L’esperienza di una missionaria su un’isola della Papua Nuova Guinea mostra l’importanza della formazione degli indigeni.
L’esperienza di una missionaria su un’isola della Papua Nuova Guinea mostra l’importanza della formazione degli indigeni.
Quando un anno fa suor Chiara Colombo, missionaria dell’Immacolata, si è trasferita dall’isola di Kiriwina a quella di Goodenough aveva come missione la formazione in queste terre della Papua Nuova Guinea. Arrivata a Watuluma, ha iniziato a organizzare corsi per catechisti assieme a due sacerdoti, padre Dominick e padre Peter. Infatti, la diocesi locale aveva deciso di riorganizzare le parrocchie e il modello di evangelizzazione, in quanto quello usato fino a quel momento non rispondeva più alle esigenze della popolazione. Così, la religiosa ha pensato di semplificare al massimo i concetti della dottrina sociale della Chiesa per veicolarli meglio e per fare in modo che i futuri catechisti possano declinarli secondo la loro esperienza.
A Mondo e Missione suor Chiara ha spiegato: «L’obiettivo è rendere i leader cristiani più autonomi possibile. Così facendo non impartiamo semplici insegnamenti, ma ci chiediamo: come far sì che questi contenuti teorici prendano forma concreta per i papuani? Non si tratta di un passaggio di contenuti come se si trattasse di un esame universitario. L’obiettivo è dare spazio e arricchire la teologia cristiana con le esperienze personali di ciascuno. In questo modo la scoperta del volto di Cristo è reciproca: per noi religiosi è una ri-scoperta, anche io come suora sento così di essere di nuovo evangelizzata».
Convinta di questo metodo, la missionaria ha anche formato un gruppo di una quindicina di giovani maestre, composto da ragazze fatte selezionare dalle comunità locali per responsabilizzare gli adulti. Dopo aver ricevuto una formazione di tre mesi e fatto pratica con i bimbi delle famiglie della missione, esse andranno a lavorare nei primi asili che si stanno costruendo in diversi villaggi dell’isola, necessari perché i bambini papuani, non ricevendo stimoli educativi da piccoli, poi fanno più fatica a stare attenti a scuola. «Lo sviluppo deve essere sostenibile, cioè fatto con la comunità e per la comunità. L’idea iniziale può anche partire da un missionario carismatico, ma poi tutto ciò che costruiamo deve essere in grado di continuare anche senza di noi».
Ci sono certo le delusioni, come il laboratorio di cucito che è stato chiuso a causa di furti di materiali, ma i margini di sviluppo sono ampi. Le attività di formazione hanno un impatto concreto sulla vita degli abitanti di Watuluma, in un Paese con un tessuto sociale fragile e una parziale dipendenza da aiuti e finanziamenti dall’estero. Bisogna però stare attenti a dove si indirizzano i propri sforzi: i giovani che hanno seguito un corso di informatica sono poi tornati nei loro villaggi, dove però non hanno la possibilità di usare i computer. «A volte noi missionari abbiamo fretta di fare tante cose, ma ogni tanto è necessario rallentare. Io credo sia meglio non realizzare un progetto se non tocca la vita della gente».
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