È tempo che anche gli esclusi siano protagonisti delle loro vite

Messaggio di Papa Francesco ai partecipanti all’evento internazionale on line “The economy of Francesco”.

Nel suo messaggio ai giovani economisti e imprenditori partecipanti all’evento internazionale on line “The economy of Francesco”, che si è tenuto dal 19 al 21 novembre e si sarebbe dovuto svolgere ad Assisi, Papa Francesco ha ricordato che l’ispirazione di questa iniziativa è stato l’incontro tra san Francesco e Dio, che gli ha affidato una missione spogliandolo degli idoli che lo isolavano, della debolezza del “si è sempre fatto così” e della tristezza di quelli che vivono solo per sé stessi. Questo processo che mette al centro la gioia, la libertà e il dono di sé è da vivere come vocazione, come cultura e come patto.

La vocazione deriva dal sentirsi chiamati da una nuova normalità da costruire, seguendo le parole “Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Non possiamo, infatti, andare avanti in questo modo, in particolare rispetto all’insostenibile sistema economico globale. Il Papa esorta quindi i giovani a incidere concretamente nelle città e nelle università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati, perché le conseguenze delle attuali azioni e decisioni li toccheranno in prima persona. O si sentono coinvolti nel presente che genera il futuro, o la storia passerà loro sopra.

Il cambiamento passa per soluzioni nuove, adeguate e inclusive, ovvero per una cultura che consenta e stimoli l’apertura a visioni diverse. I privilegi degli interessi settoriali a scapito del bene comune non sono più tollerabili e vanno sorpassati grazie alla cultura dell’incontro, che è l’opposto di quella dello scarto. Per il pontefice è fondamentale non screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi, ma accettare strutturalmente le legittime differenze. A proposito della vita degli esclusi da rendere invisibili ai nostri occhi, egli racconta un episodio che gli è capitato:

«Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto… ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso?»

Infine, è necessario un patto con cui osare di favorire e stimolare modelli di sviluppo, progresso e sostenibilità in cui le persone, specialmente gli esclusi, cessino di essere una presenza nominale o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale. Non dobbiamo pensare per loro, ma pensare con loro. La politica e l’economia, abbandonando l’esclusivo efficientismo tecnocratico, devono imparare da loro a far avanzare modelli che andranno a vantaggio di tutti, per uno sviluppo umano integrale.

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