In Myanmar i vescovi protestano contro la costruzione di un’enorme diga

L’impianto idroelettrico sul fiume Irrawaddy, controllato dalla Cina, avrà conseguenze catastrofiche su popolazioni e ambiente.

Myanmar, stato settentrionale di Kachin. Alla confluenza dei fiumi Mali e N’Mai, dove i due corsi d’acqua si uniscono per formare, è prevista la costruzione dell’enorme diga di Myitstone. È la prima volta che il fiume sarebbe sbarrato. L’imponente opera da 3,6 miliardi di dollari, controllata dalla China State Power Investment Corp., produrrà 6.400 megawatt e avrà conseguenze catastrofiche per milioni di agricoltori, l’ambiente e la pace nella regione.

L’Irrawaddy è considerato la culla della civiltà del Myanmar e per questo la Conferenza Episcopale locale ha diffuso un appello, rilanciato da AsiaNews e dall’Agenzia Fides, in cui invita il governo e la Cina a rivedere il progetto, unendosi alle proteste di attivisti, esponenti di partiti politici, leader religiosi, movimenti civili e cittadini della comunità Kachin.

“I birmani difendono il principio che le risorse naturali del Myanmar appartengono al suo popolo e che il loro consenso informato è un prerequisito per qualsiasi accordo sostenibile sulla condivisione delle risorse stesse; nonché per qualsiasi buon rapporto sostenibile con i nostri vicini. […] “Il fiume Irrawaddy attraversa il cuore della nostra nazione nutrendo con l’acqua milioni di persone, flora e fauna per il sostentamento e la vita. Per la gente del Myanmar, la storia del fiume Irrawaddy è intrecciata con la nostra lunga storia di gioie e dolori. Gli scienziati hanno identificato importanti linee di faglia sotto il corso del fiume e la costruzione di una diga potrebbe esporre le linee a una maggiore pressione e a conseguenti immani disastri. Una diga potrà privare milioni di persone di una vita sostenibile e provocherà una catastrofe umanitaria, con la migrazione di migliaia di persone. Le agenzie internazionali hanno anche sottolineato che il Myanmar è la terza area più vulnerabile ai disastri naturali”.

Il Myanmar è attualmente isolato dalla comunità internazionale, a seguito della crisi umanitaria dei Rohingya e dei tentennamenti di Aung San Suu Kyi. Così, dipende sempre più dal sostegno politico ed economico della Cina. Anche il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia, ha definito la diga «una condanna a morte per la popolazione del Myanmar». L’appello dei vescovi continua così:

“Per una pace duratura nella regione, il fiume Irrawaddy deve essere lasciato intatto. I benefici economici promessi che si pensa provengano dalla diga non sono paragonabili alle perturbazioni sociali ed ecologiche che arriveranno sicuramente. La pace diventerà un sogno lontano. Dopo decenni di conflitti, il Myanmar merita di risorgere a una nuova vita, arricchita da opportunità creative, piuttosto che privata delle abbondanti acque vivificanti dell’Irrawaddy. […] Noi, in quanto vescovi, continueremo a lavorare con la popolazione del Myanmar, il governo e le altre parti interessate per costruire una nazione basata sulla pace e la comprensione. Il nostro fine è il bene più grande per un numero maggiore di persone. La diga devierà sicuramente da questo obiettivo”.