La situazione della nostra casa comune

Lettura della Laudato si’, capitolo per capitolo, per capire la proposta di papa Francesco di una ecologia integrale. Capitolo I.

Il parallelismo tra l’enciclica Pace in terris di papa Giovanni XXIII e Laudato si’ di papa Francesco, proposto da Enzo Bianchi nella sua introduzione dell’enciclica sulla cura della casa comune, mi sembra convincente non solo perché l’attuale vescovo di Roma come l’allora pontefice del Concilio si rivolge ad una platea più ampia di quella dei cattolici, ma soprattutto perché effettivamente nel primo caso eravamo sull’orlo di una guerra nucleare mondiale, nel secondo caso ci troviamo sull’orlo del precipizio di una catastrofe ambientale se non si compiono decisi passi verso un’ecologia integrale.

1. La cultura dello scarto

Nel primo capitolo dell’enciclica Laudato si’ papa Francesco mette subito in risalto i rischi di una cultura dello scarto presente purtroppo nella società contemporanea dedita a consumare e scartare. Scrive il papa: «Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli essere umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura (n. 22)». Una lettura contestualizzata dell’enciclica ci porta a rilevare criticamente come nella sua storia recente l’Italia ha potuto sperimentare di continuo i rischi connessi all’incapacità di creare un circuito virtuoso di produzione industriale con un riutilizzo all’infinito dei materiali prodotti. L’Italia patria della plastica solo di recente ha timidamente iniziano a invertire la tendenza all’inquinamento senza scrupoli dell’ambiente. Quintali di rifiuti di tipo civile di ogni tipo sono finiti in discarica per decenni senza essere precedentemente differenziati, creando danni ambientali e inquinando spesso le falde acquifere.

Ma la questione più delicata è emersa nel contesto dei rifiuti industriali e dei rifiuti speciali che, invece di essere effettivamente smaltiti in modo accurato e corretto, spesso sono stati occultati in discariche abusive o accumulati senza alcun criterio in grandi capannoni per poi andare a fuoco misteriosamente (vedi i numerosi incendi in Lombardia degli ultimi tempi). Centinaia di inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno evidenziato come lo smaltimento illecito di rifiuti anche molto pericolosi sia stato e ancora purtroppo è una strategia di molte imprese di tutta l’Italia. Come dimostra la storia della terra dei fuochi in Campania, molta parte dei rifiuti pericolosi del nord sono stati occultati in discariche al sud, grazie alla complicità delle classi dirigenti locali e con l’apporto operativo fondamentale delle mafie. In alcuni casi la fame di lavoro al sud ha prodotto bonifiche mortali.

Una su tutte la storia paradossale e inquietante dell’Isochimica di Avellino. Una storia di vite a perdere. La vita di decine di operai che senza alcuna protezione dal 1982 al 1987, nel binario morto della stazione di Avellino, hanno “liberato” le carrozze delle ferrovie italiane del pericoloso amianto che ne rivestiva le pareti. Una storia raccontata in un bel libro curato dal sociologo Antonello Petrillo paradigmatica del modo di operare di pezzi dello Stato, di certi imprenditori e della debolezza dei lavoratori in certi contesti dominati da logiche di ricatto occupazionale. Logiche di ricatto occupazionale alla base delle quali territori bellissimi della nostra Sicilia sono stati devastati con la presenza invasiva di impianti petrolchimici o di centrali elettriche a base di combustibili fossili rimodellando il territorio e i tessuti urbani con una poco nascosta logica coloniale.

L’Eni è arrivata, ad esempio, nel caso di Gela a riservare l’acqua di qualità agli impianti e al quartiere dei dirigenti e tecnici del nord e lasciare l’acqua del dissalatore a gran parte della popolazione locale. Spesso poi non sono le normative a mancare nel guidare i controlli, ma difetta il complesso di equilibri tra le varie componenti del sistema che si rivelano a tutto vantaggio dei grossi gruppi industriali. Per questo può succedere che anche a seguito di direttive precise degli enti controllori rispetto al rinnovo degli impianti le società possono rinviare gli interventi (vedi caso Milazzo) mettendo a rischio popolazioni residenti e lavoratori.

Scrive Francesco: «il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie (n. 22)». Non solo queste affermazioni non possono essere smentite ma bisogna mettere in evidenza che l’incapacità di “assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie” ha provocato un commercio vergognoso di tali scorie, non solo come abbiamo prima evidenziato all’interno delle stesse nazioni in cui i rifiuti sono stati prodotti ma anche verso nazioni più povere. Il caso dell’uccisione il 24 maggio del 1994 a Mogadiscio in Somalia della giornalista Ilaria Alpi e del teleoperatore Miran Hrovatin ha ben messo in evidenza un intreccio perverso tra falsa cooperazione internazionale, traffici d’armi e di scorie industriali. La giornalista è stata trucidata perché stava indagando su questi traffici e sulle complicità istituzionali che li coprivano e li alimentavano.

A svelare al mondo lo smaltimento illecito di rifiuti in Somalia (iniziato già negli anni Ottanta) sarà lo tsunami del 26 dicembre 2004 che ha colpito e devastato parti delle regioni costiere dell’Indonesia, dello Sri Lanka, dell’India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh, delle Maldive ma che è riuscito a raggiungere anche le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km dall’epicentro del sisma). Ebbene sulle spiagge somale stravolte dallo tsunami sono riemersi fusti e interi container di rifiuti pericolosi. Come scrive Marzia Ronconi quando si parla di rifiuti pericolosi si fa riferimento a: «rifiuti sanitari, oli e sostanze oleose, batterie, rifiuti contaminati con bifenili policlorurati (PCB) e scorie d’amianto».

Ma è anche importante quanto specifica più avanti: «La produzione mondiale di rifiuti pericolosi si stima raggiunga annualmente 350 milioni di tonnellate; il 90% di questi viene prodotto dai paesi industrializzati, di cui i maggiori produttori sono gli Stati Uniti e l’Europa». Questo dato di realtà ci fa capire quanto i disastri ambientali dei paesi in via di sviluppo non siano causati da fattori interni, quanto dal tentativo dei paesi industrializzati di scaricare su quelli più poveri la loro incapacità o non volontà di instaurare dei processi di produzione veramente green, che puntino a riutilizzo infinito dei materiali.

2. Il clima come bene comune

I cambiamenti climatici, anch’essi per lo più provocati dai processi industriali di Stati Uniti, Europa e negli ultimi anni anche Cina, tra l’altro rischiano di far ricadere i loro effetti sui paesi più poveri. Se è vero che certi cambiamenti climatici nei tempi lunghi possono dipendere da fattori naturali, l’idea ormai largamente condivisa dagli scienziati di tutto il mondo è che la velocità di tali cambiamenti è chiaramente da imputare al ciclo del carbonio.

L’apertura alle fonti energetiche pulite c’è stata in tutti i paesi ma è evidente che ancora ci sono forti resistenze e forti interessi a mantenere l’uso delle fonti energetiche fossili. L’estrazione e la lavorazione di petrolio comportano tra l’altro un enorme impatto ambientale in molti paesi: un esempio per tutti la Nigeria. Qui i disastri ambientali nel sud del paese provocati dalle compagnie petrolifere hanno portato a ingenti spostamenti di popolazioni verso il nord e da lì verso l’Europa. E l’inquinamento ambientale come spesso accade è coperto dalla corruzione tra imprese e uomini delle istituzioni. La nostra Eni, ad esempio, non è stata al centro di intrecci di corruzione e disastri ambientali solo in Nigeria ma in diversi altri paesi africani. Tra questi paesi il Congo è quello dove esponenti del governo locale e alti vertici dell’Eni sono stati al centro di discussi affari sul gas in odore di tangenti, in cui si evidenzia come alla collettività locale rimane solo l’inquinamento e i lavori più umili e mal pagati, mentre i dirigenti delle multinazionali e i politici del luogo si spartiscono profitti da capogiro. Un bel modo di “aiutarli a casa loro”.

In generale è evidente che i cambiamenti climatici impatteranno maggiormente sui più poveri e Francesco su questo è netto: «i cambiamenti climatici danno origine a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono dalla miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa (n. 25)».

Se alcuni territori costieri saranno sommersi dall’acqua, se certi territori diventeranno inospitali per la desertificazione, non sarà un problema per chi ha risorse economiche e potere politico-istituzionale, sarà un problema per chi già vive di stenti e tra mille difficoltà. Diversi paesi costieri dell’Africa che vivevano di pesca si sono trovati in difficoltà perché grandi imprese hanno operato nei loro mari con potenti mezzi depauperando il patrimonio ittico. I defraudati hanno reagito in diversi modi: chi inventandosi nuove attività magari attinenti al turismo, chi scegliendo di migrare, chi dandosi alla pirateria in mare. Le risorse turistiche in alcuni casi possono diventare una valida alternativa ma per essere tali dovrebbero essere maggiormente gestite dalle popolazioni locali invece che essere in mano alle multinazionali occidentali. Inoltre, è difficile diventare attrattivi turisticamente dove i disastri ambientali hanno ormai reso poco appetibili i territori, mentre dove l’equilibrio ambientale è ancora buono incombe il rischio della sommersione delle coste a causa del repentino cambiamento climatico. Insomma, evitare sconvolgimenti climatici e proteggere l’ambiente è un bene prima di tutto per le popolazioni più povere.

3. L’acqua un bene inestimabile

Nel complesso rapporto dell’uomo con il pianeta Terra un ruolo importante ha sempre avuto e sempre avrà l’acqua. È importante, dunque, l’appello del Santo Padre sull’argomento: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità» (n. 30).

Sono parole inequivocabili quelle che usa Francesco a proposito di acqua e diritti umani. Negare l’accesso all’acqua ai poveri in nome delle leggi del mercato è qualcosa di inaccettabile umanamente e cristianamente. Insomma, non si può scendere a compromessi su questo. D’altronde in diversi paesi molto poveri dell’Africa, l’Asia o il Sud America ancora oggi si consuma acqua di scarsa qualità o addirittura inquinata (con la conseguente diffusione di malattie), perché mancano le infrastrutture per renderla accessibile a tutti e anche perché le imprese operanti in questi paesi (spesso multinazionali) non fanno nulla per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni.

In Italia sul tema della privatizzazione dell’acqua c’è stato un grande movimento per la ripubblicizzazione di essa. Grazie ad una raccolta firme molto partecipata si è arrivati al referendum del 12 e 13 giugno 2011, 26 milioni di cittadini italiani sancirono che sull’acqua non si sarebbe potuto più fare profitto. E con quel “Sì” tracciato sulla scheda i cittadini decisero di abrogare (parzialmente) una norma relativa alla tariffa dell’acqua che prevedeva l’“adeguata remunerazione del capitale investito”. «Togliere quel passaggio comportava niente più margini, finanza speculativa o business, semmai un servizio efficiente a fronte di investimenti sulla rete tangibili, ad esempio per ridurre le perdite.

In forza del fatto che “il diritto all’acqua potabile e sicura ed ai servizi igienici” – come sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010 – è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”». A distanza di otto anni molti dubbi sulla reale applicazione dei risultati di quel referendum… più che dubbi certezze, se, come ha fatto il sito acquabenecomune.org, si vanno a vedere i bilanci delle più grandi partecipate italiane quotate in borsa che, a fronte di aumenti consistenti in bolletta, invece di aumentare gli investimenti per migliorare qualità dell’acqua e servizi di distribuzione hanno costantemente aumentato i dividendi degli azionisti. Ciò dimostra la fondatezza e l’urgenza dell’appello del Santo Padre di ridurre l’influenza della logica di mercato dalla gestione dell’acqua. Fino a quando a dominare le strategie degli enti gestori degli acquedotti saranno i profitti da spartire l’idea dell’acqua come bene comune rimarrà solo un’utopia.

4. L’iniquità dei rapporti planetari

In conclusione, il primo capitolo dell’enciclica Laudato si’ invia un messaggio chiaro che pervade tutto il documento pontificio: «oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre più un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della Terra quanto il grido dei poveri» (n. 49). Parlare di biodiversità, di preservare i polmoni verdi della Terra, di ricchezza di colture per l’agricoltura contro i rischi delle grandi proprietà di imporre le monoculture, di conservazione e anzi sviluppo di varie tipologie di semi e di frutti contro la conformità delle grandi corporation che tendono a semplificare per rendere i contadini più dipendenti dalle loro produzioni, deve servire appunto a legare la difesa dell’ambiente al superamento della povertà. L’uno ha senso se si lega all’altro.

Anche i promotori delle battaglie civili promosse in Italia, e in tante parti del pianeta, contro l’eccesso di cementificazione del territorio devono trovare un canale di comunicazione con le fasce sociali più deboli. Preservare il paesaggio come bene comune deve diventare non un’esigenza da ricchi illuminati, ma un forte imperativo di tutte le fasce sociali, rendendo socialmente conveniente tutelare e preservare il territorio. Chiaramente per fare tutto ciò bisogna rispondere ai bisogni primari di quei ceti sociali impoveriti dalla lunga crisi economica di questi anni. Si deve prospettare sicuramente un’alternativa ad uno sviluppo economico tutto improntato su cementificazione del territorio e proliferazione di industrie inquinanti, ma è evidente che una via verde, anche se basata su un nuovo modo più equilibrato di produrre e consumare, deve sempre far intravedere un miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi.

L’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ riteniamo sia utile, fin dal suo primo capitolo, a indirizzare autorevolmente il dibattito pubblico verso una maggiore consapevolezza della questione ambientale legandola in modo indissolubile alla questione sociale e, dunque, all’emancipazione dei poveri.

Tindaro Bellinvia
Mercoledì della spiritualità 2019, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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