Impariamo a cadere per amore

L’essere umano deve accogliere un Dio che scende, con un amore senza condizioni, nell’imperfezione dell’uomo.

L’essere umano non è mai veramente compiuto. Radicato nel passato, legato allo sfuggente presente e impegnato a immaginare un futuro sconosciuto, è sempre in evoluzione. È imperfetto per natura. Allora perché Gesù dice: «siate perfetti come perfetto è il Padre vostro» (Mt 5,48)? Per Fabrizio Zaccarini del Messaggero cappuccino, questa esortazione va intesa secondo l’interpretazione della liturgista Giuliva di Berardino: «lasciatevi completare da Dio». L’invito è dunque quello di lasciarci amare sempre di più dal Signore, cosicché il Suo amore sia completato in noi e attraverso di noi.

Queste parole possono essere messe in parallelo con «siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36), perché è in questo modo che la divinità nell’umanità si può compiere in noi. È quello che ha fatto santa Caterina da Siena, svuotatasi e lasciatasi riempire dallo Spirito Santo dopo che, come si racconta, Gesù le ha detto: «tu fatti capacità e Io mi farò torrente». L’uomo e la donna devono quindi accogliere la sconcertante figura di un Dio che, spinto da un amore senza condizioni, cade dal suo trono, senza proteggersi dietro la Sua divina perfezione, per scendere nell’imperfezione dell’uomo.

Oggi, nell’era della condivisione online, siamo spinti a essere produttori e giudici di performance, inseguendo quotidianamente il mito dell’approvazione e del successo. Così, sono gli altri che decidono chi dobbiamo essere. Per impedire di subire passivamente questi criteri, occorre fare un continuo discernimento, senza mai dimenticare che Dio ama coloro che cadono e non riescono ad alzarsi. Egli scende con loro, se necessario fino al livello più basso. Contemplando e seguendo il Signore caduto per amore, impariamo ad amare. Un racconto della tradizione spirituale orientale evoca bene questo messaggio:

«Un novizio interrogò padre Anatolij: “Padre mio, cosa provasti nel giorno della tua ordinazione?” Il vecchio monaco rispose: “Figlio mio, prostrato dinanzi all’altare, sentii tutta la mia fragilità, il peso della mia miseria. Avrei voluto lasciare tutto. Mentre ero lì, disteso a terra, mi si avvicinò un bambino che strattonandomi il braccio diceva: ‘Sei caduto? Ti sei fatto male? Alzati!’. Tutti risero tranne me. Si era intenerito il cuore di qualcuno per quella mia fragilità e il mio dolore non era passato inosservato. Compresi, allora, che il senso della mia chiamata non era nelle impossibili perfezioni che mi ero prefisso, ma nel mettere a nudo la mia pochezza, certo che qualcuno si sarebbe chinato sulla mia caducità. Non mi conformavo a Cristo nelle sue perfezioni, ma nel suo abbassarsi; né sposavo una chiesa trionfante, bensì una chiesa bambina dal cuore tenero, che in quell’istante non vedeva altro che un uomo caduto cui serviva una mano per rialzarsi. Figlio mio, ormai sono vecchio, ma sto ancora cercando di rialzarmi”. Il giovane gli disse porgendogli il braccio: “Poggiati, padre mio, rientriamo in casa”».