Gesù è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola

“I miti abiteranno la Terra”, una serie di riflessioni su passi biblici: Cristo abbatte ogni muro e divisione (Ef 2,14).

Premessa

Quando si parla di pace, oggi, facilmente si fa riferimento ad alleanze strategiche, equilibrio di forze e di armi; si ritiene quindi che la pace sia frutto di alchimie politiche e del buon senso dei grandi di questo mondo. Preoccupa che in questa logica, a volte, sono coinvolti anche i credenti, i quali si pongono accanto alle altre forze politiche e sociali e ai poteri di questo mondo, e ritengono di dover usare gli stessi mezzi e la stessa strategia per conseguire la pace. Il loro discorso appare privo di un’ossatura profetica e di quella creatività che scaturisce dalla preghiera come familiarità del credente con il suo Signore che è la Pace. Per recuperare quest’anima profetica, propria del credente, è bene lasciarsi illuminare dalla Parola biblica e soprattutto dal vissuto di Gesù.

1. Pace e attesa messianica

Nella riflessione veterotestamentaria, la pace (shalom), il cui opposto è violenza (hamas), non è solo assenza di tensione o guerra, ma positivamente designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la creatura, con se stesso, con Dio. È prosperità e pienezza di vita, è tutto ciò che è donato da Dio a qualsiasi livello, per cui si può dire, con il profeta, che pace e salvezza sono sinonimi: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace, messaggero di bene, che annuncia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio» (Is 52,7). La pace, quindi, è dono che procede da Dio e non dagli uomini, essa è costitutiva della natura di Dio, infatti, Pace è il suo nome: “Jhwh-Shalom” (Gdc 6,24).

Proprio perché la pace è da Dio, i profeti contestano la pace come frutto di accordi e compromessi con i popoli vicini, ritenuti più forti, una pace che fa a meno dell’impegno della conversione personale e della pratica della giustizia verso i poveri e gli oppressi. Essi, inoltre, collegano l’idea della pace con l’attesa del Messia: l’Emmanuele, il Dio con noi, «sarà la pace» (Mi 5,4). Egli, «Principe della pace» (Is 9,5), come ce lo annuncia il profeta Isaia, instaurerà una pace non riservata a Israele, ma universale, che si stabilirà fra tutti i popoli, per cui, nell’esperienza più genuina di Israele, l’attesa del Messia è anche attesa della pace e la preghiera per la pace è preghiera per la venuta del Messia.

2. Gesù nostra pace

Gesù non delude le attese di Israele. Dai racconti evangelici emerge l’immagine di Gesù-Messia che porta a compimento gli annunci profetici in ordine alla pace. Il Nuovo Testamento, in altri termini, proclama che la pace, oggetto della speranza d’Israele, è in atto dal momento in cui Dio visita il suo popolo «per guidare i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Nel vangelo di Luca, in particolare, è presente una grande inclusione tematica che evidenzia che tutta l’esperienza di Gesù è una parabola di pace. In esso, infatti, è detto che quando Gesù, “Principe della pace” (Is 9,5), nasce a Betlemme, gli angeli annunciano la pace agli uomini oggetto della benevolenza di Dio (Lc 2,14). Nello stesso vangelo è detto che Gesù risorto, durante l’ultima apparizione ai suoi apostoli, consegna ad essi la pace come dono e sigillo che caratterizza tutta la sua vita (Lc 24,36).

Non solo il racconto di Luca, del resto, ma tutto il Nuovo Testamento non è altro che annuncio della pace compiuta in Cristo. Gesù viene sulla terra per annunciare agli uomini che Dio è Signore di tutti e quindi per portare a tutte le genti la buona notizia della pace (At 10,36). Egli non è solo colui che evangelizza la pace, ricorda Paolo, ma anche colui che mediante il sangue della sua croce, riconcilia tutte le cose, facendo la pace (Col 1,20). Con la sua morte in croce, sottolinea ancora l’apostolo, Gesù distruggeva in sé l’inimicizia, abbatteva il muro di separazione che teneva lontani giudei e pagani, e creava un uomo nuovo, per cui, ci dice Paolo, nella lettera agli Efesini: «voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia» (Ef 2,13-16).

“Gesù è la nostra pace”. L’atto di distruzione del muro non è effetto di un attacco con i mezzi a disposizione di un esercito militare, aggressivo. La pace tra gentili ed ebrei viene cioè instaurata in positivo, attraverso il dono che Gesù ha fatto di se stesso, distruggendo in questo dono di sé l’inimicizia stessa. Ciò che ha causato la caduta del muro è la carne del Cristo che ha effuso il suo sangue sulla croce. Non scagliandosi contro il muro, ma in sé stesso e con il dono di sé, il Cristo lo ha distrutto. È lui stesso la pace. Questa non è l’effetto di un concordato firmato dopo una battaglia. Non è stato ucciso nessun nemico, ma è l’inimicizia stessa che è stata uccisa sulla croce. Il paradosso è evidente: gentili ed ebrei, uniti per l’occasione in un accordo politico di convenienza reciproca, hanno messo a morte il profeta Gesù di Nazaret, ma costui a sua volta è diventato il luogo in cui è stata messa a morte l’inimicizia stessa che separava gentili ed ebrei, come separa ancora adesso i popoli e gli uomini fra loro. L’abbattimento della legge-inimicizia, per opera di Cristo, non è solo un fatto morale, ma un avvenimento che potremmo chiamare ontologico universale perché Cristo nella sua carne distrugge il vecchio Adamo, determinato dalla presunzione di salvarsi da sé e segnato dalla divisione sancita dalla legge, e crea l’uomo nuovo, riconciliato in Cristo, con se stesso, con Dio e con tutti gli altri.

A partire dalla croce di Cristo, quindi, non ci sono più né ebrei né pagani. Sulla croce, infatti, si compie un sacrificio che, perché gesto definitivo di amore, genera rapporti di solidarietà e di amicizia tra gli uomini. Nel vecchio tempio era presente una sequenza di muri della separazione; Cristo abbatte questi muri: egli, nuovo tempio dell’alleanza definitiva di Dio con gli uomini, si pone oltre la legge del muro e la liquida con la legge della carità, senza la quale tutto è vano (cf. lCor l3,l-3). L’amatevi come io vi ho amato (cf. Gv 15,12) è l’identità-eredità che in Cristo è consegnata come comandamento nuovo e come vincolo di pace al mondo. Entrare in questa pace significa accogliere Cristo come dono, così che in Lui ciò che è suo diventi nostro (cf. Rm 8,16-17). Se Gesù è la nostra pace, se con la sua croce e la sua resurrezione dai morti Dio ha riconciliato con sé il mondo intero che gli era nemico, allora il tema della pace, per coloro che credono nel Dio di Gesù di Nazaret non si pone come esigenza etica o sociale, ma sta nello spazio della fede ed è di ordine cristologico e rivelativo.

3. Pace e vita spirituale

Se la pace fosse qualcosa di sovrapposto alla vita di fede, il suo riferimento si potrebbe trascurare senza che la vita spirituale ne venisse a soffrire sostanzialmente. Ma poiché la pace è intrinseca al dono globale, definitivo e supremo fatto da Dio all’uomo per mezzo di Gesù Cristo, allora la pace è costitutiva della vita spirituale, in quanto vita coinvolta nel dinamismo trinitario e animata dallo spirito del Padre e del Figlio, che è Spirito di comunione e di pace. Se la vita spirituale è, nello Spirito e mediante Cristo, coinvolgimento esperienziale permanente con il Dio della pace, essa non può svolgersi al di fuori di un dinamismo pacificatore proiettato nella storia. Più ancora, poiché la pace appartiene all’identità delle tre persone divine, l’essere umano non può sottrarsi a riconoscersi caratterizzato essenzialmente da essa. Gesù nel lungo colloquio con i suoi prima della sua passione, tra l’altro, dice: «Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,25-27).

In questo orizzonte far maturare un impegno serio per la pace nella propria vita spirituale corrisponde ad uno svilupparsi dell’uomo secondo un progetto esistenziale che fa proprio il progetto di Dio. Poiché l’uomo è creato ad immagine di Dio, la pace è nativamente iscritta nel cuore di ogni uomo. Ma essa, per ogni credente è anche proposta esplicita da parte di Gesù. Egli, nel discorso della montagna, designa un profilo spirituale dei suoi discepoli, proclamando “beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). Il termine eirenopoiòi, usato da Matteo, composto da pace e da fare, si potrebbe meglio rendere con “costruttori di pace” ed evidenzia che non si tratta di sognare un mondo magico, ma di fare qualche cosa di concreto, nel mondo così com’è, con i suoi tremendi antagonismi, egoismi, durezze e contraddizioni. Si deve fare la pace, nello stesso senso con cui si fa un ponte o una casa, cioè si deve costruirla con il proprio sforzo. Il credente che incontra il Dio della pace, insomma, non può chiudersi in se stesso.

Il Dio che lo coinvolge, infatti, è il Dio che si mischia con la storia del suo popolo, è un Dio che, nel figlio Gesù, fa la pace appassionandosi al reale, inserendosi nei fraintendimenti di un incontro di una relazione concreta, accettandone tutto il rischio. Sequestrato da Gesù, il credente non ha semplicemente il permesso, ha l’obbligo di stare nella conflittualità della vita e di prendere posizione, se vuole vivere e scoprire di persona ciò che crede. Come vivere da uomo di pace i conflitti, senza cedere alla logica della violenza e alla tentazione dell’aggressività che tende a sopprimere l’altro?

4. La proposta di un cammino

La pace è certamente dono di Dio, ma non diventa in modo miracolistico prassi dell’uomo, essa richiede un processo educativo personale e comunitario. Questo itinerario, tra l’altro non è pianificabile per tutti perché va adattato alla sensibilità e alla situazione di ogni persona, e dipende anche delle situazioni esterne con cui ognuno è chiamato a misurarsi. Pur tenendo conto di tutto questo, è possibile, comunque, proporre alcuni atteggiamenti da coltivare per vivere, all’interno delle realtà conflittuali, come pellegrini di pace. Ne indichiamo alcuni:

a) Purificazione del cuore e amore ai nemici

Il cuore, biblicamente, è il luogo delle decisioni e delle scelte, ma il cuore è fonte di ogni malignità umana (cf. Mt 15,19) e tende ad essere imprigionato nelle spire dell’odio e della vendetta, deve quindi essere liberato da queste strette per seguire l’esempio di Dio pronto al perdono. Il primo impegno, quindi, è verso se stessi. C’è una logica mondana che taglia l’esistenza e coinvolge principalmente il cuore da cui bisogna liberarsi per attivare una prassi di pace. Dal cuore, liberato, purificato e abitato dallo Spirito del Signore Gesù, muove un atteggiamento nuovo che abilita il credente a convertirsi dalla logica della rappresaglia alla logica dell’amore dei nemici. In Gesù, che prende posto nel cuore dell’uomo e lo riplasma, infatti, il rapporto con il prossimo è definito dall’amore, ne consegue che 1’esperienza di amore è l’humus da cui emerge la proposta di pace di Gesù. E in Gesù l’amore rompe i muri della separazione e dilaga abbracciando anche i nemici. L’invito “ama il prossimo tuo come te stesso”, noto alla tradizione veterotestamentaria, viene da Gesù modificato e portato a compimento con una nuova proposta: «Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44).

Questo nuovo aspetto dell’amore tra gli uomini, che trova la sua fonte esemplare nella misericordia del Padre, «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti» (Mt 5,45), disinnesca in modo radicale l’ideologia del nemico che lungo la storia biblica e quella successiva cristiana ha giustificato l’eliminazione fisica dell’uomo. Da Gesù in tal modo viene proposto, anche nelle situazioni di tensione e di violenza, l’amore come unica realtà capace di spezzare la spirale della violenza e la logica della rappresaglia, di liberare il malvagio dalla sua iniquità e di dare un indirizzo pacifico ai rapporti tra gli uomini.

Questo amore incondizionato per i nemici, proposto da Gesù, non è sinonimo di ingenuità di fronte ai soprusi quotidiani; né si identifica con il silenzio pavido, la rassegnazione passiva e l’abdicazione morale di fronte all’ingiustizia, alla violenza oppressiva, al rifiuto del progetto salvifico di Dio. Nel suo comportamento pratico, che illumina il suo messaggio, Gesù non ha mai esitato a denunciare con estrema chiarezza violenze e peccati, a qualunque livello fossero compiuti. Lo ha fatto con tanta fermezza di linguaggio e vigore profetico di atteggiamenti da attirare su di sé una reazione violenta, culminante sulla croce. Egli quindi ha insegnato con le parole e con la vita che alla violenza e al peccato bisogna reagire, non però seguendo la legge del taglione e usando strumenti di morte, ma con la forza creativa dell’amore che stigmatizza la violenza e i soprusi, ma si preoccupa anche di recuperare il malvagio e l’oppressore. Gesù è modello vitale di tale amore per i nemici: egli durante la passione non solo non restituisce gli insulti e non minaccia (1Pt 2,23), ma dalla croce prega il Padre per i suoi crocifissori, implorando per essi il perdono (Lc 23,34).

b) La nonviolenza

La nonviolenza è forza attiva che si interessa degli altri uomini, del loro avvenire, della loro conversione. Gesù vive questo atteggiamento e lo propone come stile profetico (Mt 5,20-48), che spiazza e confonde l’avversario perché chi lo pratica si fa carico del male altrui e del mondo. Il nonviolento, infatti, nella proposta di Gesù, è colui che guarda non soltanto come è oggi, servo delle tenebre, ma come potrebbe essere, figlio della luce. Per questo, anche se l’altro si serve, della violenza aggressiva e delle armi, il nonviolento userà strumenti innocui per offrire al nemico la possibilità di un futuro diverso, alternativo alla violenza. Per comprendere meglio questa proposta di Gesù, è bene prendere in considerazione la sua esperienza, soprattutto il modo come vive la sua cattura, il processo e la crocifissione.

Egli ha un modo dirompente nell’affrontare la violenza ingiusta che lo porta alla morte infamante e dolorosa della croce. Nell’orto del Getsemani, infatti, al discepolo che tenta di usare la spada, Gesù impone di rimetterla nel fodero (cf. Mt 26,52), perché è convinto che le armi come tali appartengono a una economia di morte che ha «per padre il diavolo, colui che è omicida fin dal principio» (Gv 8,44), e quindi chi si affida alle armi, non si affida al Signore, ma al diavolo che da sempre si oppone alla legge di Dio. Gesù, quindi, rinuncia a una difesa armata e rinuncia ai poteri che gli vengono dall’alto per distruggere gli avversari. Egli, invece, si riveste di una mite fortezza e patisce nella sua carne l’ingiustizia e la violenza. Cosi facendo, egli apparentemente non porta nessun cambiamento alle forze storiche, ma offre ai poveri una potenza che sta tra le componenti della storia: una potenza disarmata, una violenza di pacifici che è veramente efficace.

5. La follia della Croce, via della pace

Noi siamo convinti che oggi la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. La pace che propone Gesù, però, non è certo una realtà facile da vivere, perché non è un annuncio di astratti principi, ma è una prassi che smaschera l’idolatria del potere e delle armi e si pone nei conflitti drammatici con la disponibilità a farsi carico della violenza dei potenti. Direi, quindi, che è una pace a caro prezzo.

a) Suscita scandalo

Proprio perché questa pace vissuta da Gesù si muove nello spazio della follia della Croce e può chiedere anche il dono della vita. È una pace difficile da comprendere e spesso suscita stupore e scandalo tra di noi, ma già lo suscitava tra i discepoli di Gesù, infatti quando Gesù viene arrestato: «Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?» (Gv 18,10-11). Gesù, consapevole di tutto questo, prima della passione avverte i discepoli: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte» (Mt 26,31). E, in effetti, in quella tragica notte lo scandalo annebbia i loro occhi. Durante l’arresto gli apostoli vorrebbero difendere Gesù con le armi, constatata la volontà nonviolenta di Gesù, incapaci di entrare in questa logica nuova, mentre Gesù, Messia della pace, viene condotto al patibolo, essi scandalizzati fuggono (cf. Mt 26,56).

Per essi fa scandalo un Messia che non viene nel segno della forza e del trionfo religioso, ma secondo la mitezza, la povertà, il rifiuto radicale della violenza e delle armi, che non oppone nessuna resistenza se non quella secondo lo Spirito, che fa la pace e abbatte l’inimicizia, nell’adesione piena e definitiva della volontà del Padre. La prassi di pace di Gesù ha scandalizzato gli apostoli e continua a scandalizzare anche i credenti di oggi che, come evidenziavo all’inizio, a volte confidano più sulle alleanze con i potenti e sulla potenza delle armi che su Cristo. Ma la profezia evangelica, in ordine alla pace non consente di “scendere in Egitto per cercare aiuto”, né di «confidare nei carri… e nella cavalleria» (Is 31,1). La profezia evangelica ricorda che la Pace è Qualcuno. La pace è il Trafitto, che appare in mezzo a noi e mostra le sue mani e il suo fianco (cf. Gv 20,19.26), dicendo: «La pace sia con voi».

Per il cristiano, allora, la pace non e un problema etico, ma prima di tutto un problema di fede: è vedere Lui: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28), accoglierlo dinamicamente nella propria povera carne e, assieme a Lui, farsi carico della violenza del mondo e accettare anche la morte come qualcosa che non ci può separare dal suo amore (cf. Rm 8,35). Come per Cristo, quindi, anche per il cristiano non esiste altra via della pace se non quella della martyria e della follia della croce. E alla luce della croce, discriminazione, violenza, razzismo, equilibrio del terrore, guerra giusta, difesa armata non sono più motivati perché non esiste più necessità storica per giustificarli. La necessita cede i propri motivi di fronte a Cristo che nella Croce dona il Padre al mondo, mettendo gli uomini nel dovere-possibilità di superare la violenza che lacera e divide e di affacciarsi a una storia possibile di armonia nella giustizia, di solidarietà e di pace.

b) Coltivare la speranza

È possibile ipotizzare un domani in cui i conflitti si risolveranno in modo nonviolento e si apriranno a prospettive di pace? Pur sperimentando dolorosamente la difficoltà che questo orizzonte diventi palpabile, non possiamo pensare la proposta di Gesù come un’utopia o nel caso migliore pensarla come una promessa per l’aldilà. L’offerta rimane e impegna ognuno a darle visibilità nei gesti concreti della vita quotidiana. Mi piace consegnare questa missione con un accenno all’esperienza e alle parole di un grande appassionato della pace: don Tonino Bello. Mentre divampava la guerra, nella ex Jugoslavia, tra la Bosnia e la Croazia, un gruppo di 500 persone disarmate e coraggiose, nel dicembre del 1992, decidono, entrando tra i fuochi e le paure, di raggiungere Sarajevo. Tra loro c’era anche don Tonino, già gravemente malato, morirà il 20 aprile 1993. Il 7 dicembre prima di partire dal porto di Ancona un giornalista della RAI domanda a don Tonino: «Ma lei che sta già male cosa va in cerca di altri guai a Sarajevo?» Don Tonino risponde: «Qui si stanno sperimentando gli eserciti del domani, i soldati di pace: io devo essere con loro».

A conclusione di questo rischioso viaggio, nonviolento, disarmato, per la pace, don Tonino, nel suo Diario della marcia di Sarajevo, annotava: «Quando giungiamo sul porto di Ancona, una folla ci attende con fiaccole e striscioni. Baci, abbracci. Arrivederci. Addio. Ci troveremo in altre occasioni! Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere. Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? È davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? Questa impresa contribuirà davvero a produrre inversioni di marcia? Perché i mezzi di comunicazione che hanno invaso la Somalia a servizio di scenografie di morte, hanno pressoché taciuto su questa incredibile scenografia di pace? Ma in questa guerra allucinante chi ha veramente torto e chi ha ragione? E quale è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono».

P. Alberto Neglia
Mercoledì della Bibbia 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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