Lettura della Laudato si’, capitolo per capitolo, per capire la proposta di papa Francesco di una ecologia integrale. Capitolo V.
Lettura della Laudato si’, capitolo per capitolo, per capire la proposta di papa Francesco di una ecologia integrale. Capitolo V.
I. Assumere uno stile dialogico e ospitale
Nel cap. V della Laudato si’ papa Francesco propone alla politica – intesa come impegno a costruire la polis, la città, la convivenza umana a livello locale e internazionale – e alle religioni a prendersi cura della “casa comune” che è la nostra terra, a saperla abitare e gestire, assumendo uno stile non arrogante e padronale, bensì dialogico e ospitale.
1. Il dialogo nella prospettiva dell’ospitalità
a) Conformarsi a Cristo Gesù
Quando il papa propone il dialogo non lo fa per opportunità tattica, ma per indicare uno stile dialogico e ospitale, il più adeguato da assumere in una società oggi essenzialmente plurale dal punto di vista culturale, religioso e politico. Soltanto lo stile dialogico e ospitale, creando relazioni e legami, può evitare che la pluralità si sbricioli in una molteplicità di frammenti autoreferenziali ed eccentrici, chiusi nel guscio delle proprie identità esclusiviste e fondamentaliste, ricurve su sé stesse e non aperte all’altro. Saper gestire il fenomeno della differenza e della realtà plurale è una delle sfide più importanti del XXI secolo. Il dialogo, vissuto nel segno dell’ospitalità, aiuta ad affrontare al meglio la sfida della differenza e del pluralismo.
Perciò papa Francesco aveva già affermato nella Evangelii gaudium al n. 49: «Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce di essere rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti». La Chiesa è chiamata a conformarsi a Gesù Cristo, il quale non fu una persona eccentrica, bensì umile, mite, aperta sempre all’ascolto, sempre dialogante e ospitale. Di conseguenza, sempre nella Evangelii gaudium, nell’ambito del dialogo sociale come contributo alla pace, il papa dedicava ben ventuno paragrafi al dialogo (nn. 238-258), che vediamo riproposto nel cap. V di Laudato si’.
b) Il volto di una Chiesa dialogante
Non possiamo, però, dimenticare che sullo sfondo di queste pagine dell’enciclica di papa Francesco vi è la prima enciclica programmatica del pontificato di Paolo VI, Ecclesiam suam, pubblicata il 6 agosto 1964, dove il papa proponeva il volto di una Chiesa dallo stile dialogante . Al n. 67 Paolo VI scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». È la prima volta che il termine dialogo (colloquium) entra in un documento ufficiale del magistero. Per Paolo VI il dialogo ha innanzitutto una dimensione trascendente, perché la relazione tra Dio e l’uomo è relazione dialogica: attraverso di essa Dio si comunica a noi e ci dona gratuitamente la salvezza (cf. nn. 72-78). Inoltre il dialogo per la Chiesa è «un modo di esercitare la missione apostolica; è un arte di spirituale comunicazione» (n. (83); perciò esige chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza pedagogica, capacità di adattamento all’interlocutore, immedesimazione con l’interlocutore (cf. nn. 83-84). E tutto questo in un clima di amicizia e di servizio (cf. n. 90).
Con quali interlocutori è chiamata a dialogare la Chiesa? Qui Paolo VI delinea quattro cerchi concentrici – che sembrano evocare la relazione di comunione fraterna senza “spigoli”… –, al cui centro sta il nostro Dio dialogante che sostiene e guida l’umanità e le Chiese. Primo cerchio: il dialogo abbraccia il vasto orizzonte dell’umano (cf. nn. 101-110). Secondo cerchio: il dialogo abbraccia tutti coloro che credono in Dio (cf. nn. 111-112). Terzo cerchio: il dialogo abbraccia i cristiani fratelli separati (le Chiese Ortodosse, le Chiese della Riforma e le Chiese Anglicane: cf. nn. 113-116). Quarto cerchio: il dialogo abbraccia i cristiani che appartengono alla Chiesa Cattolica (cf. nn. 117-123).
c) Nel segno dell’ospitalità
Dialogo e ospitalità sono strettamente correlati. Si dialoga meglio quando si esce dal proprio guscio adolescenziale e ci si lascia ospitare e abitare dall’altro. Perché è così che si ampliano gli orizzonti della nostra identità umana e di fede, è così che ci si arricchisce reciprocamente e si cresce secondo la statura della persona adulta e matura. Dialogo e ospitalità, allora, generano la “cultura dell’incontro”, di cui spesso parla papa Francesco, dove è fondamentale l’accettazione della differenza, il rispetto e l’accoglienza dell’altro, ben sapendo che tutto questo non è qualcosa di naturale e di spontaneo, ma richiede un impegno e una dedizione particolari, una disponibilità a decentrarsi e a mettersi umilmente in un cammino di ricerca e di simpatia ed empatia per comprendere il mistero dell’altro, perché – lo sappiamo bene – la presenza dell’altro non suscita solo ammirazione ma anche inquietudine e disorientamento .
2. Le religioni in dialogo con le scienze e in dialogo tra loro
Dentro questo mondo plurale, la presenza delle religioni, compresa quella cristiana, assume una rilevanza pubblica significativa. Le religioni, infatti, oltre che avere i loro riti e le loro pratiche, hanno anche una loro comprensione esperienziale di Dio, dell’uomo, del mondo, della terra, del cosmo e della condizione degli impoveriti. Ponendo in stretta relazione Dio-umanità-terra-cosmo-poveri, le religioni ci comunicano la loro visione della vita, esprimono il senso e la via salvifica che orienta (o dovrebbe orientare) il modo di abitare e di vivere dell’uomo sulla terra: non padronale e autoreferenziale, bensì da figlio/figlia e da fratello/sorella, da creatura e da custode, da “giardiniere” e da “pastore”, da pellegrino e da ospite .
Per questo papa Francesco, con grande insistenza e parresia, nella Laudato si’ esorta le religioni a coinvolgersi nel cammino dialogico e ospitale sia con le scienze (cf. nn. 199-200), sia tra di loro (cf. n. 201), per offrire un contributo alla cura della nostra “casa comune” e alla difesa dei poveri. «La gravità della crisi ecologica – scrive il papa – esige da noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità, ricordando sempre che “la realtà è superiore all’idea” (Evangelii gaudium, n. 231)» (Laudato si’, n. 201).
II. La responsabilità etica e politica di abitare e gestire la Casa comune
Rievocando la pregnanza del termine greco οἶκος – che vuol dire “casa” e più ampiamente “ambiente dove si vive” – dovremmo pensare all’eco-logia come elaborazione di analisi sulla “casa comune”, mentre l’eco-nomia si dovrebbe preoccupare della sua gestione. Che si tratti della famiglia o dell’intero pianeta, l’etimologia colloca entrambe le dimensioni nell’orizzonte d’un progetto in cui tutti gli abitanti sono coinvolti. Nel suo complesso l’enciclica Laudato si’ mostra come tali presupposti siano tutt’altro che scontati.
Rispetto alla lunga storia del vocabolo “economia”, già presente nel pensiero antico, non è un caso che la parola “ecologia” abbia una matrice ottocentesca e tutta occidentale, legata alla massiccia alterazione degli equilibri naturali prodotta principalmente dall’industrializzazione. La necessità di studiare con attenzione specifica l’interrelazione tra l’uomo e l’ecosistema deriva dai risvolti strabilianti, e al tempo stesso inquietanti, dell’allora nascente società di massa. Potremmo cioè ammettere che sin dagli esordi l’ecologia si costituisca come studio della “crisi ecologica”. Dai disastri ambientali alle migrazioni, che oggi coinvolgono enormi masse di persone sconvolgendo gli equilibri geopolitici del pianeta, papa Francesco opera un’efficace connessione tra quelle che diremmo “catastrofi naturali” e “catastrofi culturali”.
1. Catastrofi naturali e catastrofi culturali
Il capitolo V dell’enciclica si snoda, in particolare, «tanto nelle crepe del pianeta che abitiamo, quanto nelle cause più profondamente umane del degrado ambientale» (n. 163). In diversi passi emerge, ad esempio, la preoccupazione per la “desertificazione” come progressiva distruzione della biodiversità (cf. n. 169). Da quest’immagine vorrei partire, richiamando la suggestiva metafora di Hannah Arendt che coglie nel “deserto che avanza” la nullificazione delle capacità politiche degli uomini .
La pensatrice ebrea aveva ben impressa la catastrofe totalitaria, la disumanizzazione elevata a sistema di governo, ma certamente il deserto rimane a rappresentare simbolicamente il rischio cui ogni società, in ogni tempo, può imbattersi. L’inaridirsi della “vita in comune” – questo il primo ed ultimo significato della ‘politica’ – riguarda in special modo la razionalizzazione onnipervasiva su cui si basa l’economia di mercato orientata al guadagno continuativo e non alla copertura del fabbisogno. Sotto il profilo che qui interessa maggiormente, l’efficienza del paradigma tecnocratico-capitalistico ha impoverito, fino a svuotala, la relazione istituita dallo scambio di beni. Ne risulta il predominio della meccanica produzione di merci che si aggirano in un mondo ritenuto calcolabile e controllabile tecnicamente: «Per questo l’essere umano e le cose hanno cessato di darsi amichevolmente la mano, diventando invece dei contendenti» (n. 106). Non si può più condividere la certezza d’uno sviluppo progressivo e perfettibile cha tanto aveva «[…] entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (n. 106) uniti intorno al potere, apparentemente razionale e sconfinato, del libero mercato.
Quale libertà, insomma, per la condizione umana che Max Weber definiva “disincantamento del mondo” , e che è stata poi asetticamente denominata “globalizzazione”? Più che un’astrazione univoca, quest’ultima rappresenta attualmente il corto circuito culturale tra le forme democratiche e lo schema capitalistico dell’accumulo, nel miraggio della disponibilità infinita in cui convergono spreco di risorse, inquinamento, sovrapproduzione di rifiuti, guerre, vessazioni ecc. Se per certi versi la globalizzazione ha unificato il pianeta, almeno per l’incremento dei flussi di consumo, ci si sarebbe aspettati anche un’imponente crescita del benessere dal punto di vista spirituale. Snodo fondamentale in tale direzione la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) a sugellare che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” e che “devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (artt. 1-2). Volgerei a questo punto in forma d’interrogativo un importante passaggio della Laudato si’: quanto «si è andata affermando la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune» (n. 164)?
2. Quali abitanti per la Casa comune?
Le relazioni internazionali non hanno saputo sostenere in chiave solidale l’attenzione e la cura per i mali del pianeta, sia sul piano umanistico che ambientalistico. Hanno piuttosto nutrito le dialettiche paranoiche con cui politica ed economia «[…] tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e avere cura dei più deboli» (Laudato si’, n. 198). Sul piano sovranazionale, ma anche locale, non è stata superata la dinamica acquisitiva che esige lo scarto incolmabile tra vincitori e vinti, tra chi può e chi non può, tra chi ha e chi non ha (indipendente dal ‘chi’ di turno).
Occorre perciò fortificare i pilastri etici del dibattito pubblico incoraggiando «una concezione più ampia della qualità della vita» (n. 192). Non un progetto di sviluppo sostenibile bensì un “progetto sostenibile di sviluppo” che sposti l’attenzione dallo sviluppo – principale interesse della modernità – alla sostenibilità come categoria della possibilità costantemente aperta a dubbi sui propri trionfi, sulle realizzazioni definitive, sulle conquiste irreversibili dei diritti, insomma sul compimento della perfetta umanità.
L’enciclica indica un diverso rapporto limite-possibilità da condividere nell’ambito d’una multi-level governance (pure fuori dai luoghi tipici del potere), una sorta d’unità poliedrica che si scompone e si ricompone, a seconda delle particolarità di ogni ambiente e di ogni circostanza, per la cura dei beni comuni globali (cf. n. 174). Anche “a costo” di capovolgere il classico modello del calcolo razionale mezzi/fini che, portato all’estremo, utilizza il bene comune come strumento per il profitto. Invece i «costi sarebbero bassi se raffrontati al rischio dei cambiamenti climatici. In ogni modo, è anzitutto una decisione etica, fondata sulla solidarietà di tutti i popoli» (n. 172), osserva e fa osservare papa Francesco, indicando un percorso impegnativo per risalire eticamente dagli effetti ai mezzi, non tralasciando esempi pratici:
«Uno studio di impatto ambientale non dovrebbe essere successivo all’elaborazione di un progetto produttivo o di qualsiasi politica, piano o programma. Va inserito fin dall’inizio e dev’essere elaborato in modo interdisciplinare, trasparente e indipendente da ogni pressione economica o politica. […]. C’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione» (n. 183).
In questo passo, che fa subito pensare al concetto di parresia, arriva l’eco più propriamente cristiana del capitolo V, con uno slancio oltre qualunque steccato confessionale. Del resto, accettando l’antica derivazione riportata da Lattanzio, il latino religare concerne “l’essere legati”. Relazione analoga al politico “vivere assieme” – in quanto autocostruzione dell’uomo e mai autosvilimento o autodistruzione. «La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità» (n. 201). In tal senso la religiosità non può che arricchire il confronto costruttivo sulla cura della “casa comune”. In termini filosofici, è in gioco il “credente” come colui che pone al politico la domanda capitale: sei credibile? Così inquadrata, la semplicità di papa Francesco si fa folgorante: «Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso» (n. 194).
3. «Qual è dunque il posto della politica?» (n. 196)
L’interrogativo del papa, che è anche la domanda cruciale della filosofia politica di cui mi occupo, non può fare a meno di collocare la decisione al cuore della politicità: negli ultimi anni i maggiori vertici mondiali sull’ambiente «non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci» (n. 166). Suddetta constatazione permette di rilanciare ulteriormente sulle conseguenze della globalizzazione: come mai la denaturalizzazione dei confini (politici, giuridici, finanziari) non è stata seguita da una degna internazionalizzazione della politica, ma ha perfino segnato il ritorno alla chiusura di politiche populiste e sovraniste? Forse perché i molteplici processi di denazionalizzazione rendono difficilmente individuabili gli spazi della scelta politica e quindi il riconoscimento di responsabilità? In questo vuoto pericoloso, che alimenta sempre il “fiorire del deserto”, giungono le parole di papa Francesco. E sono talmente dirette da risultare scandalose per il potere come dominio, che più aumenta meno responsabilizza: «quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di interazione orientate al bene comune» (n. 198).
Prendendo le distanze dall’operato di leader politici e classi dirigenti a vario titolo, la “pro-vocazione” di papa Francesco è un “chiamare” i grandi a farsi piccoli, così come i piccoli a farsi grandi, ponendosi al servizio di «responsabilità comuni ma differenziate» (n. 170). In questa formula di reciprocità, che evita sapientemente i rischi dell’omologazione, sono racchiuse le potenzialità salvifiche delle “differenze” in grado di generare sinergie impossibili in un mondo omogeneo: «Non si può pensare a ricette uniformi, perché vi sono problemi e limiti specifici di ogni Paese e regione» (n. 180), col pericolo di «imporre ai Paesi con minori risorse pesanti impegni sulle riduzioni di emissioni […]. In questo modo si aggiunge una nuova ingiustizia sotto il rivestimento della cura per l’ambiente» (n. 170).
Bisogna aver cura delle differenze, nel significato che mutuo da Jacques Derrida , con cui ogni identità individuale e collettiva dovrebbe fare i conti: misurarsi incessantemente col proprio limite, come con quello di ciascun ordine culturale, ripensare frontiere, ricostruire linguaggi e codici simbolici, nell’infinita differenza di ogni soggetto con sé stesso assoggettato all’infinita differenza dell’altro che mi chiama alla responsabilità.
La differenza riguarda anche il differimento nel tempo, aspetto essenziale e più volte rimarcato nella preoccupazione per la casa comune: indispensabile alla politica lungimirante è il carattere della continuità
«[…] giacché non si possono modificare le politiche relative ai cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente ogni volta che cambia un governo. I risultati richiedono molto tempo e comportano costi immediati con effetti che non potranno essere esibiti nel periodo di vita di un governo. […]. Che un politico assuma queste responsabilità con i costi che implicano, non risponde alla logica efficientista e “immediatista” dell’economia e della politica attuali, ma se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità» (n. 181).
4. Per una rotta condivisa
Dinanzi ad una politica priva di visioni “altrimenti possibili”, le forme di convivenza improntate all’assolutezza del paradigma razionale tecno-economico finiscono col distruggere «non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia» (n. 53), componenti vitali per la casa comune che l’enciclica Laudato si’ ha merito di inquadrare in una prospettiva tanto ampia quanto complessa, consentendo l’apporto di molteplici punti di vista alla ricerca di una rotta condivisa e non certo confinata all’ambito economico-finanziario. Assume invece il senso – sia come direzione che come significato – di una ecologia integrale o radicale, restituita attraverso l’iniziale accenno alle radici etimologiche. Si diceva che il progetto di cura dell’ambiente non può che essere globale perché interessa tutti i suoi abitanti. In che modo siamo coinvolti? Senza mezze misure, se non siamo coloro che curano evidentemente saremo tra coloro che necessitano di cure. Ulteriormente confermata, dunque, l’esigenza di pensare a lungo termine il circuito dell’azione politica, che si modifica continuamente mentre viene a sua volta modificata dalle circostanze: non però un universo di relativismo universale, bensì un’opportunità per affidare a ciascuno la responsabilità del proprio punto di vista e delle proprie scelte.
L’esperienza mostra che persino «i migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso» (n. 181). La leggerezza con cui la politica affronta le fragilità del pianeta non sembra aver colto il risvolto positivo delle sfide mondiali poste dalla globalizzazione, nondimeno torna il nesso tra natura e cultura giacché, almeno sul piano culturale, il «peggio non è né inevitabile né irreparabile» . Nonostante «l’umanità del periodo post-industriale sarà forse ricordata come una delle più irresponsabili della storia, c’è da augurarsi che l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (n. 165).
Egidio Palumbo e Maria Grazia Recupero
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