Lasciatemi essere il cuore pulsante della baracca

Negli inferi della storia sono emersi testimoni di speranza e il confronto delle loro esperienze aiuta a capire l’attualità. Parte 5: Etty Hillesum

1. Gli inizi del suo percorso di crescita

Il 1° settembre 1939 la Germania nazista invade la Polonia: scoppia la seconda guerra mondiale. Il 10 maggio 1940 la Germania aggredisce l’Olanda. Il porto di Amsterdam è in fiamme, e tutto il paese in subbuglio. Il 15 maggio l’esercito olandese si arrende alla furia inarrestabile delle armate tedesche. Le autorità militari e le SS. di Hitler prendono in mano la gestione politica e sociale delle città. Subito vengono emanati i decreti che limitano la libertà degli ebrei. Il paese non assiste inerte alla violenza nazista: professori, studenti e operai protestano e scioperano. Ma la reazione degli occupanti è immediata e violenta, ci sono scontri e arresti in massa. Viene instaurata la legge marziale. Gli olandesi sono costretti con la violenza al silenzio. Questa la situazione in Olanda durante l’occupazione nazista: il momento è uno dei più cupi di tutta l’Europa.

In questo clima, l’8 marzo 1941, ad Amsterdam, Etty Hillesum, una ragazza ebrea di 27 anni, inizia a scrivere il suo Diario. È nata nel 1914 a Widdelburg in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Il padre, Luis, insegna lettere al liceo locale. La madre, Riva, è una profuga dalla Russa. Etty ha due fratelli: Jaap e Mischa. Nel 1932, finito il liceo si trasferisce ad Amsterdam e si iscrive in Giurisprudenza. Consegue la laurea, ma non è soddisfatta degli studi fatti, quindi si iscrive in Lingue Slave. Predilige la lingua e la letteratura russa. Dà lezioni private per mantenersi agli studi. Si interessa alla psicologia.

Nel febbraio 1941 Etty conosce Julius Spier, psicologo junghiano, e inizia con lui un percorso di analisi. Le prime pagine del Diario presentano una ragazza disturbata, piena di problemi e di difficoltà relazionali con se stessa e con i familiari. Eppure, Etty ha notevoli potenzialità intellettuali e un sogno nel cassetto: diventare scrittrice. Grazie all’aiuto di Spier, in breve tempo percorre un cammino di crescita umana e spirituale che la porta a conquistare un’incredibile dimensione di serenità, pace, gioia, amore. Il Diario si apre con la copia di una lettera scritta a Spier: «Sono qui seduta tranquillamente alla mia solita scrivania con il sangue che mi scorre allegramente nelle vene grazie ai suoi meravigliosi esercizi…». Gli scrive che prova un sentimento di solitudine e di insicurezza; gli confessa il terrore che la ossessiona: «diventare pazza come il resto della mia famiglia». Infine aggiunge: «Ma ora vedo chiaramente che non sono pazza, e che ho semplicemente bisogno di lavorare profondamente su me stessa per diventare una persona adulta e completamente umana. E lei mi aiuterà, non è vero?».

Un altro elemento che manifesta il suo itinerario di crescita è un brano scritto dopo quattro mesi da quando ha incontrato Spier: «Credo che ogni mattina prima di mettermi al lavoro, dovrò rivolgermi al mio interno e rimanere sola ad ascoltare quel che è in me: dovrò immergermi in me stessa, potrei anche dire meditare… In altre parole si tratta di far entrare qualcosa di divino in noi…un amore terra terra che si possa rivolgere verso gli altri nella quotidianità della nostra giornata…». Etty è interessata a dare spessore e concretezza a un sentimento profondo che sente crescere in sé: l’amore e la compassione per ogni persona, per tutte le persone. «Dovunque mi troverò, io cercherò di irradiare un po’ di quell’amore per gli uomini che mi porto dentro». Il rovescio di questa medaglia è l’esigenza che avverte in sé di ripudiare ogni forma di odio e di violenza: «Ho consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini, malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono nel mondo, infatti l’odio è la cosa peggiore cosa che ci sia, è una malattia dell’anima».

2. L’esperienza dell’incontro con Dio

In questo tempo di intensa introspezione nel suo mondo interiore, che conosciamo dalle pagine del Diario, Etty è protagonista di un’esperienza singolare e sconvolgente che apre orizzonti nuovi e insperati nel suo cammino di crescita spirituale: l’esperienza dell’incontro con Dio. Quando inizia a scrivere il Diario, Etty è un’ebrea non osservante; non frequenta né sinagoghe, né chiese, non conosce né dogmi né teologia, né liturgia, né tradizioni religiose, cose tutte a lei completamente estranee. Per lei Dio è solo un’espressione verbale e se parlando o scrivendo ne pronuncia il nome, lo fa come semplice intercalare. Eppure ama leggere la Bibbia, i Vangeli, soprattutto quello di Matteo, le Lettere di Paolo e gli scritti di S. Agostino.

Ma un giorno è protagonista di un episodio inatteso, apparentemente banale ma che le sconvolge totalmente la vita: mentre si trova nel bagno, una stanza fredda e umida, sente improvvisamente una forza che la spinge ad inginocchiarsi. Da questo momento in poi, parlerà di sé come «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi». Più avanti annota: «Ieri sera prima di andare a letto mi sono trovata inginocchiata nel mezzo di questa grande stanza tra le sedie di acciaio, sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me. Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora troppo a un gesto che è così intimo come i gesti dell’amore…». Non è la sua volontà che le fa compiere quel gesto; è trascinata, quasi obbligata da una energia, da una presenza che la guida. Il gesto di inginocchiarsi che lei non aveva mai fatto nella sua vita, all’improvviso diventa una necessità; è quasi la risposta ad un bisogno, l’obbedienza ad un comando che viene dal profondo di sé e dal mistero. È un gesto d’amore: Etty riconosce che questa forza, questa presenza che abita dentro di sé, che emerge e s’impone, è la presenza di Dio.

Allora inizia un intenso dialogo con questa presenza, inizia a pregare. Prega per comprendere come sia possibile che tra gli uomini esista tanto odio. Dalla preghiera Etty attinge la forza di non lasciarsi travolgere dal dolore, dalla disperazione per la violenza che vede attorno a sé. Ma soprattutto, prega per ringraziare il Signore: lo ringrazia per la bellezza che contempla nella natura e nelle cose semplici della vita. Lo ringrazia per la gioia che si ritrova nel cuore. Lo ringrazia perché Egli l’ha fatta così com’è. Dalla cella della sua preghiera esce sempre più raccolta, concentrata e forte. Ascoltiamo qualche eco del contenuto e dello stile della sua preghiera: «Ti ringrazio, Signore, perché nel mio mondo regnano tranquillità e pace… Mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, e ne esco fuori più raccolta, concentrata e forte. Questo ripararmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande». Questa relazione orante con Dio rende nuovo anche il rapporto di Etty con le persone, fino a non avvertire alcuna differenza tra l’amore a Dio e l’amore ai fratelli: «Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio».

3. Di fronte al dramma della guerra

Tutta questa ricchezza umana e spirituale affiora e si accresce in Etty soprattutto nel suo modo di porsi e di affrontare il dramma della guerra. Sembra che all’inizio Etty non dia molto peso alla realtà della guerra e alla persecuzione degli ebrei. Lei stessa se ne meraviglia. Annota nel novembre 1942: «Ogni tanto mi chiedo come mai questa guerra con tutte le sue complicazioni, mi tocchi così poco». Ma ben presto l’indifferenza svanisce e fa posto ad un grande coinvolgimento. Scrive qualche pagina più avanti: «C’è la guerra, ci sono campi di concentramento. Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno. Camminando per le strade io so che in quella casa c’è un figlio in prigione, in quell’altra un padre preso in ostaggio. E questo capita a due passi da casa mia. So quanta gente è agitata, conosco il grande dolore umano che si accumula, la persecuzione e l’oppressione, l’odio impotente e il sadismo: so che tutte queste cose esistono, e continuo a guardare bene in faccia ogni pezzetto di realtà nemica».

Intanto le restrizioni nei confronti degli ebrei si fanno sempre più severe. Etty le registra, ma conserva grande lucidità nella lettura critica dei fatti e conserva una visione ottimistica della vita: «Ci è stato proibito di passeggiare sul Wandelweg. Ogni misero gruppo di due o tre alberi è dichiarato bosco e allora sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta ‘vietato agli ebrei’. Questi cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciononostante, quanto spazio in cui si può ancora stare ed essere lieti e far musica e volersi bene… Sopra quell’unico pezzetto di strada che ci rimane, c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento. Ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la nostra millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e arrabbiati per quel che ci fanno; è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli». E conclude con un invito a sé stessa e ai suoi fratelli ebrei a dilatare il cuore per volgere in positivo anche quella situazione dolorosa: “Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile”.

4. Volontaria a Westerbork

La situazione si fa ancora più drammatica: un decreto nazista impone agli ebrei di portare, cucita sugli abiti, la stella di David, e soprattutto hanno inizio le prime deportazioni di massa a Westerbork, un centro di smistamento allestito nella parte orientale del paese, non lontano dal confine con la Germania. Non si tratta di un campo di sterminio, ma di fatto costituisce l’ultima tappa prima di Auschwitz. Etty coglie subito il senso e la portata della nuova situazione: «Vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo. Presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi». Però la sua reazione di fronte ai nuovi sviluppi non è quella di tanti altri ebrei: paura, angoscia e tentativo di mettersi in salvo, bensì l’assunzione piena degli eventi e delle relative conseguenze: «Bene. Io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure… Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione, e trovo la vita ugualmente ricca di significato».

Etty, dunque mette in conto la possibilità della deportazione, eppure grida ad alta voce: «Sono una persona felice e lodo questa vita». Queste sensazioni e i relativi propositi, Etty li canalizza in due direttrici operative: da una parte una preparazione interiore che si fa anche ascesi, in attesa di eventi ancora più duri e tristi; dall’altra una radicale assunzione di responsabilità verso coloro che stanno per condividere assieme a lei il «destino di massa». «Una cosa è certa: dobbiamo accettare tutto dentro di noi, dobbiamo essere pronti a tutto e sapere che le cose ultime non possono esserci sottratte; allora, con quella pace interiore sapremo compiere i passi necessari». Il 15 luglio 1942 Etty viene assunta come dattilografa nel Consiglio Ebraico. Questa organizzazione, composta da un gruppo di ebrei ricchi e influenti, fa da cuscinetto tra i nazisti e la massa degli ebrei: i nazisti danno ordini al Consiglio e questo ha facoltà di decidere a chi impartirli e in che modo.

L’impatto con l’ambiente di lavoro è traumatico per Etty; lo definisce come «un luogo infernale, un manicomio», a motivo della confusione e della violenza che vi regna sovrana. Ciò che la colpisce particolarmente è l’angoscia mortale dipinta sui volti e negli occhi della gente che si rivolge a quell’ufficio, nell’intento di evitare la deportazione. «Spero di essere come un centro di tranquillità in quel manicomio», è il proposito di Etty. Nel frattempo gli amici tentano di convincerla a nascondersi; un giorno cercano perfino di rapirla, ma ogni volta lei oppone un netto rifiuto: «Dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire», questo il suo commento. E aggiunge: «Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare, lo posso fare comunque, che sia qui in una piccola cerchia di amici, o altrove in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un destino di massa. Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo essere passata per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione».

Intanto, all’interno del campo di Westerbork viene aperto un ufficio del Consiglio ebraico al servizio degli internati. Etty si propone di andarvi come “volontaria”, con l’intendo di assicurare l’assistenza sociale alle persone recluse nel campo. Questa scelta le consente di sperimentare, in presa diretta, gli avvenimenti drammatici che stanno accadendo. Raggiunge Westerbork il 30 luglio 1942. Lo spettacolo che le si presenta davanti agli occhi è desolante: migliaia di persone, uomini, donne e bambini che fino al giorno prima vivevano nel benessere e nell’agiatezza nelle loro case, all’improvviso si trovano requisiti dalle autorità naziste e scaraventati in questo luogo di fango, di fame e di povertà estrema, con la sola colpa di appartenere al popolo ebraico. Per Etty, da subito, il campo diventa la sua casa e la sua nuova famiglia. Per prima cosa instaura rapporti di amicizia con gli altri volontari che operano nel campo, per rendere più efficace il servizio agli sfortunati ospiti che arrivano in massa, e poi sono spediti nei campi di sterminio dell’est. Per queste persone lei si fa presenza attenta, ascolto empatico, aiuto discreto e consolazione amorevole. Viene incontro ad ognuno nelle sue pene, nello spaesamento per aver perso le cose più preziose, i punti di riferimento che danno sicurezza.

Due testimonianze che ci descrivono l’attività di Etty a Westerbork. La prima è tratta da una sua lettera agli amici, la seconda dal racconto di un sopravvissuto pubblicato molti anni dopo la fine della guerra, nel 1969. Scrive Etty l’8 luglio 1943 agli amici di Amsterdam: «Dalle quattro di stamattina ho avuto di nuovo neonati e bagagli da portare. In quelle ore si potrebbe accumulare malinconia per una vita intera… Poi ho parlato per cinque minuti con una donna che veniva da Vught, e che in tre minuti mi ha raccontato le sue ultime vicende… Siamo arrivate ad una porta che non mi era permesso oltrepassare e lei mi ha abbracciata dicendo: Grazie per l’aiuto che mi ha dato». La seconda è la testimonianza del sopravvissuto Friedrich Weinreb: «Nella baracca adibita ad ospedale c’era una visitatrice particolarmente simpatica, Etty Hillesum. Passava di letto in letto, si chinava su ciascun malato dicendo: “Posso fare qualcosa per lei?…” Alcuni mormoravano risposte incomprensibili, altri restavano sdraiati, apatici, altri ancora iniziavano una conversazione. Aveva i suoi clienti abituali… Non ho più rivisto Etty. Conservo la memoria di una giovane donna di grande intelligenza. Quel che mi colpiva di più era il suo senso religioso delle cose. Una qualità che scaturiva dalla profondità della sua anima… c’era in lei anche tanta leggerezza e una profonda gioia».

Etty rimarrà a Westerbork per un anno, fino al settembre 1943, prima come volontaria, poi come prigioniera. Nella prima fase, più volte sarà costretta a lasciare il campo e rientrare ad Amsterdam perché malata. Soffre di calcolosi biliare, ed è costretta al ricovero in ospedale. L’ultima parte del Diario risale al primo di questi periodi di cura e di convalescenza. Si tratta di una testimonianza particolarmente preziosa, perché ci permette di verificare sia lo spessore della maturità umana e spirituale raggiunta da Etty, sia la continuità tra il suo ieri di donna in ricerca di orizzonti di libertà, mentre vive in un comodo appartamento, e l’oggi che la vede in una baracca, nella condizione di prigioniera e malata, ma capace di alzare la voce e gridare: «Lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca». Ricordando i lunghi giorni trascorsi al campo, dice: «Questi due mesi tra il filo spinato sono stati i mesi più intensi e più ricchi della mia vita… Mi sono affezionata a quel Westerbork e ne ho nostalgia».

Il 15 settembre 1942 il maestro e amico Julius Spier muore per tumore ai polmoni. Etty è accanto a lui. Scrive nel Diario: «Mi hai insegnato a pronunciare il nome di Dio… e ora che te ne sei andato, la mia strada porta direttamente a Dio. Ora sarò io l’intermediaria di Dio per tutti quelli che potrò raggiungere». Finita la convalescenza, Etty fa ritorno a Weterbork. Qui termina il diario. Le ultime parole che annota sono un rinnovato impegno di servizio e di donazione di sé a chi soffre: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». L’abbondante corrispondenza dal campo con gli amici, ci confermano le condizioni disumane di vita nella prigione; ma è anche l’ennesima testimonianza della forte tempra del suo spirito: «Sai – scrive ad una amica – se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi la parte inalienabile della tua anima, allora è proprio una situazione disperata. Nelle grandi baracche si vive come topi in una fogna. Io mi sento all’altezza del mio destino». E precisa meglio: «La vita qui non consuma troppo le mie forze profonde. Fisicamente si và un po’ giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte».

In un altro passaggio della lettera scrive: «La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo dietro il filo spinato, allora nel mio cuore s’innalza sempre una voce elementare, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande». E intanto si proietta nel futuro: «Più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine dovremo opporre un nuovo pezzetto d’amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima, ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola, a guerra finita».

5. “Abbiamo lasciato il campo cantando”

Questa incrollabile fiducia nella vita, Etty ce la consegna con le sue riflessioni, con le sue lotte interiori e, ancor di più, con la testimonianza della vita donata. Il 7 settembre 1943, Etty e con lei i genitori e il fratello Mischa, vengono caricati sul treno dei deportati con destinazione Auschwitz. Da una feritoia della carrozza lancia una cartolina che, raccolta dai contadini del luogo, viene fatta pervenire al destinatario: «Christen, apro a caso la Bibbia e trovo: il Signore è mio rifugio. Sono seduta sul mio zaino in mezzo ad un affollato vagone merci: Abbiamo lasciato il campo cantando». La resistenza fisica di Etty nell’inferno di Auschwitz dura tre lunghi mesi. Un rapporto della Croce Rossa attesta che muore in una camera a gas il 30 novembre 1943. Le testimonianze di alcuni sopravvissuti confermano che Etty è stata una personalità luminosa, fino all’ultimo.

6. Etty, figura attualissima per il nostro tempo

La figura e la testimonianza di Etty Hillesum è oggi studiata da psicologi e teologi, da pedagogisti e antropologi; tutti restano meravigliati della sua personalità, della sua crescita interiore e dell’attualità del suo messaggio. Vorrei sottolineare alcuni punti-forza del suo cammino. Etty è una creatura debole e fragile, come tanti giovani (e meno giovani) di oggi. La sua psiche è in disordine e ridotta in macerie, «un gomitolo aggrovigliato», si definisce lei stessa. Eppure è animata da una grande determinazione nel voler risalire la china: «Devo lavorare molto per diventare una persona adulta». Condotta per mano da un educatore (Julius Spier), impara ad ascoltare e a coltivare la sua interiorità, impara ad unificare e armonizzare i moti e le esigenze del corpo e dello spirito. In questo lavorìo interiore, Etty incontra Dio che le si rivela presente nel suo intimo più profondo come sorgente da cui zampilla vita, gioia, pace. Primo frutto di questo incontro è la preghiera che lei vive come un colloquio ininterrotto con il Signore il quale la apre all’amore e al servizio verso i fratelli: «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami dispensare agli altri a piene mani».

Etty rende la sua anima un campo di battaglia dove ogni giorno affronta la lotta per estirpare ogni erbaccia: l’odio, la rivalsa, il risentimento. «Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri!», dice a se stessa e agli amici. Questa consapevolezza e decisione genera in lei una grande forza interiore che le consente di affrontare con maturità ed equilibrio quel grande fiume di dolore che è l’Olocausto e a vivere con serenità e forza d’animo nel campo di Westerbork dove sceglie di svolgere un servizio di volontariato. Qui Etty accoglie i deportati, una marea di gente dolente e sbandata. Per ogni persona ha una parola e un gesto di attenzione e di conforto; partecipa al loro dolore, soffre della loro sofferenza. Aiuta tutti a tenere accesa la fiammella della speranza. Con la medesima forza d’animo affronta il suo viaggio verso Auschwitz: «Abbiamo lasciato il campo cantando!». Confrontarci con la personalità e le conquiste di Etty, può risultare anche per noi, oggi, motivo di consolazione e di sfida per diventare più umani e per non perdere la speranza in questi giorni bui che stiamo vivendo. Chi vuole accostarsi ad Etty Hillesum, di lei può leggere i suoi scritti: Diario e Lettere 1942-1943.

P. Aurelio Antista
Mercoledì della spiritualità 2022, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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