Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. Ritornare a Gesù per seguire il suo stile filiale e fraterno.
Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. Ritornare a Gesù per seguire il suo stile filiale e fraterno.
1. L’ingiusta e assurda guerra fratricida nei nostri giorni
In questi giorni drammatici dell’assurda guerra fratricida tra Russia e Ucraina – paesi cristiani – ci appare sempre più evidente l’urgenza di ritornare all’evangelo, per riaffermare e consolidare la nostra fede/fiducia in Cristo Gesù, in colui che è «la nostra Pace» (Ef 2,14) e che ci dona la sua pace e non la pace che scaturisce dalle logiche aggressive e violente del mondo (cf. Gv 14,27). Facciamo nostre le parole di papa Francesco che, nell’appello del 23 febbraio al termine dell’udienza generale, definendo insensata questa guerra (come d’altronde lo sono tutte le guerre), affermava con chiarezza che il Dio che noi professiamo e davanti al quale noi stiamo è «Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno; che ci vuole fratelli e non nemici». Con amarezza constatiamo invece che Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, ha dichiarato giusta questa guerra nell’omelia di domenica 6 marzo, denominata, secondo la liturgia ortodossa, Domenica del perdono (!) che precede la Grande Quaresima.
Assieme al patriarca Kirill, anche altri cristiani, pastori e fedeli laici, pensano e affermano che la guerra sia uno strumento utile e giusto per eliminare i mali del mondo. Ma questo nostro mondo è complesso, dove le ragioni per confliggere ci sono da una parte e dall’altra, e dove per governare la complessità sono necessari non la demonizzazione dell’altro, l’aggressione e le armi, bensì il rispetto dell’altro, il dialogo e il confronto per capire le ragioni dell’altro e per arrivare ad un sano compromesso. Si tratta di saper coltivare quello che papa Francesco nella Fratelli tutti (nn. 215-221) chiama la “cultura dell’incontro”, che è una modalità per coniugare nel quotidiano il valore umano ed evangelico della fraternità. Affermare poi da cristiani che la guerra è giusta, significa semplicemente dimenticare Gesù, piegando lui e il suo vangelo alle nostre logiche e convenienze… (cf. Fratelli tutti, nn. 256-262).
2. Ritornare a Gesù, nostro Fratello
E allora è necessario ritornare (verbo di conversione) a Dio e al suo Figlio Gesù, nostro Fratello e Signore, il quale, come scrive l’autore della Lettera agli Ebrei in 2,11, non si vergogna di chiamarci fratelli (e sorelle). Per quale motivo? Forse perché siamo tutti buoni, giusti, fedeli e irreprensibili? No. Perché tutti veniamo «da una stessa origine» (Eb 2,11), vale a dire da Dio Padre; tutti siamo figli di Dio che Gesù riceve come dono (cf. v. 13); tutti siamo fatti di «sangue e carne», cioè apparteniamo alla stessa umanità debole, fragile e limitata (cf. v. 14).
Anche Gesù è «sangue e carne» – ce lo ricorda l’evangelista Giovanni («E il verbo si fece carne»: Gv 1,14) –, ovvero appartiene alla nostra umanità debole e fragile, circoscritta nei limiti del tempo e dello spazio; e per questo egli è «in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17). Infatti, continua l’autore della Lettera agli Ebrei, Gesù ha preso parte alle nostre debolezze: come ogni persona umana, nell’intero arco della sua esistenza egli è stato messo alla prova su ogni aspetto della vita (cf. Eb 4,15); da tutto ciò che ha patito e dalla passione per il Padre che ha sempre animato il suo modo di essere e di agire, egli ha imparato ad obbedire sia al Padre sia alla complessità della vita (cf. Eb 5,8), è rimasto fedele al Padre e alla vita, alla storia, senza tuttavia rimanere succube e prigioniero delle schematizzazioni e delle visioni pseudo-religiose, mondane e disumane (ricchezze, arroganza, potere e privilegi…) di cui sono piene la vita e la storia, ieri come oggi.
Perciò è scritto che Gesù è stato messo alla prova in ogni cosa, «escluso il peccato» (Eb 4,15), vale a dire esclusa l’esperienza del fallimento della propria esistenza, del non-senso della vita. Restando fedele alla Parola di Dio e alla sua condizione di Figlio di Dio e di Fratello dell’umanità, egli ha superato – ripeto, nell’intero arco della sua esistenza – la tentazione/prova del potere, della ricchezza e della gloria rivestita dell’apparato religioso-mondano (cf. Mt 4,1-11). L’esperienza della prova e del superamento della stessa, vissuta nella propria umanità fragile («ebbe fame»: Mt 4,2), lo ha reso capace di venire in aiuto a coloro che fanno la stessa esperienza con il rischio di fallire nella vita (cf. Eb 2,18), mostrando loro, non la clava o la spada, ma il suo volto di Fratello misericordioso e compassionevole, che sa prenderli per mano, sa intercedere per loro (cf. Eb 7,25) e accompagnarli verso la salvezza, verso il Senso vero della vita (cf. Eb 4,16).
Dunque, ritornare a Cristo Gesù nostro Fratello, significa accoglierlo non solo come il nostro compagno di viaggio, ma soprattutto come «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), cioè come colui che ci ha preceduti aprendo per noi la strada verso la fraternità e sororità, fondata sul compimento della volontà del Padre, su legami di fede, e non tanto su legami biologici o di sangue, specie se condizionati da una visione culturale di famiglia patriarcale e maschilista (cf. Mc 3,31-35). Tra quei «molti fratelli (e sorelle)», dei quali Gesù è il primogenito, ci siamo anche noi oggi. E allora proviamo a fissare lo sguardo un po’ più da vicino su Gesù, cogliendo i tratti essenziali del suo stile fraterno, tratti che si radicano nel suo rapporto di figliolanza con Dio Padre.
3. Lo stile filiale e fraterno di Gesù
Dalla narrazione dei vangeli, emerge che Gesù vive una duplice relazione decentrata: rispetto a Dio Padre e rispetto ai discepoli e alle altre persone che incontra, uomini e donne.
a) Gesù è il Figlio che si decentra rispetto a Dio
Gesù non è un uomo eccentrico e autoreferenziale (una cosa è l’eccentricità, ben altra cosa è il cristocentrismo). Non lo è stato, innanzitutto, nella sua relazione con Dio Padre. Egli non si è voluto sostituire a Dio, ma, pur tentato su questo punto essenziale della sua vocazione («Se tu sei Figlio di Dio…»: Mt 4,3-11), è rimasto sempre il Figlio di Dio, Figlio in relazione di comunione interpersonale profonda con il Padre, Figlio rivolto verso il Padre (cf. Gv 1,1.18), Figlio uno con Lui (cf. Gv 8,16.29; 10,30; 17,11.21.22-23), perché egli vive per il Padre (cf. Gv 6,57). E perciò quando prega egli non guarda sé stesso, ma alza gli occhi verso il Padre, guarda/contempla il Padre (cfr. Gv 11,41; 17,1), perché è pienamente consapevole che non è venuto da sé stesso e per se stesso, non si è auto-inviato: è venuto perché è il Padre che l’ha inviato nel mondo (cf. Gv 7,28; 8,42) per compiere la sua volontà e la sua missione (cf. Eb 10,5-9). Tale decentramento rispetto al Padre rivela l’autentica povertà radicale di Gesù, povertà (altra cosa dalla miseria) che lo ha reso ricco in umanità e nella fede, e di tale ricchezza povera ha reso ricchi tutti noi (cf. 2Cor 8,9).
Ma come Gesù, il Figlio, esprime la sua povertà radicale nella sua relazione decentrata rispetto al Padre? Solo alcuni accenni significativi:
– Gesù non ha un volto suo: ha solo il volto del Padre (cf. Gv 12,45; 14,8-11; 12,47-50);
– non ha parole sue: ha solo da annunciare le parole che ascolta dal Padre (cf. Gv 3,34; 5,24; 8,38);
– non ha una sua dottrina (didaché): ha solo quella del Padre (cf. Gv 7,16-17);
– non ha una volontà sua: ha solo quella del Padre, diventata suo cibo quotidiano (cf. Gv 4,34; 6,37-39);
– non ha opere sue: ha da compiere solo le opere del Padre (cf. Gv 5,17.19.36);
– nemmeno i discepoli e le discepole che vivono con lui, in una forma itinerante di vita comune, sono suoi, ma sono del Padre, li riceve dalla mano del Padre come suo dono; perciò Gesù li deve custodire, perché nessuno si perda e si smarrisca (cf. Gv 10,29-30).
Ecco, attraverso il suo stile di vita – tutto espropriato di sé – il Figlio non ci parla di sé stesso, ma ci parla del Padre (cf. Gv 1,18; 16,25-28), e solo parlandoci del Padre, ci parla di sé stesso, affinché anche noi impariamo a diventare figli nel Figlio (cf. Gv 1,12-13; 11,52), figli liberi da ogni forma di autoreferenzialità (cf. Gv 8,36-37).
b) Gesù sa decentrarsi anche rispetto ai suoi fratelli e sorelle in umanità e nella fede
In maniera chiara e inequivocabile Gesù vuole che i discepoli e le discepole siano e vivano tra loro come fratelli e sorelle («voi siete tutti fratelli»: Mt 23,8); e poi aggiunge anche come amici/amiche («Voi siete miei amici, se fate cioè che io vi comando [= il comando dell’amore reciproco]. Non vi chiamo più servi [schiavi], perché il servo [lo schiavo] non sa quel che fa il suo signore; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» Gv 15,14-15). La relazione di amicizia mette qui in risalto l’amore reciproco, la familiarità e l’intimità. Gesù, dunque, ha voluto che la comunità dei suoi discepoli e discepole vivesse come una fraternità e sororità. La sororità è una scelta inedita. Prendendo infatti le distanze dalla concezione patriarcale e maschiocentrica dominante del tempo (i rabbini non potevano avere discepole), Gesù accoglie anche le donne nel discepolato: tra coloro che seguivano Gesù c’erano le discepole Maria Maddalena, Giovanna, moglie di Cuza, Susanna «e molte altre» (Lc 8,1-4); al calvario, sotto la croce e al sepolcro, luogo del Memoriale, troviamo ancora le donne (cf. Mt 27,55-56.61; 28,1-10; Mc 15,40-41.47; 16,1-11; Lc 23,55-56; 24,1-11; Gv 19,25; 20,1-18).
Gesù voleva una fraternità-sororità fatta di relazioni umane autentiche, ma dove al centro vi è il Padre e la conformità alla sua volontà («Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»: Mt 12,50). A ben vedere, anche Gesù è al centro della fraternità-sororità ecclesiale (cfr. Mt 18,20), ma non per eccentricità o narcisismo, ma come presenza rivolta sempre verso il Padre e come presenza fraterna e di servizio, di diaconia («Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27). Ma c’è un altro aspetto di Gesù che attira ancora l’attenzione: nella condizione di Signore Risorto, presente nella comunità ecclesiale, egli continua a decentrarsi, sia riconoscendosi sempre come nostro fratello (cf. Mt 28,10; Gv 20,17), sia affermando con coraggio che ogni suo discepolo può compiere opere ancora più grandi di lui perché lui ora vive con il Padre (cf. Gv 14,12)!
Diciamocelo chiaramente, a noi che in questi mesi nelle varie diocesi e parrocchie abbiamo iniziato un cammino di comprensione della sinodalità come stile di vita della Chiesa: la Chiesa che Gesù ha voluto, non assomiglia per nulla ad una monarchia, né ha voluto che i suoi discepoli assomigliassero ai re o ai governanti di questo mondo (cf. Mc 11,41-45 e par.). La Chiesa che Gesù ha voluto è una fraternità-sororità. E, di conseguenza, come governo Gesù ha voluto che vi fosse l’adelfocrazia: infatti a Pietro dice: «conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32), gli conferisce l’autorevolezza di sciogliere e legare (cf. Mt 16,18-19) e di presiedere agendo sull’esempio, non del mercenario, ma del Buon Pastore che conosce e si prende cura dei suoi e dà la vita per loro (cf. Gv 21,15-17). Senza fraternità e sororità vissuta nel Signore e alla luce del suo vangelo non c’è vera sinodalità nella Chiesa, non c’è una vero camminare insieme.
c) Gesù, fratello ospitale
Da questo suo modo decentrato di vivere come Figlio di Dio e come Fratello nostro e di tutta l’umanità, Gesù incontra tutti – uomini e donne, giusti e peccatori, ricchi e poveri, impoveriti e disperati – con un atteggiamento ospitale e accogliente, senza nutrire prevenzioni e pregiudizi, ma certamente con un’attenzione privilegiata verso i poveri, li esclusi, li stranieri, tutti da lui riconosciuti come suoi fratelli, anzi, molto di più, considerati come sacramento della sua presenza (cf. Mt 25,34-45). Questo ci dice che il suo sguardo sul nostro mondo, complesso e complicato, e in particolare sul mondo dei piccoli, è uno sguardo segnato dal sorriso danzante: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, […] perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21).
In questo atteggiamento umano del sorridere danzando (possiamo dire appreso quando era nel grembo di Maria sua madre, che cantò: «e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» [Lc 1,47]) si manifesta in Gesù il sorriso di Dio sul mondo, che si compiace dei piccoli, perché sono gli unici ad aprirsi all’accoglienza del vangelo e a dare speranza al mondo e a sorreggerlo. Per questo Gesù vive il suo essere ospitale nel segno della piccolezza, ovvero dell’abbassamento: lui è il primo ad abbassarsi per accogliere l’altro e mettersi al suo servizio. Abbassandosi, ponendosi al livello dell’altro, Gesù accetta di svuotarsi (cf. Fil 2,6-7) per essere uomo tra gli uomini, fratello tra fratelli, per fare spazio all’altro, per porsi in ascolto e in dialogo con l’altro, affinché l’altro non abbia paura e non si senta già condannato, ma liberato e salvato da un fratello che ha avuto compassione di lui, che è stato capace di rigenerarlo alla vita.
Soffermiamoci un momento su Gesù in ascolto dell’altro. Il suo non è una finzione, è un ascolto vero e attento, che a volte suscita in lui stupore per il modo con cui Dio opera nel cuore degli uomini. Infatti Gesù ascolta e vede in profondità:
1) per apprendere dalla vita dell’altro («egli imparò l’obbedienza dalle cose che patì»: Eb 5,8; “imparò/patì” = perito nell’ascolto);
2) per discernere meglio la sua vocazione e missione: infatti,
– egli stesso chiede: «La gente chi dice che io sia? […] Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 9,27.29);
– la donna cananea gli fa comprendere che la sua missione non ha confini: «eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù replicò: Donna grande è la tua fede! Avvenga come tu desideri» (Mt 15,27-28);
– nella vedova povera che dona nel tesoro del Tempio tutto quello che ha, tutta la sua vita, vede rispecchiare sé stesso, e per questo la indica come modello ai suoi discepoli (cf. Lc 21,1-4).
Oltre che abbassarsi per entrare in ascolto e in dialogo con l’altro, Gesù mostra di avere sempre compassione (cf. Mc 6,30), di avere quella capacità di sentire con l’altro, di entrare in empatia con l’altro, fino a patire con lui: da qui la disponibilità a far uscire l’altro dal suo disagio. E in ogni incontro Gesù cerca di far emergere la fede autentica che c’è nell’altro. È significativo che non dice: «La mia fede ti ha salvato», oppure: «io ti ho salvato»; no, ma dice – ulteriore atteggiamento di decentramento di sé rispetto all’altro – «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34); è come se dicesse: il tuo affidarti a me, e attraverso di me a Dio, è questo che ti ha salvato. La fede è prima di tutto relazione di affidamento a Dio, è porre la nostra fiducia in Dio perché sappiamo che Dio è credibile e quindi affidabile. Gesù dicendo «la tua fede ti ha salvato» vuol far emergere, come vero educatore, la fede autentica che c’è nell’altro, la fede che risana e ridà speranza. Ma è opportuno anche chiedersi: perché gli altri si rivolgono a Gesù? Perché Gesù, il quale è sempre rivolto verso il Padre, ha imparato anche lui, sia da Dio Padre che da Maria e Giuseppe (cf. Lc 2,40.52), ad essere una persona credibile e affidabile. È questa la sua autorevolezza di fratello e amico che si pone accanto a noi e cammina con noi per sempre, «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Fr. Egidio Palumbo
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