In vista dell’udienza del Papa con alcuni indigeni nel cammino di riconciliazione, un sacerdote ha raccontato la sua esperienza nello Yukon.
In vista dell’udienza del Papa con alcuni indigeni nel cammino di riconciliazione, un sacerdote ha raccontato la sua esperienza nello Yukon.
Lo Yukon è un territorio selvaggio del Canada, al confine con l’Alaska. Qui vivono le comunità native métis e inuit, che, assieme a quelle indigene delle First Nations, sono purtroppo conosciute per le sofferenze subite tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento anche a causa della Chiesa. Infatti, per le politiche di assimilazione delle comunità locali circa centocinquantamila bambini furono costretti a frequentare le residential school governative amministrate anche da religiosi cristiani, perdendo il legame con la propria cultura e talvolta subendo abusi fino alla morte. È per rendere giustizia alla loro memoria che la prossima settimana Papa Francesco accoglierà in udienza alcune delegazioni di questi popoli.
In queste gelide terre del Nord, un sacerdote sta vivendo un’esperienza missionaria decisamente particolare, raccontata da Mondo e Missione. A dicembre 2020, don Francesco Voltaggio, trentaseienne romano ordinato cinque anni fa nella diocesi di Vancouver, è partito per lo Yukon per aiutare il vescovo di Whitehorse, monsignor Héctor Vila, in quanto i pastori che seguono le comunità più remote sono pochi. Il problema è dato dal fatto che la regione è molto vasta e alcune migliaia di abitanti, che in totale non sono neanche quarantamila, vivono fuori dal capoluogo in piccolissimi centri abitati distanti centinaia di chilometri l’uno dall’altro.
Le distanze tra le missioni sono dunque molto grandi e i lunghi viaggi solitari lasciano spazio all’ascolto di Dio. Poco dopo l’arrivo, don Francesco ha seguito tre remoti villaggi di circa trecento abitanti ognuno, che raggiungeva con un’automobile con le ruote chiodate e taniche di benzina a bordo, visto che lungo le strade ghiacciate non si incrocia nessuno. Vi andava a turno nei fine settimana per celebrare messa, alla quale partecipavano tra le due e le quindici persone, dormendo presso la piccola chiesa di legno del paese. Due coppie di laici della diocesi facevano le sue veci quando era assente e, anche grazie a loro, il sacerdote ha cominciato a conoscere la gente del posto e a condividerne l’esistenza, imparando a tagliare la legna a meno trenta gradi e andare a pesca sul fiume ghiacciato.
Alcuni nativi hanno condiviso le difficoltà delle loro vite, fatte anche di livelli di stress post traumatico, alcolismo, uso di droghe e suicidi superiori alla media, e il dolore per le esperienze nelle residential school, che li hanno allontanato dalla chiesa anche se battezzati. Don Francesco, mostrando le sue ferite e fragilità, è riuscito a creare una connessione con loro e a ottenerne la fiducia, cominciando un percorso di fede insieme. La riconciliazione è dunque possibile se si ammette che ognuno di noi ha bisogno della misericordia di Gesù e non si ha paura di chiedere perdono.
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