso in tal senso prima per la tragica morte a seguito di inaudite torture del ricercatore sociale Giulio Regeni e successivamente per l’arresto di Patrick Zaki (dottorando di ricerca a Bologna) detenuto da più di un anno per reati di opinione. L’Egitto è il chiaro esempio di quanto siano sacrificabili i diritti umani sull’altare della realpolitik che poi in questo caso sono grosse commesse militari o contratti di compagnie energetiche italiane.
Ma è certamente la Libia il caso più scandaloso per l’opinione pubblica italiana e più vergognoso per le istituzioni italiane, che hanno promosso una serie di accordi prima con Gheddafi e poi con i governi provvisori succedutisi dopo la sua destituzione. La Libia toglie qualsiasi patina di ipocrisia rispetto al tema dei diritti umani. La stessa Unhcr, tornata in Libia dopo un accordo del dicembre 2015 con le autorità civili e militari libiche per cercare di monitorare la situazione, già in un rapporto del settembre 2018 scriveva apertamente che nulla era cambiato e tutto rimaneva in mano ad una miriade di milizie nel più sfrenato disprezzo dei diritti umani. «Uomini armati – scrive l’avvocato Lorenzo Trucco dell’Asgi a proposito dei contenuti del rapporto Unhcr – che lucrano soprattutto sui migranti provenienti dal Corno d’Africa e dai Paesi sub-sahariani e che attraverso la Libia sperano di poter raggiungere l’Europa. […] Qui subiscono trattamenti disumani, che spesso portano alla morte o a indelebili conseguenze fisiche o psichiche. Poco importa che questi luoghi dell’orrore siano ufficiali o non ufficiali. La Libia sarebbe per il rapporto un paese senza legge, dove nessuno rispetta i diritti umani».
Papa Francesco affronta anche il tema ricorrente delle vecchie nuove forme di schiavitù: «Riconosciamo ugualmente che, “malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. […] Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. […] La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine» (Fratelli tutti, n. 24).
Non tutto è schiavitù e alcune volte si tende a banalizzare lo stesso concetto di schiavitù. Le pagine più interessanti su questi argomenti sono state scritte da studiosi-attivisti black, tra cui in primis William Du Bois che negli anni ‘30 in un articolo su The Crisis spiegava il legame indissolubile tra questione razziale, schiavismo e capitalismo. Anche oggi profitto capitalistico, razzismo e situazioni di schiavismo o para-schiavismo sono inscindibili. Certamente la razializzazione di alcuni gruppi sociali con conseguenti percorsi di de-umanizzazione e marginalizzazione servono a creare situazioni tipiche della condizione di totale subalternità e dipendenza. Sono queste situazioni che spesso fanno parlare di nuovi schiavi, ma forse è più opportuno utilizzare termini come “sfruttati” o “razializzati” o “inclusione differenziale”.
4. Le mafie oggi
«La solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate dal sistema, fanno sì che si vada creando un terreno fertile per le mafie. Queste infatti si impongono presentandosi come “protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di aiuto, mentre perseguono i loro interessi criminali. C’è una pedagogia tipicamente mafiosa che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi» (Fratelli tutti, n. 27).
Papa Francesco non perde occasione di attenzionare con preoccupazione la questione delle mafie, che sfruttando le insicurezze e paure del momento potrebbero diventare strumento di dominio sulla società. Parlando di “dipendenza e subordinazione” il Pontefice tocca il tema preoccupante dello “Stato sociale” alternativo offerto dalle mafie nei riguardi della popolazione sprovvista di tutela istituzionale. La fortificazione dello Stato Sociale diventa dunque la via per sottrarre alle mafie la manovalanza dell’organizzazione, la cui carenza impedirebbe alle borghesie mafiose di espandersi. La metamorfosi della questione sociale: una cronaca del salariato di Robert Castel (del 1995 ma tradotto e pubblicato in Italia solo nel 2019), libro ormai classico per gli studi sociali, mette in luce i rischi di una società senza lavoro o con lavori talmente inconsistenti o con salari così bassi da mantenere comunque i lavoratori nel disagio. Di questo pericolo è consapevole Papa Francesco, come emerge dall’appello di questi giorni per un salario minimo e la riduzione dell’orario di lavoro in occasione dell’incontro in Vaticano con i “Movimenti popolari”. Occasione in cui ha anche chiesto alle case farmaceutiche di liberalizzare i brevetti dei vaccini e ai grandi gruppi finanziari di condonare i debiti contratti dai Paesi più poveri affinché possano garantire i bisogni primari dei cittadini.
I messaggi contenuti in questo primo capitolo di Fratelli tutti, che sono frutto anche di molte conferenze e prese di posizione di questi ultimi anni, così come i discorsi di questi ultimi giorni ci consegnano un vescovo di Roma con idee molto nette sulle questioni sociali. Dagli esiti dell’avviato sinodo delle Chiese locali si potrà appurare in che misura le posizioni assunte da Francesco su queste tematiche sociali siano sentite e accolte dentro la comunità cristiana.
Tindaro Bellinvia
Mercoledì della spiritualità 2021, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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