Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. Il conflitto tra due sorelle in competizione nell’amore.
Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. Il conflitto tra due sorelle in competizione nell’amore.
1. Il termine “sorella” nella catena relazionale
Il termine “sorella” ha uno spessore tutto proprio. Non diversamente da fratello, dice innanzitutto l’avere in comune il padre e la madre o uno, almeno, dei due genitori, i quali a loro volta stanno all’interno di una catena generazionale. Appartiene alla condizione umana questo riconoscersi e ritrovarsi in un legame singolare con altri/e parimenti generati/e. E, nel pur duro do ut des della rete familiare, riconoscere una donna come sorella ingenera una relazione che potremmo dire “gratuita”. Infatti, a differenza di quanto avveniva nelle culture prossime dell’area medio-orientale, nella cultura ebraica (e poi nella cultura cristiana), una sorella resta fuori dalla domanda sessuale.
A inizio del secondo millennio, con forte connotazione anti-istituzionale e residua nostalgia della comunità cristiana primitiva, a chiamarsi sorelle – in analogia al chiamarsi fratelli – sono state le donne appartenenti ai movimenti pauperistici, marginali e non. Annotiamo come una curiosa flessione del termine “sorella” riguarda l’averlo usato per indicare la relazionalità forte, affettuosa, verso la madre del Signore, dicendosene fratres o sorores – si veda ad esempio la tradizione carmelitana. Con congruo distacco temporale, la presenza di questo epiteto in alcuni pensatori della Riforma ha condotto la parte cattolica a smarrirlo, sino a quando Paolo VI se ne è riappropriato chiamando Maria sorella, con ciò facendosi eco, forse inconsapevolmente, della riscoperta sororale di Maria, fatta negli anni ‘70 dal movimento femminista.
2. Sorella nel Primo Testamento
Il ricorso al termine è, tuttavia, epigono della pratica neotestamentaria. In essa, infatti ci si chiama reciprocamente “fratello” e/o “sorella”. Troviamo “sorella” 26 volte contro le 345 di “fratello”, mentre nel Primo Testamento ritorna 114 volte contro le 629 di “fratello”. Né va dimenticato un uso metaforico del termine, oltre l’immediatezza del legame di sangue. In alcuni testi, infatti, “sorella” evoca il riconoscimento di un legame affettuoso e solidale. Lo stesso amore tra un uomo e una donna, nella sua forma più sublime, ne ingloba le suggestioni. “Sorella” è così la sposa del Cantico (cfr. Ct 4,9.12; 5, 1-2; 8,1); e “sorella” è Sara, la sposa che Tobia guarda come compagna da accogliere e rispettare (cfr. Tb 8,4.7). Insomma, “sorella” è termine riassuntivo in eccedenza della relazionalità con il femminile. Si veda Pr 7,4, in cui è la Sapienza ad essere chiamata “sorella”, a conclusione di un circolo di transitività che ingloba anche i termini di sposa e madre.
Un po’ più complesso, però, è il chiamarsi o riconoscersi sorelle al femminile. Come ci ricorda l’auspicio non del tutto dismesso: “auguri e figli maschi” detto ai novelli sposi, nascere donne, nella stragrande maggioranza delle culture, non è esattamente il massimo né per i genitori, né per le stesse figlie. Basta pensare agli aborti selettivi in uso in India e in Cina, succedanei dell’infanticidio delle figlie femmine, culturalmente (ed economicamente) considerate un peso più che una risorsa. Questa remora culturale è presente anche nella Scrittura. Il fatto che si appartiene al popolo ebraico per via matrilineare non fa né delle madri né delle figlie protagoniste o artefici del proprio destino. A differenza dei fratelli, entrano nell’asse ereditario solo in mancanza di figli maschi (cfr. Num 27,1-8). Le figlie poi, come le madri, sono rigorosamente tenute a osservare la castità: prima e dopo le nozze (cfr. Lev 20,10; Dt 22,20s.). Ovviamente accettano il marito scelto per loro dal padre, senza particolare attenzione a inclinazioni, corrispondenze, prossimità, inclusa la differenza d’età.
È in questo contesto che si collocano alcune vicende sororali. La più cruenta e drammatica riguarda Dina, una delle figlie di Giacobbe (cfr. Gen 34). Rapita e violentata, viene richiesta in sposa dal violentatore. Il disonore che l’ha colpita (o, più esattamente, che li ha colpiti) impedisce ai fratelli di accettare un matrimonio riparatore. Qui in gioco è il rapporto fratelli/sorella. E lo schema è proprio quello dell’onore. Dina, nel codice patriarcale, è un bene di cui si dispone. Violarla non è offesa contro di lei, quanto contro i maschi del clan familiare, padre e fratelli, appunto. Sorelle invece sono Rachele e Lia (cfr. Gen 29,9-30,24), su cui torneremo più diffusamente a breve.
Un triangolo fraterno/sororale è quello invece di Mosè Maria e Aronne. Nel gioco delle parti in cui la loquela di quest’ultimo supplisce la lacuna del primo, assai più carismatico, ecco la sorella, corifeo delle danze e del canto di vittoria (cfr. Es 15, 1bss. 21). Lei che fanciulla si è assicurata che qualcuno salvasse il neonato abbandonato alle acque del Nilo (cfr. Es 2,1-10), parlerà contro di lui a causa della donna etiope che questi ha sposata (cfr. Num 12). Infastiditi dalla scelta di Mosè, sia Aronne che Maria rivendicano il loro ruolo nell’epopea della liberazione. La lebbra che la punisce, dice però anche, nel sostare del popolo sin quando non sarà monda, la sua rilevanza nella vita della comunità esodiale. Ancora un rapporto tragico, incestuoso, è al tempo di Davide quello di Amnon con la sorella Tamar (cfr. 2 Sam 13). La vendicherà Assalonne e il fratricidio lo allontanerà a lungo dal padre.
3. Sorella nel Nuovo Testamento
Se passiamo al Nuovo Testamento, ancora una triangolazione fraterna con accentuata leadership sororale è quella di Marta Maria e Lazzaro, amici del Signore. A contrapporle, secondo la rilettura lucana (cfr. Lc 10,38-42), è la dedizione totale della prima al Maestro, lo stare ai suoi piedi ad ascoltarne la parola, mentre una alacrità ancillare porta la seconda a farsi carico degli ospiti. Coerentemente alla gerarchia di valori propria del Regno che annuncia, Gesù quasi rimprovera Marta, indicando Maria come colei che ha scelto la parte migliore. La lettura giovannea disegna però Marta in termini fortemente discepolari. Infatti, confessa Gesù come «il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (Gv 11, 27). In ogni caso le testimonianze sono concordi: la casa di Betania è il luogo sereno e amicale dove Gesù di Nazaret e i suoi vengono accolti. Marta e Maria e lo stesso Lazzaro nutrono sentimenti di devozione verso il Maestro e appaiono uniti tra loro da un forte vincolo di affetto che si manifesta in tutta la sua intensità proprio in occasione della malattia e della morte di Lazzaro.
Altre figure sororali sono quelle delle donne ai piedi della croce. Le unisce quel legame forte delle donne alla vita (e alla morte) di cui sono tradizionali interpreti e testimoni. Adelphé (sorella) nel Nuovo Testamento ricorre, dunque, per indicare Marta e Maria, e le sorelle di Gesù – delle quali, però, non ci viene detto il nome – nelle pericopi in cui si parla dei “suoi” fratelli (cfr. Mc 6,3; Mt 13,55; Gv 7, 3s.; At 1,14; 1 Cor 9,5). Lo ritroviamo anche nei luoghi in cui polemizza con la sua famiglia secondo la carne (cfr. Mc 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21). Pochissime volte il termine indica donne concrete indicate per nome. Oltre a Maria moglie di Cleopa e Marta e Maria di Betania, sorella è usato per Febe e Appia, per le quali però acquisisce il sapore specifico del loro appartenere alla comunità cristiana. Sorella invece è quella di Nerea, di cui non ci viene detto il nome, come pure quella di Paolo del cui figlio si parla in At 23,16.
4. La sororità conflittuale di Rachele e Lia (cfr. Gen 29-30)
Se questo è l’orizzonte delle ricorrenze importanti, spostiamo ora la nostra attenzione su Rachele e Lia, la prima più bella e amata oltre misura, la seconda bruttina – dagli occhi smorti – e sposata con l’inganno, nel buio che avvolge il talamo nuziale. Competere nell’amore dello stesso uomo è forse l’esperienza più sgradevole che possa darsi tra sorelle. E poiché, in una cultura patriarcale, luogo di competizione è il grembo di ciascuna, ecco la gara tra le due, consolata Lia a ragione dell’amore che le manca con la copiosa nascita di figli, umiliata la diletta che addirittura è a lungo infeconda. Diciamo che il triangolo è perfetto: un marito; due sorelle; una pletora di figli in una gara fatta anche a partire dal grembo delle schiave, considerato a tutti gli effetti come propria carne. Una rivalità che tragicamente spegne Rebecca, la sposa diletta, nel dare alla luce Beniamino, il suo secondo nato (cfr. Gen 35, 16-20). Siamo all’interno dell’epopea dei patriarchi. Terzo dopo Abramo e Isacco, Giacobbe è colui dai cui lombi usciranno le dodici tribù.
Figlio di Isacco e Rebecca, fratello del gemello Esaù, Giacobbe si mostra fedele al Dio dei suoi padri a cui innalza una stele in Betel dopo averne sperimentato la presenza e la promessa di una larga progenie. In lui e nella sua discendenza «saranno benedette tutte le tribù della terra» (Gen 28,14). Più avanti lotterà con Dio una notte intera e ne resterà sciancato. Riceverà perciò il suo nuovo nome, Israele, perché ha combattuto con gli uomini e con Dio e ha vinto (cfr. Gen 32,29). Ovviamente si tratta di una narrazione mitica: una saga familiare che è anche epopea religiosa. Dio si è scelto un popolo e gli ha destinato una terra. «Questo popolo è Israele, questa terra è la Terra santa» . Difficile districarsi nella questione delle fonti, come pure nella datazione o collazione delle medesime. Problemi tutti che lasciamo a margine. Della stessa vicenda di Giacobbe-Israele seguiamo solo ciò che riguarda Rachele e Lia. Ci troviamo dinanzi, innanzitutto, a un legame di sangue. Rachele e Lia sono figlie di Labano, zio di Giacobbe perché fratello di Rebecca, sua madre. Presso di lui, in Mespotamia, egli giunge inviato dal padre e dalla madre, dopo che con la complicità di quest’ultima ha sottratto la benedizione dovuta al fratello Esaù, primogenito della coppia e suo gemello.
Curiosamente sta a monte della vicenda la storia conflittuale di due fratelli, a cui ben presto si affiancherà quella altrettanto conflittuale di due sorelle. Genesi 29 descrive l’arrivo di Giacobbe presso Labano. Lì accanto a un pozzo stanno alcuni pastori con le loro greggi. Ed è a loro che Giacobbe chiede notizie dello zio. Quand’ecco sopraggiunge la figlia di lui, Rachele. Il pozzo è chiuso da una grande pietra. Spostarla richiede grande fatica e lo si fa, in diversi, e solo quando attorno si sono radunate tutte le greggi. Ma Giacobbe, sedotto dalla bellezza di Rachele, fa sfoggio di una forza inusitata e sposta da solo l’enorme pietra consentendo alle pecore della cugina di abbeverarsi. Il pozzo è un luogo privilegiato nella Scrittura, evocatore dell’acqua e del suo rapporto alla vita. Lo si scava con fatica e in profondità sino a trovare l’acqua che disseta persone e animali. In prossimità di un pozzo si erano incontrati Rebecca e il servo di Abramo, venuto a chiederla in sposa ad Isacco (cfr. Gen 24); e in prossimità di un pozzo – quello di Madian – si sono incontrati Mosè e Zippora (cfr. Es 2,11-22). Ancora in prossimità di un pozzo – quello di Sichar – Gesù incontra la Samaritana (cfr. Gv 4).
Come si evince dal racconto giovanneo, al pozzo le donne vanno anche da sole, pur se, per pudore, non in pieno giorno come fa invece la donna Samaritana. Potremmo dire che quello è uno dei pochi luoghi dove le si può incontrare liberamente. Da qui l’alone amoroso che lo circonda. Rachele, il cui nome viene sciolto come “pecorella”, “pecorella di Dio”, “mite pecorella”, è una pastora. La vita nomade accomuna nella fatica del pascolo uomini e donne e le figlie stesse di un uomo che pure possiede molte greggi. Giacobbe si dà a conoscere alla cugina. La bacia e piange di commozione. In ciò forse lo trasporta l’impetuoso suo sentimento. Ma più probabilmente, sapendo quali legami di sangue lo leghino alla fanciulla, si comporta di conseguenza. Rachele lo conduce presso il padre, e quest’ultimo sugella il riconoscimento del nipote con parole di sapore genesiaco: «davvero tu sei mio osso e mia carne!».
Dobbiamo supporre che Giacobbe manifesti a Labano la sua volontà di stabilirsi presso di lui. Non però gratuitamente, ma da salariato. E, infatti, di quanto corrispondergli che s’informa Labano. Ma Giacobbe, che è innamorato di Rachele, la bella, si offre di stare sette anni a suo servizio, pur di sposarla. Labano è d’accordo. Rientra nell’uso cercare una sposa nella cerchia della propria gente, del proprio clan, piuttosto che presso estranei. Ci stupisce però il lungo tempo della servitù di Giacobbe. Forse Rachele era assai giovane. Sposarla dopo sette anni significa che doveva essere prossima ai venti anni, un’età avanzata nell’ordine patriarcale che legava al menarca l’idoneità delle ragazze al matrimonio. Tutto si svolge festosamente allo scadere di un tempo che Giacobbe vive come breve, tanto è l’amore che lo lega a Rachele. Notiamo di passaggio come il racconto faccia spazio alla passione che prevarica sul tempo, quasi abbreviandolo. Ma il despotismo patriarcale non transige. La prima a sposarsi – questo è l’uso – deve essere la maggiore, che sin qui nessuno vuole a motivo dei suoi occhi. Dobbiamo supporla ben oltre i venti anni.
Secondo l’uso orientale la sposa viene condotta allo sposo velata. Certo ci meraviglia che al momento di consumare le nozze Giacobbe non si accorga dell’inganno. Forse Lia avrà usato ogni accorgimento per attuare il disegno del padre. Molto probabilmente, è sedotta anche lei dalla prestanza di Giacobbe. Insomma: un uomo amato da due donne e per giunta sorelle. Giacobbe accetta le regole, e dunque trascorre la settimana nuziale con Lia, pur di ottenere finalmente in moglie Rachele, benché la condizione è che resti ancora sette anni a servizio del suocero. E a questo punto ci viene il sospetto che sia altro il computo del tempo o che sette anni dica piuttosto un tempo lungo, non un tempo definito… Per noi è difficile entrare in un ménage come questo. Magari, poi, non è così lontano da esperienze letterarie o dirette. In qualche modo la menzogna, con cui Giacobbe ha avuto accesso alla benedizione paterna fingendosi Esaù, ora gli si ribalta contro. Di certo Rachele è l’amata, benché questo non gli impedisca di assolvere ai suoi doveri coniugali verso Lia.
Ho letto da qualche parte che nella tradizione ebraica esiste una versione che vede in Rachele e Lia non due avversarie ma due complici. Ben conoscendo il disegno del padre si accordano così da far credere a Giacobbe di stare consumando le nozze con Rachele anziché con Lia. Francamente mi sembra una ipotesi peregrina. Ben diverso infatti è il seguito della vicenda, la gara, ventre fecondo contro ventre sterile per accaparrarsi definitivamente l’amore di Giacobbe. E, ancora una volta, la sterilità, l’onta più grave attribuita a una donna, si gioca in un corpo a corpo che chiama in causa altre donne, le schiave, possesso proprio, perciò prolungamento della propria carne. Lia è a quota quattro e Rachele a quota zero. A entrambe il padre ha dato una schiava. Ed Ecco Rachele da al marito come concubina la schiava Bilhà perché, partorendo tra le sue ginocchia, generi un figlio a Giacobbe.
E ciò – potremmo ben parlare di utero in affitto – avviene non una, ma due volte. E, suggellando il secondogenito della schiava, Rachele dice: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte tremende e ho vinto». Ma farà lo stesso anche Lia, in una gara che guarda caso genera gli improbabili capostipiti delle dodici tribù. Una gara di fecondità che si consuma in un quadro di scontro. Si leggano i versetti relativi alle e mandragore che Ruben avrebbe portato a sua madre e che Rachele le avrebbe richiesto. «Ti sembra poco avermi portato via il marito, perché tu ora mi voglia portare via le mandragore di mio figlio?» – così risponde Lia. E Rachele, pur di accedere al prezioso (e per noi misterioso) frutto afrodisiaco, le concede quella notte il marito. Lia ne resta gravida e lo sarà ancora. E partorendo a Giacobbe il sesto figlio dirà: «Questa volta mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli». Ma «Dio si ricordò anche di Rachele».
Ci troviamo – è chiaro – in un contesto patriarcale. Le donne sono fattrici e tali si sentono e questo è il loro vanto, malgrado l’ordito amoroso. Metto a confronto le parole di Rachele e Giacobbe con quelle di Anna, madre di Samuele, ed Elkanà, suo marito. «Dammi dei figli, se no muoio!» – dice Rachele a Giacobbe che le risponde: «Tengo forse io il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grembo?». É dinanzi a questa risposta che ella gli offre la propria schiava. In 1 Sam 1,8 Elkanà dice invece ad Anna: «Perché piangi? perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?». Un atteggiamento diverso e davvero inconsueto che costituisce un apax nella storia biblica della sterilità femminile. Nel mondo antico per una donna niente è più grave dell’essere sterile. É afflizione, onta, disonore… Lo esige la famiglia patriarcale in cui i figli sono risorsa, bene proprio, prima e più che benedizione. Tant’è che Labano usa disinvoltamente le figlie e lo stesso Giacobbe. Per quanto cada vittima dell’astuzia di quest’ultimo – e persino della stessa Rachele che gli sottrae gli idoli protettori della famiglia – ciò che emerge è il suo inflessibile e stragrande potere.
Non dimentichiamolo: il pater familias, come lo chiameranno i romani, aveva potere di vita e di morte su moglie, figli e figlie, schiavi e schiave. La sua decisione era inoppugnabile. Per ridimensionarla ci sono voluti secoli e secoli e a tutt’oggi non si può dire che il patriarcato come sistema culturale sia del tutto scomparso. Basta pensare alle persistenti diseguaglianze uomo-donna sul piano sociale, politico, economico… Quanto a Rachele e Lia Sono consapevoli dello strapotere paterno? Sentono quale “padre” Labano, ovvero si sanno sua proprietà e come tale se ne sentono usate? Un versetto – nel contesto della decisione di Giacobbe di abbandonare finalmente il suocero – ci svela una sorta di ribellione che però si consuma nel vincolo più tenace, ma non meno gerarchico che le lega al marito: «Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto da straniere da parte sua dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro denaro? Tutta la ricchezza che Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fa pure quello che Dio ti ha detto». Questa la risposta a Giacobbe che organizza la fuga. Inutile dire che dal potere del padre sono passate a quello del marito. E anche questo è fatto culturale che segna le donne e le fa complici del sistema patriarcale.
Nella lotta sul corpo delle donne, teatro di scontro e di rivendicazione di un possesso, Labano, raggiunto il genero e la carovana di quelli che sono fuggiti con lui gli dirà: «Che cosa hai fatto? Hai eluso la mia attenzione e hai condotto via le mie figlie come prigioniere di guerra». Giacobbe obietterà: «avevo paura che mi avresti tolto con la forza le tue figlie». Un lessico di belligeranza, di rivendicazione di un bene che si possiede e che va difeso e mantenuto saldamente proprio. Sappiamo come tutto alla fine si risolva pacificamente e come Giacobbe ritorni pur faticosamente tra la sua gente. Quasi alla fine dell’epopea, al cap. 35,18-20, ci viene narrata la nascita di Beniamino e la morte di Rachele. Paradosso dei paradossi, la già sterile muore di parto!
Forse anche per questo ne resta intatto il mito. A tutt’oggi ebrei e cristiani ne visitano la tomba in prossimità di Betlemme. Rachele rimane infatti emblema di un dolore senza fine. La ritroviamo evocata nella strage degli innocenti (cfr. Mt 2,18) nella citazione di Ger 31,15: «Rachele piange per i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più». In verità è lei che si è persa nel travaglio del parto. Eppure a lei si rivolgono le donne che hanno perso un figlio. Forse la sua fine – morire dando alla luce un figlio, non perché non riesce ad averlo – giustifica questa devozione. Senza dimenticare che nel Primo come nel Nuovo Testamento il topos della madre sterile, prodigiosamente resa feconda, sta ad indicare come la vita, in ultima analisi, sia dono di Dio. É lui che spariglia le carte e che alla fine consola, anche quando la speranza di generare dovrebbe essere spenta. Si pensi al sorriso di Sara alle parole dell’ospite che la dice madre di lì ad un anno (cfr. Gen 18,12) o a Elisabetta, la parente sterile, in attesa della nascita di un figlio (cfr. Lc 1,36-37).
Un’ultima curiosa notazione, Rachele e Lia sono state interpretate la prima come modello della vita contemplativa, la seconda della vita attiva. Questa è la lettura che delle due sorelle dà Tommaso d’Aquino (cfr, STh II-IIae, q. CLXXIX), e, forse in dipendenza da lui, Dante (cfr. Purgatorio XXVII, 94-108). Ed è allegoria che davvero ci riesce difficile comprendere. Ma forse ci è spia di una sororità irredenta, di una contrapposizione che le due vie mantengono viva, inutile dirlo a favore di Rachele, visto che la vita contemplativa è stata associata alla scelta della parte migliore. Ultimissima notazione. Davvero è paradossale che il popolo di Israele proietti nei figli di Rachele e Lia, in questa lotta dell’una contro l’altra nel generare a Giacobbe figli propri, i capostipiti delle mitiche tribù. Un groviglio di nomi e di grembi che, purtroppo, mette a nudo la violenza della matrice patriarcale. Lo conferma, nell’epopea di Giacobbe, anche il già ricordato episodio di Dina.
5. La sororità, oltre il legame di sangue, per la costruzione di una comunità socio-politico-religiosa autenticamente umana
La “sororità” o “sorellanza” è una acquisizione recente. Dovrebbe soprattutto indicare la trama solidale del rapportarsi delle donne tra loro. Attitudine purtroppo non scontata, vista la rivalità che le ha sempre contrapposte, non ultimo a ragione di quel potere mediato, acquisito per la prossimità a un uomo, padre, marito, amante o figlio che sia. La storia antica, come quella medievale e moderna, ci offrono innumerevoli prove di questi antagonismi, che in un modo o nell’altro investono la sfera familiare. Un’amante insidia il potere di una moglie; e spesso la figlia insidia il potere riflesso della madre o lo contende alla sua stessa sorella. Sembra insomma – e lo ha dimostrato la storia di Dina, ma anche le altre orripilanti relative a donne, si veda l’episodio della concubina del Levita narrato in Gdc 19 – che la gratuità, comunque inficiata dal peso dell’“onore”, corra piuttosto sulla linea maschio/femmina, finalmente affrancata dalla domanda sessuale, più che sulla linea della prossimità sororale.
Comunque sia, davvero non è facile aprirsi alla sororità. Anzi la stessa difficoltà con cui il termine astratto fraternità ha conosciuto una flessione femminile è spia di un fatto tragicamente grave: l’assenza delle donne, la loro forzata invisibilità nella Chiesa come nella storia. E ciò a partire da un loro presunto deficit morale fisico intellettuale. Dal mondo antico esso corre sino a noi e, benché smentito a parole, affiora sempre, talora drammaticamente, come provano i femminicidi. Quanto alla Chiesa, le eccezioni, passate e presenti, mostrano con quale difficoltà ci si è misurati con il modello gesuanico e poi con quello della comunità primitiva. Senza evocare la testimonianza di Rm 16, testo ad altra concentrazione femminile, o la valenza prolettica delle donne nella scansione del vangelo di Giovanni, come negare l’alto spessore teologico, ad esempio, del discorrere di Gesù con la Samaritana (cfr. Gv 4)? E anche se solo gli apocrifi registrano il suo rapporto con Maria di Magdala, come minimizzare l’intensità delle parole che intercorrono tra loro nel primo giorno dopo il sabato (cfr. Gv 20,11-18)? Singolare è, poi, la tipologia dei miracoli che Gesù opera sulle donne, tutti diretti a restituir loro parità morale, forza fisica, soggettualità religiosa.
Se, dunque, per un verso, occorre rimodulare il legame sororale (/fraterno) all’interno del legame familiare, d’altra parte occorre prendere sul serio la denuncia che Gesù fa della famiglia nel suo assetto patriarcale, opponendo ai legami di sangue il legame nuovo che viene dalla sequela e dal discepolato. Basta ricordare la risposta che egli da alla donna innominata che loda il seno che lo ha portato e le mammelle che lo hanno nutrito (cfr. Lc 11,27-28). Credo che le donne – come gli uomini – sono chiamate oggi a costruire legami sororali e fraterni, oltre gli antagonismi iscritti nella prossimità parentale, etnica, linguistica sociale. Pesano ancora e come: primogenitura, predilezione dei genitori vera o presunta; gelosie sororali e/o fraterne; successo o insuccesso affettivo, economico, sociale. La trappola della famiglia, anche di quella allargata, seguita a imporre regole false, specchio di un mondo da cui dovremmo liberarci.
La guerra in Ucraina ne è metafora: due popoli fratelli, quasi indistinguibili sotto il profilo genetico, etnico, culturale e il delirio di onnipotenza che induce chi si sente più forte a imporre il proprio giogo all’altro. Non a caso, stamane, papa Francesco ha chiesto a Dio di fermare la mano di Caino. L’archetipo della fraternità è macchiato di sangue; quello della sororità dalle contrapposizioni tra un grembo chiuso o fecondo, epigono di una maschilità esperita, senza cui quasi non avrebbero senso. Vorrei concludere evocando la Fratelli Tutti. In essa, nel suo capitolo IV, il nome nuovo della sororità/fraternità è “amicizia sociale”. Ecco una relazione di gratuità, senza ipoteca di possesso che può offrire anche alle donne una via di uscita dal sistema androcentrico e patriarcale.
D’altra parte, nella Scrittura, proprio l’amicizia costituisce il nome altro della fraternità/sororità, anche la più intima, qual è quella coniugale. Non dimentichiamo che amica è la sposa del Cantico e amica è la Sapienza. Amico/a è chi accetta di starci accanto in parità e reciprocità. La sfida dunque, oltre il dramma di Rachele e Lia e la vicenda di Giacobbe (cfr. Gen 29-35), è costruire un mondo e una Chiesa in cui davvero si cammini accanto, nella fiducia, nella stima, nella accoglienza reciproca, senza misurarsi assommando figli a figli, gli stessi usando come rivalsa, senza accoglierli e amarli per se stessi. La sfida sororale è smettere di misurarsi da donna a donna sul fronte del possesso, della carriera, dell’amore stesso, accettando piuttosto di riconoscere e far fruttificare il dono dello Spirito, il nome proprio di grazia, di cui si è portatori tutti e tutte, nessuno/a escluso/a. Il che non è facile, ma è pur sempre possibile, solo che dalla logica prepotente del potere si passi a quella della gratuità e dell’amore.
Cettina Militello
Mercoledì della Bibbia 2022, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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