Lettura della “Fratelli tutti” di Papa Francesco, capitolo per capitolo, per riscoprire il volto fraterno dell’umanità. Capitolo VIII.
Lettura della “Fratelli tutti” di Papa Francesco, capitolo per capitolo, per riscoprire il volto fraterno dell’umanità. Capitolo VIII.
1. Un proposta impegnativa
Il capitolo VIII è l’ultimo dell’enciclica sociale Fratelli tutti. È un capitolo breve, composto da quindici paragrafi (nn. 271-285), a cui ne seguono due brevi (nn. 286-287) come conclusione a tutta l’enciclica. La brevità non sminuisce la portata impegnativa di questo capitolo, dove tutte le religioni, compresa quella cristiana, sono chiamate a dialogare e a collaborare tra di loro – nel segno dell’amicizia, della pace, dell’armonia e della condivisione di valori e di esperienze morali e spirituali «in uno spirito di verità e di amore» (n. 271) – per offrire il loro contributo alla costruzione della fraternità e alla difesa della giustizia nella società.
a) L’incontro esemplare e ispirante di Francesco d’Assisi con il Sultano d’Egitto
Trattando del dialogo con le religioni, papa Francesco – come si può intuire dalle sue considerazioni nei nn. 3-4, introduttivi dell’enciclica – si è voluto ispirare all’incontro tra Francesco d’Assisi e il Sultano di Egitto, riportato più volte nelle Fonti Francescane (=FF). Su questo incontro, il frate francescano Jean Gwénolé Jeusset, confrontando le fonti francescane e sfrondandole da ricami e toni apologetici, ritiene che storicamente sia accaduto quanto segue. Siamo in piena quinta crociata (1217-1221). Francesco di Assisi nel luglio del 1219, accompagnato da frate Illuminato da Rieti, si incontra con il sultano di Egitto Malik-al-Kamil, incontro che il santo volle a tutti i costi, pur subendo insulti e percorse nel campo dei saraceni.
Condotto finalmente davanti al sultano, Francesco fu accolto da questi con molta cortesia: si prese cura di lui delle percosse che aveva ricevuto dai soldati saraceni e della malattia agli occhi che aveva contratto sotto il sole di Egitto in mezzo ai feriti nel campo cristiano dei crociati. Al riguardo Jeusset annota il valore coranico ed evangelico della cortesia: nel Corano è scritto che «con quelli del libro [ovvero ebrei e cristiani] discutete sempre con la massima cortesia, salvo con quelli che sono ingiusti» (29,46); nei Fioretti di S. Francesco, citando Mt 5,45 riguardo all’amore verso i nemici, è scritto: «Sappi, frate carissimo, che la cortesia è una delle proprietà di Dio, il quale dà il suo sole e la sua piova alli giusti e agli ingiusti per cortesia; e la cortesia si è sirocchia della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore» (cap. 37: FF 1871). Interessante coincidenza tra il Corano e un testo cristiano…
Stando di fronte al sultano, Francesco, per togliere ogni dubbio dalla mente del sovrano, sottolinea con chiarezza che egli è venuto come cristiano inviato da Dio, non come messaggero dei crociati, né tantomeno come crociato. Il sultano comprende bene il ruolo religioso dei due frati e offre loro di poter soggiornare presso di lui. Francesco con parresia ma senza polemizzare gli annuncia il vangelo. Il sultano lo ascolta volentieri, ma non si converte. Francesco allora esprime il desiderio di tornarsene a casa. Il sultano gli offre dei doni e denaro per i poveri, che Francesco rifiuta. Il sultano rimane ammirato di questo sufi cristiano. Al momento del distacco, il sultano chiede a Francesco di pregare per lui. Francesco torna al campo crociato di Damiata scortato dal corteo delle guardie del sultano. Si può immaginare lo stupore dei musulmani nel vedere passare il corteo e lo sbigottimento dei crociati nel veder tornare Francesco, ormai considerato morto.
Questo incredibile incontro del Poverello di Assisi «ci mostra – commenta papa Francesco – il suo cuore senza confini, capace di andare al di là delle distanze dovute all’origine, alla nazionalità, al colore o alla religione» e «comportò per lui un grande sforzo a motivo della sua povertà, delle poche risorse che possedeva, della lontananza e della differenza di lingua, cultura e religione. Tale viaggio, in quel momento storico segnato dalle crociate, dimostrava ancora di più la grandezza dell’amore che voleva vivere, desideroso di abbracciare tutti. La fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore per i fratelli e le sorelle. Senza ignorare le difficoltà e i pericoli, San Francesco andò a incontrare il Sultano col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi “tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio”. In quel contesto era una richiesta straordinaria. Ci colpisce come, ottocento anni fa, Francesco raccomandasse di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna sottomissione, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede.
Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che “Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Gv 4,16). In questo modo è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna, perché “solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre”. In quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie potenti, mentre crescevano le zone miserabili delle periferie escluse. Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti. A lui si deve la motivazione di queste pagine» (Fratelli tutti, nn. 3-4).
Mi sia permessa qui una breve annotazione integrativa. Nell’anno 1219 in cui il Santo di Assisi incontrava il sultano di Egitto, sul Monte Carmelo in Palestina, vicino alla cosiddetta fonte di Elia (il profeta biblico), dimorava sin dai primi anni del XIII secolo la comunità fondatrice dell’Ordine dei Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Questa comunità di frati-eremiti, formata da pellegrini e forse anche da ex-crociati, dimorando sul Monte Carmelo volle profeticamente testimoniare che è possibile in Terra Santa, terra – ieri come oggi – altamente conflittuale, vivere come fratelli nel Signore, rivestendosi dell’armatura di Dio (cf. Ef 6,10-17; Regola del Carmelo, 18-19), l’unica capace di disarmare noi stessi e gli altri, per annunciare con mitezza l’evangelo e costruire una presenza di vera fraternità al servizio della pace e della giustizia.
b) «Fuori della Chiesa non c’è salvezza»: distorsione di un assioma
Quanto fin qui detto, è sufficiente per rendersi conto come la proposta del cap. VIII della Fratelli tutti sia molto impegnativa e complessa. E lo diventa ancor di più, se pensiamo alla visione negativa, fatta qualche eccezione, nei confronti delle altre religioni perdurata lungo secoli, come pure l’affermazione dell’assolutezza del cristianesimo e della sua superiorità sulle tutte le religioni. Al riguardo, basti pensare all’involuzione del significato subita dall’assioma patristico «fuori della Chiesa non c’è salvezza». Tale assioma, formulato da Origene (II sec.) e ripresa da Cipriano (III sec.), vescovo di Cartagine, intendeva far prendere coscienza ai cristiani battezzati – contro le varie forme di dissoluzione del tessuto ecclesiale – della dimensione ecclesiale-comunitaria della salvezza operata da Cristo. Esso era espressione dell’annuncio della buona notizia: nella chiesa c’è salvezza, ed è quella donata da Cristo Gesù, poiché «in nessun altro c’è salvezza» (At 4,12).
L’assioma, in origine rivolto esclusivamente ai cristiani, aveva dunque un significato cristologico ed ecclesiologico positivo. Come alquanto positiva da parte di alcuni padri della chiesa, come ad esempio Giustino (100-165) e Clemente di Alessandria (150-210), fu la loro visione delle altre religioni. Essi affermavano che già prima della venuta di Cristo sulla terra l’umanità ha ricevuto i semi del Logos, i semi del Verbo; infatti tutto ciò che di vero, di buono e di giusto l’umanità ricerca, elabora e produce, lo si deve alla grazia del Logos presente in essa. Questa dottrina si fonda teologicamente e antropologicamente sulla presenza attiva e centrale di Cristo nella creazione e sull’essere umano, creato ad immagine di Dio, orientato ad incontrare la rivelazione avvenuta in Cristo; come a dire: la natura umana ha in sé “un’anima cristiana”. Risale a Ilario di Poitiers (310ca-367) l’affermazione che «i raggi della Parola di Dio sono sempre pronti a brillare là dove le finestre dell’anima si aprono».
Ritorniamo all’assioma patristico. Col passar del tempo, lo stesso assioma venne interpretato in una prospettiva marcatamente negativa, vale a dire esclusivista. Esso non riguardava più i cristiani ma i non cristiani, ovvero i credenti di altre fedi religiose, oltre che gli atei e gli agnostici. Questo mutamento del significato originario dell’assioma raggiunse il suo primo apice nel 1300 con papa Bonifacio VIII, il quale, dando per scontato che, tramite l’azione pastorale dei missionari, ormai tutti i popoli della terra avevano conosciuto il vangelo di Gesù Cristo e la salvezza da Lui offerta mediante la Chiesa, e consapevole, quindi, di essere il capo supremo di una grande e vasta Chiesa, dichiarò e stabilì nella bolla Unam sanctam (18 novembre 1302) «che l’essere sottomessi al Romano Pontefice è, per ogni creatura, necessario per la salvezza». In seguito, dopo quasi 140 anni, il concilio di Firenze (1441) dichiarò che «nessuno di quelli che sono fuori della chiesa cattolica […] potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, se prima della morte non saranno stati ad essa uniti». Nella stessa prospettiva si collocano in maniera sempre più crescente le dichiarazioni dei papi della chiesa cattolica che si sono succeduti, fino a Pio XII (papa dal 1939 al 1958). Da qui si comprende che mutando l’interpretazione originaria dell’assioma patristico, mutò anche il senso della missione, intesa non tanto come annuncio della buona notizia della speranza e della salvezza, ma come giudizio sugli gli estranei, su quelli che sono al di fuori della Chiesa.
c) Visione inclusivista e pluralista
È a partire dal concilio Vaticano II (11 ottobre 1962-8 dicembre 1965) che la Chiesa cattolica – cattolica nel senso di chiamata ad incarnarsi in ogni luogo e cultura e in ogni situazione, quindi aperta all’universalità – inizia ad aprirsi al dialogo con le altre fedi e religioni, a non demonizzarle, ma ad imparare ad avere una visione positiva di esse, assumendo una prospettiva più inclusivista e, negli anni del post-concilio, ad assumere una prospettiva pluralista (ancora in via di maturazione) che sia di comprensione teologica – e non solo culturale – delle religioni come vie di incontro con Dio e di salvezza in Lui. Per quanto riguarda il Vaticano II, è la prima volta che un magistero di così alto livello si occupa della relazione della Chiesa con le religioni non cristiane. Si tratta della dichiarazione Nostra aetate, dove al n. 2 riconosce nelle religioni la presenza di una divinità suprema o paterna, e per questo esse si propongono come «vie, cioè come dottrine, precetti e riti sacri». Sempre al n. 2, rifacendosi alla dottrina patristica dei semi del Logos, afferma che la Chiesa cattolica nulla rigetto di quanto è vero e santo nelle religioni; inoltre, senza venir meno all’annuncio del vangelo, la Chiesa rispetta il loro stile di vita e le loro dottrine, perché ritiene che «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
Anche nella Lumen gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa, al n. 16 il concilio afferma che quanto di giusto, di vero e di bene si trova nelle religioni non cristiane è «come una preparazione al vangelo», è dono del Signore che illumina ogni persona umana affinché abbia la vita. E nella dichiarazione Dignitatis humanae, che tratta della libertà religiosa, al n. 2 il concilio sostiene (finalmente!) che il libero esercizio della religione fa parte dei diritti fondamentali di ogni persona umana, che lo stato ha il compito di proteggere e di far rispettare. Negli anni che seguono il Vaticano II, il magistero della Chiesa continua ad esprimere la sollecitudine pastorale per la promozione del dialogo interreligioso.
Fra i vari documenti, accenno all’enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), sulla missione della Chiesa, di Giovanni Paolo II, il papa che il 26 ottobre 1986 prese l’iniziativa di invitare ad Assisi gli esponenti delle religioni mondiali a pregare unitamente – anche se in posti diversi della città – per la pace nel mondo. Gesto profetico – rimasto unico –, dove il vescovo di Roma ospitava, per la prima volta nella storia, «un incontro dove ognuno fu se stesso e dove lo stesso vescovo di Roma garantì per così dire lo spazio perché ognuno fosse se stesso. […] Non fu un’abdicazione ad imporre la propria verità, assorbendo la differenza in un comune denominatore, ma la testimonianza che la propria verità era capace di accogliere l’altro. […] Infatti il gesto di Assisi non comporta in primo luogo un’apertura, un dialogo o altro simile, ma una comunicazione nella differenza. Ad Assisi i cristiani e gli esponenti delle altre religioni hanno comunicato in ciò che c’è di più intimo nell’esperienza religiosa, la preghiera, lasciando tuttavia intatta la differenza della loro preghiera […] ciò che era specifico di ognuno, la preghiera, non per questo era fatta senza l’altro o accanto all’altro, ma con l’altro».
La Redemptoris missio nei nn. 55-56 riprende quando già aveva affermato il Vaticano II, ma evidenzia due aspetti interessanti: 1) la presenza di Dio in Cristo Gesù nei popoli «mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione» (n. 55), pur contenendo lacune ed errori; 2) il dialogo interreligioso come rispetto per tutto ciò che lo Spirito, soffiando dove vuole, opera nell’essere umano, e quindi per i germi del Verbo e i raggi della verità che illuminano l’esistenza umana, «germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell’umanità» (n. 56).
2. Accostiamoci al capitolo VIII della Fratelli tutti
È stato necessario compiere questo percorso prima di accostarci al cap. VIII, per comprendere – lo ripeto ancora – tutta la complessità e la portata impegnativa della proposta di papa Francesco. Non possiamo ignorare la scarsa (o quasi nulla) formazione della maggior parte dei cristiani (eccetto gli esperti del settore) sul senso delle religioni e sul dialogo interreligioso, come pure sugli elementi fondamentali della stessa vita cristiana e sulle S. Scritture dell’Antico e Nuovo Testamento. Ci vuole una seria formazione alla vita cristiana, perché oggi le nostalgie del passato pre-conciliare sono ritornate alla ribalta, compresi i rigurgiti di intolleranza contro le religioni (in particolare l’islam e l’ebraismo) e di razzismo contro gli uomini e le donne di etnie e di culture diverse che non sia quella occidentale. Dentro questo contesto risuona forte l’esortazione di papa Francesco a dialogare e a collaborare tra religioni diverse per un mondo più umano e fraterno. Nella lettura del cap. VIII – testo molto chiaro e comprensibile – mi limito soltanto a qualche sottolineatura e annotazione.
a) Per impegnarci in tale dialogo amicale e operativo, il papa pone un presupposto: il «riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiama ad essere figlio o figlia di Dio» (n. 271).
b) Poi indica il fondamento ultimo, trascendente della fraternità universale (nn. 272-279): il riconoscimento della paternità universale di Dio (n. 272) che ci rende figli e figlie e perciò fratelli e sorelle tra di noi. È su questa esperienza fondante che si radica la fraternità universale. Ogni religione, compresa la cristiana, questo lo sa: l’amico o l’amica lo/la si sceglie, il fratello o la sorella lo/la si riceve e accoglie come dono dei genitori e di Dio Padre/Madre fonte e amante della vita. Le religioni, che sono vie di fede, di sapienza e di spiritualità, sono chiamate ad entrare nel dibattito pubblico – con mitezza e non con arroganza – per aiutare a riflettere che la ricerca di Dio Padre di tutti è un bene per le nostre società, perché ci libera dall’idolatria di noi stessi, dalla ricerca dei propri interessi di parte, dalla eccentricità del proprio ego, e ci aiuta a riscoprire il vero Senso della vita. Ecco: le religioni – compresa la religione cristiana che professa Gesù nostro Signore e nostro Fratello (cf. Eb 2,11-14; Mt 23,8; 12,46-50) – sono chiamate a far riscoprire agli uomini e alle donne del nostro tempo il Senso vero della vita, e di conseguenza il valore profetico della fraternità e della sororità.
c) Infine, papa Francesco nei nn. 281-284 tocca un nervo scoperto presente in tutte le religioni: la violenza, la tentazione di ricorrere alla guerra santa in nome di Dio, o meglio strumentalizzando – perché di questo si tratta – il nome santo di Dio; ma anche la violenza verbale che demonizza l’altro, che lo ferisce moralmente, che lo emargina. Nella storia tutto questo è successo: basti pensare alle guerre di religione, anche all’interno di una stessa confessione di fede, come quella cristiana, avvenute nel nostro occidente che si vanta di avere radici cristiane. E tutto questo accade anche oggi: c’è il fondamentalismo islamico di matrice terroristica, che non ha nulla a che vedere con l’islam religioso, pacifico e tollerante; c’è anche il fondamentalismo cristiano, intollerante, aggressivo e violento, tradizionalista (ma non ancorato alla vera Tradizione della Chiesa) e nostalgico del passato, incapace di dialogo e sempre propenso a strumentalizzare, per fini di consenso sociale e politico, i simboli cristiani del presepe e del crocifisso, senza però comprenderne il senso cristiano ed evangelico autentico, poiché non gli interessa confessare Cristo Gesù così come ce lo narrano i Vangeli (che sono normativi per la fede cristiana), gli interessa solo mostrarsi fanatico della tradizione cattolica, manipolata a proprio uso e consumo. Le religioni sono chiamate a prendere le distanze da tutto questo. Confessare nel culto e nella vita Dio Padre di tutti – e per i cristiani il Dio Padre di Gesù Cristo e nostro Padre – significa, rispettare la sacralità della vita, la dignità e la libertà degli altri e impegnarsi con amore per il benessere di tutti e per la pace tra i popoli (cf. n. 283), affinché si possa edificare una vera fraternità universale e un’autentica amicizia sociale.
Egidio Palumbo
Mercoledì della spiritualità 2021, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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