“I miti abiteranno la Terra”, una serie di riflessioni su passi biblici: costruire e imparare l’arte della pace, un compito per tutti (Mt 5,9).
“I miti abiteranno la Terra”, una serie di riflessioni su passi biblici: costruire e imparare l’arte della pace, un compito per tutti (Mt 5,9).
Questo compito io lo intendo come una necessità storica assoluta. Non ne possiamo fare a meno se vogliamo vivere e far vivere. Tento di svolgere questo argomento in quattro passaggi.
1. Solo i costruttori pace sono figli di Dio. Uno sguardo su Mt 5,9
Alla fine di questo percorso che ha tentato di mettere a confronto la dura realtà esperienziale e le promesse di Dio in Gesù di Nazareth, affrontiamo insieme un tema decisivo e concreto: poiché la pace non è il dono di un Dio arcigno che la dà se vuole, quando ed a chi vuole; poiché la pace è verità dell’uomo messa da Dio nelle mani dell’uomo, come concretamente costruirla? Papa Francesco ci avverte: «Un avvenire di pace non pioverà dal cielo, ma potrà arrivare se si sgombreranno dai cuori il fanatismo rassegnato e la paura di mettersi in gioco con gli altri. Un futuro diverso verrà se sarà di tutti e non di qualcuno, se sarà per tutti e non contro qualcuno». E allora ci domandiamo: come sgomberare dai cuori il fanatismo rassegnato? Come prendere gusto a trasformare le lance in falci, gli arsenali in granai? Come allontanarci dalla tentazione di volere tranquillità e sicurezza per alcuni privilegiati a scapito del dolore e della disperazione delle masse?
Partiamo da un presupposto di fede. Come ci ricorda il mistero della incarnazione del Verbo, salvezza e pace, pace e gloria di Dio coincidono: “C’è gloria di Dio nell’alto dei cieli, se l’uomo salva se stesso vivendo dovunque nella pace” (cf. Lc 2,14). Ed il Gesù-adulto che in Matteo proclama dal monte il suo programma di salvezza con le Beatitudini, pare che costruisca il suo discorso come preparazione o conseguenza della Beatitudine centrale: «Beati i costruttori di Pace, sono essi i figli di Dio» (Mt 5,9). Al mondo che Gesù alla sua nascita trova in uno stato perpetuo di guerra endemica (che Roma eufemisticamente chiamava pax romana!) ad un mondo diventato oggi un inferno, Gesù propone un cammino verso la salvezza che è la pace, lo shalòm.
Forse domandandosi chi allora cercava ardentemente la pace, Gesù è cosciente che i grandi hanno ben altre mire e non ascoltano nessuno. Lui si rivolgerà ai piccoli, cioè ai poveri, agli anawim di Jhwh perché in essi – disprezzati – c‘è un anelito di giustizia e di pace, una sorta di attesa del Regno di Dio. Una cosa è certa, solo a questi poveri Gesù si dedicherà. Questa è la sua scelta decisiva, la sua opzione fondamentale. Vuole stare dalla loro parte. Dare speranza ai disperati, a quanti soffrono nella carne umana o nello spirito. Le Beatitudini sono indirizzate ai poveri accomunati dalla infelicità e dall’emarginazione, e dunque disponibili – anche se con molta fatica – a costruire la pace come si addice a dei figli di Dio (cf. Mt 5,10-11). Anelano a mitezza, tenerezza, dignità, considerano la vita umana più preziosa delle cose più preziose, bramano pace.
In definitiva si può tracciare questa trama di costruzione del testo matteano:
– Gesù vuole indicare dove sta la salvezza umana: nell’essere figli di Dio, nel prenderne coscienza e vivere con coerenza non solo nella pace, ma costruendola ogni giorno (cf. Mt 5,9). Questa beatitudine è la meta, l’asse portante di ciò che precede segue;
– per aprirsi a questa consapevolezza è indispensabile essere poveri (cf. Mt 5,3), cioè preferire la vita da vivere con gli altri, alle cose da possedere strappandole agli altri. Anche a costo di diventare inermi di fronte agli avvenimenti subiti. I poveri non amano e non possono farsi ragione con la forza, è loro impossibile. Ma a loro basta la consolazione che viene dal Padre, dal sentirsi in sintonia con Lui (cf. Mt 5,4). Destinatari del discorso di Gesù sono i poveri chiamati alla felicità del Regno di Dio;
– i poveri hanno fame e sete di giustizia (cf. Mt 5,6), di relazioni nonviolente, bramano stare con persone miti (cf. Mt 5,5) anelano a tenerezza e compassione (cf. Mt 5,7) atteggiamenti ovvi per un cuore pulito, sgombro da spiriti immondi (cf. Mt 5,8). I poveri considerano la vita umana più preziosa delle cose più preziose, e per questo amano e costruiscono la pace (cf. Mt 5,9);
– per portare ogni figlio di Dio a questa consonanza con gli atteggiamenti del Padre, Gesù è venuto. Per averci aperto a questa prospettive ha faticato, sofferto ed è stato crocifisso. Ed ai suoi amici dice di trovare felicità perfino nella probabile persecuzione (cf. Mt 5,10-11).
– in conclusione: questi poveri capaci di pace, costruttori di pace, solo essi hanno la vita di Dio, sono figli di Dio.
2. Disimparare la violenza e la guerra
Se vogliamo che Gesù ci veda come figli di Dio, e dunque realizzatori della pace nelle terre umane, abbiamo bisogno di percepire l’enorme difficoltà dell’opera. Isaia, cantore nostalgico del mondo che deve venire, ci avverte: bisogna prima disimparare l’arte della guerra. Dobbiamo disintossicarci ed abbandonare la logica delle ragioni della forza che ha dato benessere ai signori della guerra, ai signori della finanza, ai potenti sui troni. Non solo, con Isaia che descrive i tempi dell’Unto (cf. Is 2,1-5; 11,1-9), dobbiamo chiederci: come insegnare al lupo di lasciare in pace il facile agnello e contentarsi di erba fresca? Come insegnare al bambino ad avere tanta fiducia nella vita da giocare con la vipera? Come convincere l’uomo a mutare in falci quelle spade che – per millenni – gli hanno dato l’impressione di essere sicuro padrone della vita e della morte, cioè dio?
Si può dire che ogni costruttore di pace si pone questi interrogativi. E non sempre trova una risposta. Chiamati a vivere nella pace, noi viviamo in un mondo pieno di conflitti e di guerre. Siamo inghiottiti ogni giorno da notizie di sangue versato, di innocenti sacrificati, di ingiustizie efferate, di minacce di sterminio globale. Ancora viviamo in un mondo dove regnano l’egoismo, l’orgoglio, l’individualismo, lo sfruttamento, l’indifferenza. Ancora viviamo in un mondo dove ogni giorno è facile cadere preda di atteggiamenti distruttivi che rispondono proprio a delle logiche di guerra, piuttosto che a delle logiche di pace. Isaia ieri e la chiesa oggi ci invitano a guardare al futuro attraverso lo sguardo di Dio, che non ha mai benedetto una guerra, neppure quelle di cui uomini come Pietro l’eremita dicevano con sicumera che era lo stesso Dio a volerle: “Dio la vuole!”.
3. La conversione che ci salva
Non esiste profeta nell’intera Scrittura che non spinga alla conversione, qualunque cosa si intenda con questa parola: conversione a Dio, cambiamento di stili di vita, vedere il fratello nel nemico, smettere di pensare solo ai beni terreni e sapere che c’è altro nella vita. Forse si ha paura di dire che conversione è inversione di rotta, dunque qualcosa di rivoluzionario, sovversivo dell’ordine presente, totalmente nuovo. E ancora, che la conversione è non solo individuale ma collettiva, riguarda le famiglie, i gruppi, le religioni, la politica, questa comunità carmelitana, i gesuiti, la diocesi, la vita consacrata, ecc. Se il cristianesimo (non il Cristo!) è stata la via più lunga per arrivare all’attuale ateismo ed all’attuale prospettiva di morte planetaria chi di noi è innocente? Quante pagine di Vangelo abbiamo dovuto strappare, dimenticare, contraddire, nella migliore delle ipotesi imbavagliare e disattendere?
Abbiamo una urgente necessità di una conversione che trasformi in grazia anche ciò che si presenta come sciagura e disgrazia. L’orrore delle guerre, se non serve a svegliare il desiderio della costruzione della pace, è inutile, dannoso, in ogni caso sterile. Scavare in noi e superare certi stili di vita è indispensabile. Per onestà intellettuale non possiamo esimerci dal domandarci, se quanto ci siamo detti corrisponde alle leggi della vita, come mai i cinque millenni di storia che più o meno conosciamo, sono millenni di stermini e di inutili stragi che nulla hanno portato se non altre guerre? Come mai quel bisogno assoluto di pace in cui germina la vita, quel bisogno profondo di pace che ha ogni uomo e ogni donna nati sulla Terra, non hanno mai avuto il sopravvento? Il malessere e le tragedie di oggi, quel senso di nausea e quel sentore di morte annunziata in cui viviamo, ci spingono a pensare – se non vogliamo passare all’idea dell’uomo come naturalmente assassino – che l’uomo comune non ama le guerre, ma tuttavia orienta la sua vita su valori negativi che finiscono per essere, prima o dopo, quasi in punta di piedi, le radici stesse della guerra. Mi riferisco al mito di Caino e Abele dove la paura, l’invidia e l’odio la fanno da padroni. Caino è l’uomo che trionfa sul cadavere delle sue vittime.
Questo atteggiamento non è solitario. Comporta una costellazione di tratti che non nascondono affatto il truce disegno di regnare sulla morte. Accenno ad alcuni:
– possedere ciò che l’ucciso possedeva, derubarlo dunque del suo per affermare in concreto la propria superiorità, porta al capitalismo che prospera sul lavoro sottopagato e sulle materie prime rubate agli inermi;
– dominare e stravolgere a proprio vantaggio ciò e chi era stato affidato alla nostra responsabilità: Madre Terra, la donna, le nuove generazioni. Femminicidio, incendio ed avvelenamento del Pianeta, furto del futuro ai giovani, in quella mentalità di trionfo dell’io sono realtà inevitabili;
– imporre al Pianeta un nuovo ordine, dettato dai propri interessi o dalla propria ideologia, comporta un razzismo dichiarato, un diritto della forza ad essere l’unica legge della vita, ripudio della ragione, disumanità, arbitrio e corruzione nel governo, assassini protetti dal segreto di stato;
– in definitiva, possedere, dominare, imporre il proprio ordine sul mondo conducono all’inferno che abbiamo creato, alla disumanizzazione, all’irrilevanza di miliardi di persone, al diritto ad uccidere chi non è consono al nostro suprematismo, alla disumanizzazione radicale.
4. La consegna di un infaticabile costruttore di pace
Ci lasciamo nel ricordo di un infaticabile costruttore di pace, di un innamorato del Dio della vita e della vita che Dio ha suscitato nelle sue creature, di Papa Francesco. Per il capodanno del 2023 diceva: «Se vogliamo davvero che il nuovo anno sia buono, se vogliamo ricostruire speranza, occorre abbandonare i linguaggi, i gesti e le scelte ispirati all’egoismo e imparare il linguaggio dell’amore, che è prendersi cura. Prendersi cura è un linguaggio nuovo, che va contro i linguaggi dell’egoismo. Questo è l’impegno: prenderci cura della nostra vita – ognuno di noi deve curare la propria vita –; prenderci cura del nostro tempo, della nostra anima; prenderci cura del creato e dell’ambiente in cui viviamo; e, ancor più, prenderci cura del nostro prossimo, di coloro che il Signore ci ha messo accanto, come pure dei fratelli e delle sorelle che sono nel bisogno e interpellano la nostra attenzione e la nostra compassione».
P. Felice Scalia
Mercoledì della Bibbia 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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