“I miti abiteranno la Terra”, una serie di riflessioni su passi biblici: la terra come dono di Dio, sempre da ridonare (Gs 24,13).
“I miti abiteranno la Terra”, una serie di riflessioni su passi biblici: la terra come dono di Dio, sempre da ridonare (Gs 24,13).
Il tema della terra è cruciale, non solo nell’ambito strettamente esegetico, ma anche teologico e politico. Il rapporto del popolo con la terra, a ben vedere, non è necessario ed è sempre affrontato nella prospettiva telescopica, come un già e non ancora, quasi come struggimento. Nel corso di questi eventi storici, il concetto di terra si trasforma geograficamente, politicamente e ideologicamente, ma resta sempre un concetto inavvicinabile, impossibile da mettere a fuoco se non a una certa distanza, attraverso affetti che devono necessariamente restare presbiti.
1. Uno sguardo alla storia d’Israele
I grandi protagonisti dell’epopea pentateucale, in effetti, sono nomadi, senza uno specifico rapporto di tensione con un territorio. Abramo viene da Ur dei Caldei. I dodici capi eponimi delle tribù sono nati in Mesopotamia. Mosè è nato e cresciuto in Egitto e naturalizzato in Madian, e mai entrerà nella terra di Canaan. La prospettiva telescopica aiuta a capire anche il profilo politico della terra. Se si esclude il periodo monarchico – quattrocento anni di storia travagliata, in cui la terra è rimasta politicamente unita solo quarant’anni, sotto il regno di Davide e Salomone –, raramente la terra fu goduta come entità politica autonoma. Dopo la capitolazione del regno del Nord (721 a.C. ca.) e la scomparsa del regno del Sud (586 a.C. ca.) la Terra assume, sotto il dominio persiano la fisionomia di una provincia dell’impero: la satrapia di Yehud.
Dopo la morte di Alessandro Magno, la Palestina cade sotto il controllo di sovrani ellenistici (prima i tolomei e, poi, i seleucidi). Grazie al cosiddetto politeuma i giudei nella diaspora ellenistica fruiscono non solo di un’autonomia religiosa e amministrativa, ma anche giudiziaria, limitatamente a certi aspetti del diritto personale e patrimoniale, su un piede di uguaglianza (isonomia) coi i cittadini greci. Gli ebrei avevano, infatti, i loro capi e le loro assemblee e potevano emanare decreti onorifici o statuizioni d’interesse interno. Grazie alla diaspora, imparano a celebrare Dio anche lontano dalla madre patria. La terra non è, insomma, il presupposto per adempiere alla legge. Agli inizi del II sec. a.C. nasce il fenomeno del farisaismo e l’edilizia di luoghi deputati allo studio e alla preghiera: le sinagoghe.
Infine, con le rivolte maccabaiche, dopo quattrocento anni dal tramonto della monarchia davidica, si affaccia di nuovo il sogno di ricostituire uno stato autonomo, con una terra delimitata da precisi confini nazionali. La dinastia sacerdotale degli asmonei e, soprattutto, le conquiste di Giovanni Ircano (135-104 a.C.) danno corpo a questo sogno, che sarà presto interrotto dall’arrivo dei romani, che rimarranno in Palestina per molti secoli. Dopo la I guerra giudaica (70 d.C.) e, soprattutto, dopo la II guerra giudaica (135 d.C.) la scollatura tra popolo e terra diventa definitiva… almeno fino al 1948. Anche il rapporto tra terra e produzione delle scritture è telescopico. A ben vedere, è grazie al trauma dell’esilio, lontano dalla terra, che inizia la gestazione dei primi corpora scritturistici. Molti sostengono che il cosiddetto Scritto Sacerdotale sia stato edito a Babilonia, in esilio. Anche la profezia sembra vivere meglio in esilio. Geremia ed Ezechiele sono i profeti che raccontano la perdita del possesso della terra della promessa.
2. I confini ampi ed elastici della Terra promessa
Che cos’è, dunque, la Terra, così significativa solo se vista da lontano? I confini delle varie mappe disegnate dai testi biblici sono molto elastici: secondo Nm 34, ad esempio, la Terra di Canaan va dal Sinai al Libano; la più minimale delle proposte (cf. Dt 34) identifica la terra da Dan a Beer-Sheva; infine, la mappa più ardita è quella di Gn 15,18-21, secondo cui la Terra promessa ad Abramo si estende dal fiume Nilo al fiume Eufrate. Nel post-esilio, in particolare, si evolve una speciale visione della terra: da trofeo di conquista a dono di una promessa (cf. Gn 12,7). Nella prospettiva deuteronomistica, l’ingresso nella terra non sarebbe avvenuto con il passaggio del Giordano, ma con le attività belliche che iniziano con l’attraversamento del torrente Arnon (cf. Dt 2,24-37), oggi chiamato Wadi el-Mojib; o, forse anche prima, con l’attraversamento del torrente Zered (cf. Dt 2,13-14).
Secondo alcuni esegeti, l’Arnon potrebbe essere un confine più recente rispetto al Giordano. In realtà, non è sicuro che Dt 2 intenda minimizzare il confine del Giordano a vantaggio dell’Arnon, in modo da includere la Transgiordania nell’ecumene promesso: è più probabile, piuttosto, che il redattore della retrospezione di Dt 2 (Landeroberungserzählung) non conoscesse ancora il Giordano come confine della Terra promessa. Il Giordano, inteso come confine della terra, compare per la prima volta in (o, comunque, nelle superfetazioni di) Nm 32, a proposito delle tribù transgiordaniche. Anche in altre redazioni post-Dtr i confini si riducono (cf. Nm 34,1-12).
Dunque, il concetto ampio di Terra promessa, che abbraccia anche la Transgiordania, sembra essere proprio della tradizione tardo-deuteronomistica, ma che sarà abbandonata dalla composizione proto-pentateucale. Questa considerazione avrebbe bisogno di maggiori approfondimenti, perché ha una portata esegetica di primissimo piano. Se nella logica Dtr la terra è un “già” (perché il popolo attraversa l’Arnon) e un “non ancora” (perché deve essere anche conquistata), ciò significa che la redazione proto-pentateucale conosce la realizzazione delle promesse legate al possesso della terra, anche per Mosè! Solo più tardi la terra diventa un dono secondario, in linea con la maggiore attenzione prestata al Donante e all’alleanza con Lui; in linea anche con l’intento di creare maggiore spazio al successore Giosuè.
Oggi sappiamo il perché di queste diverse descrizioni: il Pentateuco non è un prodotto puntuale, ma il frutto di uno sviluppo testuale che si estende nell’arco di almeno mezzo millennio; ad ogni colata redazionale, vi era sempre qualche novità da aggiungere o un’idea da modificare. I commentatori medievali, pur non avendo questa chiave diacronica, hanno offerto qualche soluzione per ricomporre la contraddittorietà delle diverse proposte geografiche. Rashi, ad esempio, ha negato la diversità delle mappe e ha proposto una tesi concordistica. Invece, secondo Ishtori HaParchi (1280-1355 ca., autore di Kaftor va-Ferach), le mappe sono effettivamente diverse, ma la promessa di Dio ai Patriarchi – la mappa più ambiziosa, che estende la promessa dal Nilo all’Eufrate – dovrebbe essere riferita a un futuro lontano. Quindi la conquista di Giosuè non ha ancora realizzato quella promessa, ma rappresenta solo l’inizio del suo avveramento. Né il Pentateuco, né il resto della Biblia Hebraica raccontano la definitività del terra, il cui possesso deve essere considerato, piuttosto, un esito escatologico.
3. La Terra promessa come dono e compito
Dopo questa breve disamina sul concetto di terra-in-sé, come entità geografica, ritorno sul concetto di terra come oggetto di tensione, per capire meglio in che modo si possa qualificare il rapporto di tensione tra terra e il popolo. Anche in questo caso il Pentateuco [come fusione del corpus P con il corpus Dtr] non è coerente. La Terra che emerge dai cosiddetti livelli deuteronomistici è percepita come oggetto di occupazione (Landnahmeerzählung) da parte del popolo o come conquista militare (Landeroberungserzählung). Invece, se ci spostiamo sulle pagine della storia esodale tratteggiata dal Triteuco (Gn–Lv), il tema della terra, a mio avviso, resta in sordina, perché il fulcro della narrazione P è, sostanzialmente, il passaggio dalla schiavitù faraonica al culto YHWH-sta. Si è ormai d’accordo sul fatto che la storia P metta in relazione l’uscita dall’Eden dell’umanità caduta nel peccato (cf. Gn 1–3) con l’entrata di Aronne nel tabernacolo, grazie al quale l’umanità è di nuovo collocata alla presenza di Dio (cf. Lv 8 e 16).
Quando finalmente nel IV sec. i due corpora (P e Dtr) vennero intrecciati in un’unica composizione proto-pentateucale, i temi dell’uscita dall’Egitto e dell’entrata in Canaan vennero meglio approfonditi come promessa; si comincia a riconoscere, cioè, l’importanza della mano di Chi promette la terra, più che l’oggetto in sé. La terra è, anzitutto, dono e non preda da sottrarre alle mani dei popoli che la possiedono. Si insiste sul fattore etico-religioso del rinnovamento del popolo, secondo quel tipico stile compositivo che ha riempito di deuterosi il Pentateuco (creazione, alleanza, legge, decalogo, vocazione di Mosè, Sinai/Horeb, deserto Es/Nm…). Il Deuteronomio, in particolare, canta sempre l’impareggiabile bellezza e fecondità della terra, in cui scorrono latte e miele (cf. Dt 6,3.10-11; 8,7-9; 11,9-12). Il possesso della terra è dono in rapporto con la fedeltà all’alleanza (cf. Dt 4,1-2; 8,9-18). La disobbedienza può provocare anche la perdita della terra (cf. Dt 4,25-27; 28,20-21).
Ebbene, grazie a una redazione proto-pentateucale (IV sec. a.C.), prende forma la trama pienamente pasquale (esodale e eisodale insieme) e la terra – come possesso di un dono per conto del vero proprietario che è YHWH – diventa un presupposto cultuale, perché senza terra mancherebbe la materia prima per sacrifici e decime. Nel racconto di Gs 3-5, giudicato relativamente recente dalla critica letteraria, il passaggio del Giordano segnala l’ingresso nella terra promessa e, dunque, la realizzazione delle promesse di YHWH rivolte ai patriarchi. Con l’attraversamento, cessa la somministrazione della manna, che aveva nutrito quotidianamente il popolo lungo marcia nel deserto (Gs 5,12). Ecco che i frutti della terra possono finalmente surrogare la manna.
Ma come la manna non poteva essere accumulata, così anche la terra non può essere sfruttata o capitalizzata come proprietà assoluta. Anche la terra, come la manna, deve essere dispensata quotidianamente, affinché il popolo si nutra non di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Donante. In Gs 23 Giosuè pronuncia il suo testamento spirituale. Il testo oscilla sull’effettività del possesso, a tratti immaginato come un compito che ancora deve essere portato a termine. Resta però fermo che, quanto ottenuto, è opera di Dio: «9 Il Signore ha scacciato dinanzi a voi nazioni grandi e potenti; nessuno ha potuto resistere a voi fino ad oggi. 10 Uno solo di voi ne inseguiva mille, perché il Signore, vostro Dio, ha combattuto per voi, come vi aveva promesso».
È altrettanto chiaro che il dono non è dato una volta per tutte e che la minaccia più grande alla terra non sono le manovre militari delle nazioni, ma l’infedeltà del popolo dell’alleanza: «11 Abbiate gran cura, per la vostra vita, di amare il Signore, vostro Dio. 12 Perché, se vi volgete indietro e vi unite al resto di queste nazioni che sono rimaste fra voi e vi imparentate con loro e vi mescolate con esse ed esse con voi,13 sappiate bene che il Signore, vostro Dio, non scaccerà più queste nazioni dinanzi a voi. Esse diventeranno per voi una rete e una trappola, flagello ai vostri fianchi e spine nei vostri occhi, finché non sarete spazzati via da questo terreno buono, che il Signore, vostro Dio, vi ha dato». Infine, Giosuè esprime il ruolo della terra secondo la prospettiva della teologia deuteronomistica: «15 Ma, come è giunta a compimento per voi ogni promessa che il Signore, vostro Dio, vi aveva fatto, così il Signore porterà a compimento contro di voi tutte le minacce, finché vi abbia eliminato da questo terreno buono che il Signore, vostro Dio, vi ha dato. 16 Se trasgredirete l’alleanza che il Signore, vostro Dio, vi ha imposto, andando a servire altri dèi e prostrandovi davanti a loro, l’ira del Signore si accenderà contro di voi e voi sarete spazzati via dalla terra buona che egli vi ha dato».
Se volessimo recuperare il distillato rivelativo di queste righe, dovremmo focalizzarci sul rapporto tra popolo e YHWH: il testo non prende posizione sulla possibilità o meno di condividere la terra con altre genti, ma sul fatto che una eventuale condivisione basata sull’idolatria sarebbe il preludio della fine. In altre parole, la vera minaccia del popolo non è la condivisione della terra con altre nazioni, ma la condivisione della loro idolatria. Se è vero che la terra è dono (Gabe), puramente gratuito e incondizionato, conseguenza della promessa divina, il possesso della terra diventa adesso un compito (Aufgabe), senza automatismi e nel rispetto dell’alleanza. La tensione tra queste due dimensioni – dono e compito – è risolta dalla devozione (Hingabe), espressa dal culto in cui l’umano e il divino si incontrano. Il popolo, se vuole dare un significato propriamente teologico alla terra, deve sempre ricordare questo: «Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato» (Gs 24,13).
Purtroppo, la tentazione dell’uomo è annullare la mediazione, attraverso scorciatoie che disattivano ogni cammino di crescita. In alcune pagine della storia d’Israele la Terra non è più vista come dono, promessa e sfida, ma come fatto e diritto. La risposta di Dio è sempre la stessa: allungare la strada per facilitare l’incontro e generare processi; sottrarre il dono per poter educare il suo popolo a riceverlo ancora. «Se la prima umanità, nella bramosia del “tutto subito”, non ha accettato il limite, Dio ormai lavora a partire dai limiti». Il limite diventa sapienza e opportunità. Ciò è evidente nel peregrinare (nel girovagare!) d’Israele nel deserto: dall’Egitto alla Palestina sarebbero bastati pochi giorni a piedi; invece la marcia dura 40 anni. È in questo “già e non ancora” che matura, in itinere, la sponsalità tra Dio e il suo popolo. Il viaggio verso la terra promessa è, a ben vedere, l’aggiornamento di un rapporto di tensione con il dono: «È solo vivendo questa tensione che realmente si può arrivare a possederlo. In altri termini, la Terra la si contempla, sì: ma da lontano; il giardino lo si ammira, sì: ma dal deserto; così come anche, paradossalmente, lo si possiede»; perché il popolo impari che più importante del dono è la mano di Chi dona.
Don Carmelo Russo
Mercoledì della Bibbia 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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