Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 3
Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 3
1. La nascita della città secondo la Scrittura
La città è l’invenzione di un fratricida, il cui nome è Caino (Gen 4,17). Come può l’assassino di suo fratello essere il costruttore della civiltà? Eppure, leggendo la sua storia, si comprende il motivo: Caino è un uomo respinto, apparentemente senza motivo, che non sopporta la discriminazione e vi si ribella in modo violento (vv 1-5). Ma il fratello Abele, il cui nome si lega per assonanza al termine “soffio”, è indice di quella vanità (significato metonimico derivato dal precedente “soffio”), che può trasformarsi in presunzione di superiorità e di grandezza ostentata sfacciatamente di fronte all’altro, ciò che irrita Caino: l’errare del pastore, del viandante, può diventare diabolico. Ma su Caino che uccide e che a modo suo si pente è posto un segno ambivalente: quello della maledizione (v 11), che dispiace, perché essa, la maledizione, viene da Dio e ci si chiede allora come Dio possa dichiarare maledetto un uomo, fosse anche l’uccisore di suo fratello, che rimane pur sempre un suo figlio, stando alle parole di Eva, la quale afferma di aver acquistato un uomo con Dio (v 1); e quello della custodia (v 15), per cui Caino non sarà più costretto a fuggire, ma nell’animo resterà inquieto.
Fonda allora una città per trovare pace: ma questa ha lo stesso nome del suo primogenito (v 17b). Una scoperta terribile, che fa inorridire: non forse che la città è costruita sul sacrificio del primogenito? Gerico, la più antica città della terra, nasce proprio così ed in tal modo è fondata di nuovo: «Chiel di Betel ricostruì Gerico; gettò le fondamenta sopra Abiram suo primogenito e ne innalzò le porte sopra Segub suo ultimogenito» (1Re 16,34). Il sangue del primo figlio inaugura il sorgere della civiltà. Nella città sono il contadino, l’artigiano, il fabbro, il vasaio (Gen 4,20.22), coloro che, secondo quanto scrive il Siracide, «hanno fiducia nelle proprie mani» (Sir 38,31): «senza di loro», continua lo stesso Siracide, «sarebbe impossibile costruire una città» (v 32). La città conosce i cantori, i suonatori di cetra e di flauto e, insieme, Naama, l’amata, la bella, la cui professione è svelata dal suo stesso nome (Gen 4, 21.22b). La città di Caino non soffre della tensione con una periferia, simbolo del caos e del male: in essa tutto sembra unificato, secondo un procedere sereno, se non proprio ordinato. Essa sorge in un contesto di genealogie che, nel libro di Genesi, si estendono dal cap. 1 al cap. 11: la genealogia è dunque strettamente legata a una progressione nella quale vengono inserite (per lo più singolarmente) le varie ‘invenzioni’ che costituiscono il patrimonio attuale di quelle istituzioni e di quei beni che formano il tessuto civile e culturale dell’umanità storica.
La città è frutto, pertanto, di relazioni, situandosi in un contesto di genealogie: relazioni che generano vita o la uccidono, relazioni che stringono patti di mutuo soccorso ispirandosi alla solidarietà o che possono esplodere in conflitti incontenibili sino alla violenza, enorme e ingiustificata, come lascia chiaramente arguire l’exploit di vanto di Lamech, che è, di conseguenza, una possibilità e non soltanto e semplicemente un’affermazione eccessiva: «ho ucciso un uomo per una mia scalfitura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Gen 4,23-24). La città è, pertanto, parte di quei beni di civiltà, necessari, ma ambivalenti perché il loro esito supera i limiti delle possibilità umane, che scaturiscono dall’impossibilità di vivere le origini ideali per l’umanità: di quest’ultima la città reca i segni della complessità e della contraddizione.
2. Gerico, chiusa e cieca
Gerico è la prima città che gli israeliti si trovano innanzi nel loro ingresso nella Terra promessa con a capo Giosuè. Questi invia due uomini a esplorare la città ed il suo territorio: è Raab, la prostituta, a nasconderli dalle guardie del re di Gerico, strappando loro la promessa di salvezza per sé e la sua famiglia nel giorno in cui avrebbero conquistato la città stessa (Gs 2). Il popolo di Israele, in una scena che allude al passaggio del Mar Rosso (Es 14,15-31), guada il Giordano a piedi, essendosi le sue acque divise dinanzi all’arca dell’alleanza del Signore (Gs 3-4). Gli israeliti si accampano quindi a Galgala: qui, per ordine del Signore, Giosuè circoncide quelli nati nel deserto, che non erano ancora circoncisi. Finiti i giorni necessari per la guarigione, celebrano la Pasqua al quattordici del mese e, dopo la festa, iniziano a mangiare i frutti della terra. Il dono della manna si rivela allora non più necessario e cessa (Gs 5,1-12).
Ed è allora che Giosuè vede un uomo con una spada sguainata e, in modo certamente temerario, ma che ostenta una certa sicurezza allo stesso tempo, gli si avvicina. L’uomo rivela di essere il capo dell’esercito del Signore e ordina a Giosuè di togliersi i sandali, essendo santo il luogo da egli calpestato. Il testo di Gs 5,1-13 è parso oscuro e problematico: diversi autori ritengono sia mancante di un prosieguo. Esso presenta delle similitudini con l’episodio dell’apparizione dell’angelo del Signore a Balaam (Nm 22,23.31) e con quello della visione che Davide ha dell’angelo che brandisce la spada (1Cr 21,16).
Il fatto che dinanzi a Giosuè l’essere divino compaia nelle fattezze di un uomo e che, pertanto, debba presentarsi, lo differenzia, allo stesso, tempo, dai testi sopra citati. La rivelazione dell’uomo come capo dell’esercito del Signore è unica nella Scrittura. Come Balaam, anche Giosuè chiede cosa deve fare. La risposta, breve, sul modello di quella data a Balaam, allude chiaramente a Es 3,5: la differenza risiede nel fatto che se lì a Mosè è chiesto di togliere i sandali perché una porzione del deserto è resa santa dalla presenza di Dio, qui a Giosuè è chiesto di stare scalzo perché tutta la Terra promessa è santa e non può essere calpestata, perché essa non è una terra come le altre. Il brano di Gs 5,13-15 è, pertanto, un brano cerniera: esso conclude la serie di azioni compiute dagli israeliti al momento del loro ingresso nella Terra (circoncisione, Pasqua, cibo con i frutti) ed apre alla conquista di Gerico con l’avvertenza che quest’ultima non è, in realtà, un merito di Israele, ma rientra anch’essa nel dono che Dio fa della terra (Gs 6,2-5). Sembra quasi un’avvertenza contro la guerra stessa.
Gerico è una città chiusa saldamente per paura e non consente a nessuno di entrare e uscire. Alte mura sembrano circondarla, ma esse non vengono descritte. In Gs 6,1-5 Dio istruisce Giosuè circa le modalità e gli strumenti d’attacco, questi ultimi costituiti dall’arca e dalle trombe di corno d’ariete, suonate dai sacerdoti. Come sette sono le trombe, così sette sono i giorni impiegati per la distruzione delle mura della città di Gerico: il numero, come chiaramente si evince, è simbolico e si lega alla teologia sacerdotale (cfr Gen 1,1-2,4a: la creazione in sette giorni). In Nm 10,8-9, capitolo riguardante le istruzioni di marcia di Israele nel deserto, fornite da Dio, è scritto: «I sacerdoti figli di Aronne suoneranno le trombe; sarà una legge per voi e per i vostri discendenti. Quando nel vostro paese andrete in guerra contro il nemico che vi attaccherà, suonerete le trombe con squilli di acclamazione e sarete ricordati davanti al Signore vostro Dio e sarete liberati dai vostri nemici».
Il suono delle trombe in guerra è un’ordinanza valida per tutte le generazioni in Israele (leḥuqat ʻôlām). Il suono delle trombe ricorda Israele dinanzi al Signore, che pare così configurarsi come il condottiero in battaglia ed il liberatore del suo popolo. Il verbo ricordare – nel testo in ebraico wenizekāretem – è d’indole liturgica. Il v. 10 registra l’ordine di suonare le trombe «nelle vostre solennità e al principio dei vostri mesi», quando si offrono gli olocausti ed i sacrifici di comunione. Dal v. 11 al v. 28 è descritto «l’ordine con cui gli israeliti si misero in cammino, secondo le loro schiere» (v. 28), una marcia nel deserto nei termini di una mobilitazione bellica. Il v. 33 rivela che l’arca è in testa agli accampamenti delle dodici tribù in marcia; i vv. 35-36 trasmettono un canto di guerra, attribuito a Mosè, simile alla teru’ah, l’urlo dell’esercito che si appresta alla battaglia svolto secondo moduli liturgici.
Le guerre di difesa, come appare in Nm 10,9, si risolvono poi in guerre di conquista, come dimostra il racconto della presa di Gerico (Gs 6). E il concetto di guerra santa subisce una modifica nella sua espressione narrativa, ma non decade, diventando non soltanto un’immagine letteraria, ma una struttura, veicolata dal linguaggio, attraverso la quale legittimare, giustificare o spiegare gli eventi attuali (ritorno in patria degli esuli della diaspora babilonese, loro pretesa di essere il popolo di Dio, annessione di territori sotto il controllo della Giudea, circoncisioni forzate, proibizione dei matrimoni misti, elezione di Gerusalemme e del Tempio in essa quale unico luogo di culto), conferendo loro autorevolezza attraverso una retroiezione nel passato di motivi ideologici quali l’elezione, l’alleanza e le stesse guerre, presentate come un’azione sacra condotta e voluta da Dio stesso.
La fede esplica, pertanto, un potenziale bellico, trasformando le processioni cultuali (in Gs 6,7 il popolo è disarmato) in scritti di chiara matrice politica, fornendo così uno statuto di legittimità a guerre di conquista, occupazione di territori, assunzione di potere: la presa di Gerico in Gs 6 ne è una prova evidente, sia nella sua composizione letteraria sia che si mettano a confronto i dati scritturistici con quelli archeologici, i quali ultimi non testimoniano a favore di un’occupazione armata della città nel XIII secolo. Ciò che raggiunge il lettore è il racconto che cela l’intenzione dell’autore dietro il fascino della storia narrata: inevitabilmente, ci si schiera dalla sua parte, pur essendo la più violenta. La verità del racconto presume di essere la narrazione stessa, non il suo accadimento reale in termini di cronaca, poiché in tal modo essa può convincere della giustezza di alcune istituzioni dell’oggi e forzare l’interpretazione dei testi medesimi nei termini della continuità.
In tal modo, non solo viene redatto un Libro delle guerre di YHWH, andato perduto, di cui dà notizia Nm 21,14, ma YHWH medesimo è definito come «l’uomo della guerra» (Yehwāh ’îsh mileḥāmāh Yehwāh shemô, «il Signore è un guerriero, Signore e il suo nome») in Es 15,3; il popolo stesso in armi è definito «esercito di YHWH» in Es 12,41 e deve mantenersi in stato di purità rituale (Gs 3,5) e in continenza (1Sm 21,6) per tutto il tempo del bivacco di YHWH nell’accampamento (Dt 23,10-15). L’istituto del ḥerem, lo sterminio dei nemici e dei loro beni per offrirli a Dio come bottino, presente anche nella cultura bellica delle altre popolazioni del Vicino Oriente Antico, ha valenza cultuale. Storicamente, non sembra che esso venne applicato: Gdc 1 elenca le popolazioni che Israele tenne in vita, contrariamente alle disposizioni di Dio espresse in Dt 20,16-18. La permanenza degli abitanti della terra di Canaan e le continue guerre che essi ingaggiarono contro Israele diventa, nella penna del redattore deuteronomista, un motivo teologico che non soltanto attraversa lo stesso libro dei Giudici, fornendone la chiave di comprensione, ma legittima anche le guerre medesime intese come purificazione cultuale dall’idolatria cui Israele era indotto.
In prossimità di Gerico, secondo la narrazione lucana, che in questo differisce dalla fonte marciana, Gesù incontra un cieco che mendica sul ciglio della strada (Lc 18,35-43). La scena è divisa in due parti: i vv. 35-39 hanno per soggetto il cieco, i vv. 40-42 sottolineano, in parallelo, la soggettività di Gesù che si muove verso il cieco. Quest’ultimo, sentendo la folla, aveva chiesto cosa accadesse e, una volta informato, grida in maniera insistente, sebbene gli astanti gli intimino di tacere. Gesù, fermatosi, ordina di condurgli il cieco e, nel dialogo con lui, si afferma la volontà di guarigione espressa al v. 43, che delle due sezioni costituisce l’epilogo. Il cieco ha gridato, pronunciando una delle preghiere cristiane più antiche: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me» (vv. 38-39). L’ascendenza davidica è di marca messianica ed è tipica del vangelo secondo Luca. La folla, peraltro, aveva indicato Gesù come Nazoraios, termine che non sembrerebbe indicare l’abitante di Nazaret, quanto piuttosto alludere al germoglio (in ebraico neṣer) di Davide di Is 11 e Ger 23, il Messia per l’appunto.
La domanda di Gesù permette al cieco di trasformare il grido inarticolato in richiesta di salvezza, quest’ultima espressa dal desiderio di riavere la vista. L’immediatezza del miracolo trasforma il cieco in un seguace di Gesù: dietro di lui il cieco, ormai vedente, loda Dio, coinvolgendo nel ringraziamento la folla che, nel frattempo, è divenuta popolo. Egli è il paradigma del vero discepolo, che somiglia a un bambino (Lc 18,15-17), sa privarsi dei propri beni (18,18-30) e accogliere Gesù (19,1-10). Egli ha recuperato la vista (cfr. lo stesso verbo in At 22,13 per Paolo), il che può significare passare da un’umanità cieca, perché accecata, a una cristianità credente e aperta all’essenziale che si manifesta.
3. Gerusalemme, aperta e luminosa
Gerusalemme, il cui nome antico era Gebus, città imprendibile ed inospitale, venne conquistata, in modo mirabile, dal re Davide, che la volle capitale del suo regno, al cui trono era asceso dopo la tirannia di Saul. I Gebusei avevano osato deridere l’attacco di Davide canzonandolo: «Costoro dissero a Davide: “non entrerai qui: basteranno i ciechi e gli zoppi a respingerti”» (2Sm 5,6). Davide, impadronitosi della città, si ricordò di questa sfida canzonatoria e rese la città luogo di discriminazione: «quanto ai ciechi e agli zoppi sono in odio a Davide. Per questo dicono: il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa» (v. 8). Nella città di Gerusalemme, la cui etimologia rimane incerta e non sembra affatto rispecchiare quella nota di “città della pace”, Davide vuole costruire un Tempio a Dio: sarà il figlio Salomone ad ereditare il desiderio del padre e a far eseguire la costruzione.
Quando l’Assiria nel 700 fallì la presa della città, sorse il mito della città indistruttibile: «Udite questo, dunque, capi della casa di Giacobbe, governanti della casa d’Israele, che aborrite la giustizia e storcete quanto è retto, che costruite Sion sul sangue e Gerusalemme con il sopruso; i suoi capi giudicano in vista dei regali, i suoi sacerdoti insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro. Osano appoggiarsi al Signore dicendo: “Non è forse il Signore in mezzo a noi? Non ci coglierà alcun male”. Perciò, per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un’altura selvosa» (Mi 3, 9-12).
Il profeta Michea lancia una dura invettiva, accompagnata da una minaccia, contro i governanti della casa di Israele, identificati nei capi, nei sacerdoti, nei profeti: dalla presunzione di essere al sicuro nessuno è immune, né il potere civile né quello religioso. Ed entrambi commettono il peccato più grave che la tradizione biblica di Israele possa conoscere: non la trasgressione della Legge, che è evidente, ma la sua perversione, che è un peccato più sottile, ciò che si denuncia come menzogna: «Come potete dire: “Noi siamo saggi, la legge del Signore è con noi?”. A menzogna l’ha ridotta la penna menzognera degli scribi! I saggi saranno confusi, sconcertati e presi come in un laccio. Essi hanno rigettato la parola del Signore, quale sapienza possono avere? Per questo darò le loro donne ad altri, i loro campi ai conquistatori, perché, dal piccolo al grande, tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote, tutti praticano la menzogna. Essi curano la ferita del mio popolo ma solo alla leggera, dicendo: “Bene, bene!”, ma bene non va. Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli, ma non si vergognano affatto, non sanno neppure arrossire. Per questo cadranno con le altre vittime, nell’ora del castigo saranno prostrati, dice il Signore» (Ger 8,8-12).
La menzogna nella città è un peccato di ordine sociale, che rompe quell’armonia di diritto e giustizia che alla città medesima viene dalla santità di Dio che abita il Tempio. Il profeta Isaia denuncia la sterilità di un culto che copre le ingiustizie sociali e si allinea con il potere per ricavarne un guadagno, rinunciando così all’accusa esplicita dei mali della comunità (cfr. Is 1,10-20); il profeta Amos descrive una serie di reati che investono anche, nella menzione del padre e del figlio che vanno dalla stessa ragazza, la sfera affettiva, anch’essa corrotta e soggetta a instabilità e mutevolezza come le altre realtà umane (cfr. Am 2,6-16). Inoltre, sottolineando come padre e figlio si rechino dalla stessa prostituta, il profeta protesta l’assenza di un istituto familiare in toto e la sua malattia: il problema, infatti, non è soltanto quello della mancanza di figure parentali quali i genitori, ma insieme e soprattutto quello di un’educazione delle giovane generazioni improntata a liberismo e che non tiene più conto della linea di differenza generazionale. Accade perciò quanto è scritto: «Io metterò come loro capi ragazzi, monelli li domineranno. Il popolo userà violenza: l’uno contro l’altro, individuo contro individuo; il giovane tratterà con arroganza l’anziano, lo spregevole, il nobile… La loro parzialità verso le persone li condanna» (Is 3,4-5.9).
La perversione della legge è l’espressione della rottura di quell’alleanza che lega gli uomini tra di loro. Ogni relazione, che si definisce come alleanza, è, infatti, oggettivata in una legge che ne chiarisce i termini, impedendole di cadere nell’ambiguità o di essere tale: la trasgressione di questa legge o la sua riduzione a menzogna comporta un deterioramento della relazione stessa sino al suo sfacelo, che, in categorie bibliche, si traduce in esilio e in autodistruzione. La restaurazione della città segue al ristabilimento dell’alleanza infranta, oggettivata in una legge che è interiorizzata, scritta nel cuore (cfr Ez 36,26-35; Ger 31,31-34; Is 54): l’attenzione all’altro, la sua cura, la solidarietà della comunità umana, però, in questo caso, si ritengono inscritte nella natura stessa dell’uomo ed esplicitate poi nella creazione dei beni di civiltà.
Le città nemiche o straniere sembrano, nelle Scritture di Israele e nel vangelo, essere più attente al richiamo profetico che invita a cambiare i passi che potrebbero condurre alla distruzione: Ninive si converte alla predicazione del profeta Giona (cfr. Gn 3-4) e Gesù denuncia l’incredulità di città religiose quali Corazin, Betsaida, Cafarnao, ponendole a confronto di Tiro e Sidone o di Sodoma e Gomorra (Mt 10,15; 11,21.23; Lc 10,12-13), le quali, nel suo giudizio, sarebbero state più disposte a correggere le loro politiche rispetto a quelle città che subiscono l’abbaglio dell’onnipotenza in campo civile e religioso. Di Gerusalemme, poi, Gesù, piangendo, si rammaricherà, poiché essa non ha riconosciuto né la via della pace né il tempo della visita di Dio nei suoi profeti, che ha sempre ucciso e per i quali ha poi innalzato splendidi sepolcri (Mt 23,37; Lc 13,34-35; 19,41-44).
La città non sembra essere il luogo della guarigione né tanto meno il Tempio (Mc 1,33; At 3,1ss): occorre che essa discenda dall’alto, come la Gerusalemme celeste descritta in Ap 21, e che in essa non vi sia più il tempio, sostituito dalla presenza viva di Dio stesso (vv. 22-23), perché il dolore, la sofferenza e la morte siano cancellati dalla sua faccia (v. 4). In questa città non abitano i mentitori, la cui sorte è lo stagno di fuoco, segno di una perenne confusione e di un loro oblio da parte di tutti gli altri uomini. Chi mente rimane solo (v. 8). La città ideale è pertanto un’aspirazione legittima che si fa storia e cammino (Eb 11,9-10.13-16): essa si costruisce nel momento in cui ci si riconcilia con l’estraneità più grande, quella verso se stessi. Solo allora, rinunciando alla tentazione del possedere afferrando, si costruisce, nella logica e nelle strutture, la città perfetta intravista nella visione. In questa città, rivestita della gloria di Dio (Ap 21,10), le porte delle mura sono sempre aperte: dai quattro angoli del mondo giungono le nazioni recando la loro gloria ed il loro onore (v. 26), cioè le loro ricchezze culturali, che l’annuncio cristiano ha messo in luce accogliendole.
Don Carmelo Raspa
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