Il lavoro in oratorio come esperienza educativa

L’esperienza educativa del progetto Work in progress, che assegna piccoli lavori ai giovani.

Il tipo di accoglienza oggi riservata ai giovani, negli oratori, è per lo più legata ad attività ludicosportive (il classico “campetto del prete”) oppure ad attività che potremmo definire “intellettuali/riflessive” (i gruppi parrocchiali). Negli anni, le parrocchie hanno fatto scelte precise in questo senso, sia dal punto di vista edilizio (le strutture realizzate, i metri quadrati dedicati allo sport, al gioco, le aule dedicate agli incontri), sia sotto l’aspetto pastorale (le società sportive costituite, i professionisti al lavoro, i volontari coinvolti). Queste attività, naturalmente, non costituiscono qualcosa di sbagliato o di negativo in sé, e tuttavia la loro crescita sproporzionata ha finito per soffocare altre proposte educative non meno utili o significative per il vissuto dei giovani, che risultano ormai praticamente assenti all’interno delle parrocchie.

Il lavoro, ad esempio, inteso appunto come esperienza educativa, da tempo non appartiene più al mondo degli oratori, né – più in generale – alla nostra società. Così, se è per tutti normale immaginare un campetto da calcio vicino alla chiesa, non lo è affatto immaginarvi un’officina o una bottega artigiana (sebbene Gesù fosse un falegname, non certo un calciatore!). A questo fatto è bene incrociare un altro dato: i giovani che più di frequente abitano gli oratori, oggi, sono spesso giovani “border-line”, ossia ragazzi e ragazze con vissuti familiari faticosi, magari a rischio di dispersione scolastica, che talvolta hanno persino già abbandonato gli studi.

Gli altri giovani, quelli “normali”, hanno infatti agende fittissime di impegni e quando frequentano la parrocchia si tratta solo di un pezzetto (magari l’ora settimanale del gruppo parrocchiale, o il raduno scout) di un pomeriggio dagli orizzonti ben più ampi. Così, a vivere quotidianamente l’oratorio, a farne il proprio rifugio, sono quei giovani che non sanno dove altro andare, magari perché incapaci di stare alle regole di una società sportiva o perché impossibilitati a pagarne l’iscrizione. Ebbene, a questi la parrocchia che cosa offre? Da un lato, “luoghi in cui bestemmiare il tempo”, come diceva don Milani (l’espressione è forte, ma rende bene l’idea).

Mi riferisco a spazi in cui tante volte il tempo viene semplicemente consumato, poiché avvertito come un grande ingombro di cui bisogna disfarsi in ogni modo. Si tratta di solito di luoghi-soglia, come il campo da calcio o il salone dell’oratorio: luoghi aperti a tutti ma al tempo stesso “esterni”, che i giovani – più che abitare – sfruttano a loro uso e consumo, appunto per “passare il tempo”. Dall’altro lato, sono proposti luoghi di riflessione: le aule del catechismo, le sale per incontri o riunioni; questa volta spazi fin troppo “interni” e profondi, di cui ogni parrocchia è ben fornita, ma dove questi giovani raramente mettono piede. Fino ad alcuni anni fa, l’oratorio del Corpus Domini, a Parma, aveva provato a rispondere ai bisogni degli adolescenti e dei giovani che lo frequentavano aiutandoli nello studio. Si trattava soprattutto di giovani con grosse difficoltà scolastiche, per cui organizzare un doposcuola da principio ci era sembrata un’idea magnifica.

Solo che, dopo qualche tempo, ci siamo accorti di un fatto evidente: magari questi ragazzi che aiutavamo nei compiti prendevano un 6 in pagella, magari grazie al nostro aiuto venivano addirittura promossi, eppure ugualmente il rimando che avevano su loro stessi, a livello scolastico, era tutt’altro che positivo. La scuola restava un vissuto faticoso, se non addirittura fallimentare, in cui loro riuscivano ad andare avanti solo con l’aiuto di altri e che non riusciva ad intercettare le loro competenze. Le competenze, tuttavia, al di là di ciò vedeva la scuola, c’erano. In oratorio ci accorgemmo, ad esempio, che questi ragazzi possedevano una qualità notevolissima (probabilmente legata alla necessità di arrangiarsi in ogni contesto che caratterizzava le loro vite): sapevano usare le mani!

Non è cosa da poco, al giorno d’oggi, saper usare le mani; in particolare per un giovane. Così, ci siamo detti che valeva la pena tentare di assumerli e mettere a frutto questa loro qualità. E che forse ne sarebbe uscito qualcosa di buono. L’esperienza di Work in Progress parte da qui. Il progetto è piuttosto semplice: la parrocchia assume alcuni ragazzi con la forma del contratto di prestazione occasionale (i nuovi voucher introdotti dall’Inps) e affida loro piccoli lavori di manutenzione, tinteggio, sgomberi, giardinaggio, da portare a termine col tutoraggio costante di un educatore professionista. Da principio si è trattato di lavori all’interno del centro parrocchiale (non difficili da trovare, visto che in generale le nostre strutture parrocchiali sono assai bisognose di cure), dove si è più “protetti” e ci si può anche permettere di sbagliare, ogni tanto.

Mano a mano che il gruppo ha preso confidenza col lavoro, tuttavia, il progetto si è aperto anche all’esterno, al quartiere e a chiunque avesse necessità di eseguire quelle attività in cui avevamo acquisito un po’ di esperienza. Così, a poco a poco anche altri hanno cominciato ad “assumerci” (pagando, nella pratica, il costo dei voucher, che tuttavia predisponevamo noi), dandoci in tal modo l’occasione di autosostenere, almeno in parte, i costi del progetto. Oggi siamo al terzo anno di Work in Progress e il progetto, pur restando un’esperienza molto piccola, è cresciuto tanto. Sono tre gli educatori coinvolti e una decina i giovani che vi lavorano ogni settimana. Noi stessi ci siamo tante volte stupiti di come il lavoro sia diventato, per questi ragazzi, un’esperienza importante, un’occasione per ripensare – almeno in parte – le loro vite. E se un albero buono lo si riconosce dai frutti (Mt 7,16), i frutti di Work in Progress sono stati davvero preziosi.

Provo a sintetizzarli così:
– il progetto che ha permesso ai giovani partecipanti di avere una diversa idea di tempo, non più come qualcosa da consumare, ma da mettere a frutto;
– ha modificato, in tal modo, la loro percezione del futuro: non più vissuto come minaccia, come qualcosa da cui fuggire, ma come qualcosa da progettare, verso cui direzionarsi;
– ha fortificato la fiducia in loro stessi e la loro stessa identità personale: per la prima volta si sono sentiti capaci di fare bene qualcosa; hanno capito finalmente non ciò che non erano (non erano bravi figli o bravi studenti), ma ciò che erano: magari bravi imbianchini, o bravi giardinieri;
– essi hanno poi acquisito un diverso senso di appartenenza alla parrocchia, ora vissuta non più in termini di consumo ma di “abitazione”, perché prendersi cura di un luogo modifica profondamente il legame con esso;
– si è infine modificata la loro percezione del mondo adulto: ora il mondo adulto non è più soltanto un mondo che li rifiuta, o che li confina agli spazi esterni e ad attività ludiche, ma che affida loro compiti di responsabilità e che crede così tanto in loro da retribuirli per il lavoro che svolgono.

È diventato un mondo che, come dovrebbe essere, li accompagna verso la conquista di una completa autonomia. Niente di nuovo sotto il sole, a dire il vero, visto che il lavoro costituisce da sempre uno degli archetipi educativi fondamentali in qualunque tipo di società o cultura. Da sempre esso rafforza il giovane circa il proprio valore e la propria identità. La novità preoccupante sembra essere piuttosto, oggi, la sua mancanza: “sotto tale aspetto, la perdita per estinzione di questa forma strutturale nella società contemporanea costituisce presumibilmente una delle cause dell’indebolimento generalizzato dei processi educativi” (M.T. Moscato, Preadolescenti a scuola). Quando attuato, il lavoro resta tuttavia uno strumento educativo potentissimo nei confronti dei giovani; uno strumento che le parrocchie potrebbero (e, verrebbe da dire, dovrebbero) impiegare molto di più.

Guarda qui il dépliant dell’iniziativa

Filippo Binini

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