Negli inferi della storia sono emersi testimoni di speranza e il confronto delle loro esperienze aiuta a capire l’attualità. Parte 1
Negli inferi della storia sono emersi testimoni di speranza e il confronto delle loro esperienze aiuta a capire l’attualità. Parte 1
1. Nazione e nazionalismo
Il nazionalismo è l’indirizzo culturale che, in formulazioni molteplici e talvolta contrastanti, attribuisce un ruolo centrale all’idea di nazione e sostiene la necessità di promuovere lo sviluppo autonomo delle singole nazioni. «Tutte le costituzioni politiche, repubblicane o di altro tipo, hanno come unico fine – se sono legittime – d’impedire o almeno limitare l’oppressione verso la quale la forza inclina naturalmente. E quando c’è oppressione non è una nazione ad essere oppressa. È un uomo, e un uomo, e un uomo. La nazione non esiste; come potrebbe essere sovrana?». In queste parole lapidarie di Simone Weil, scritte durante la Seconda Guerra Mondiale, si condensa la sua critica alla sovranità astratta e impersonale della nazione, che oggi appare profondamente colpita. Si pensi alla violenza di certi populismi contro le categorie politiche classiche, in primis quella di sovranità, ma anche quella di rappresentanza. Ancor più di recente, una guerra che sembra essere scoppiata improvvisamente, quando piuttosto è scaturita dal disinteresse globale nei confronti di popoli a lungo travagliati da confini incandescenti. Simili escalation, dai risvolti drammatici quando non tragici, si esprimono sotto il segno comune di nazionalismi risorgenti.
Per cogliere il nazionalismo come problema del nostro tempo, riprendo il termine “nazione” che nel suo significato originario affiora dal fenomeno della vita, connotando dimensioni naturali, impolitiche per eccellenza. Deriva infatti dal latino natio – a sua volta forma sostantivata del verbo nascor, ossia “nascere”. Come si dirà in seguito, la massima degenerazione dell’intreccio tra la matrice biologica da cui deriva il nazionalismo e le sue declinazioni politiche si manifesterà col nazismo. Ma facciamo un passo indietro. Perché l’idea di nazione assuma la potente carica identitaria che la connota politicamente, occorre attendere le grandi trasformazioni seguite alla Rivoluzione francese del 1789. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino leggiamo, in effetti, che «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione; nessun corpo, nessun individuo, può esercitare un’autorità che non emani direttamente da essa».
Contemporaneamente in Europa si stavano diffondendo dottrine che criticavano gli ideali democratici e liberali, pensati dagli illuministi e affermati con la rivoluzione, poiché rischiavamo di disperdere in un intangibile concetto di uomo universale le concrete tradizioni radicate nelle diverse culture particolari. Il tedesco Johann Gottfried Herder, considerato il fondatore del nazionalismo, era un teorico del linguaggio che aveva coniato il neologismo Nationalismus per indicare, in particolare attraverso l’omologazione linguistica, l’attaccamento della comunità alla «terra dei padri», e il sangue versato per conquistare e difendere il territorio. Entro tale impostazione si considera necessario un continuo lavoro di purificazione e sorveglianza contro l’intrusione di elementi culturali estranei; viene invece condannata la strategia dell’espansione, della conquista e dell’assimilazione culturale, in una parola la logica imperialista che pure si sarebbe consolidata a partire dall’età napoleonica.
Potremmo allora sostenere che il nazionalismo è sia una rivoluzione che una controrivoluzione: da un lato, esprime l’istanza di liberazione, progresso, ed emancipazione dalle ingiustizie di un potere autoritario in favore di un potere democratico (fondato cioè su basi diverse dalla tradizione e dal diritto divino premoderni); in tal senso è uno strumento ideale, capace di alimentare la cooperazione tra le nazioni nonché di veicolare coesione e solidarietà all’interno dello Stato, integrando diversi gruppi sociali ed istanze contrastanti altrimenti destinati ad una conflittualità senza sintesi. Dall’altro lato, rappresenta la pretesa superiorità da parte di una nazione sulle altre, la sovranità esclusiva come valore, la supremazia a tutti i costi; in tal senso costituisce uno strumento ideologico, con effetti divisivi piuttosto che inclusivi; reazionari piuttosto che riformatori; omologanti piuttosto che pluralisti. Possiede dunque due anime il nazionalismo, che si combinano continuamente: quella universalista aperta alla solidarietà internazionale, diremmo simbolica; quella imperialista, aggressiva verso l’esterno, che nega qualsivoglia autorità al di sopra della nazione stessa, diremmo diabolica.
2. Nazionalismo e nazismo
Con queste premesse, l’indirizzo politico del nazionalismo quale criterio di legittimazione per l’indipendenza e autodeterminazione dei popoli, dischiude necessariamente risvolti paradossali: perché l’indipendenza non coincide con l’uguaglianza, come avrebbero voluto i razionalisti e gli illuministi; perché l’autodeterminazione finisce col comportare l’uso della forza sul piano internazionale, nell’impossibilità di trovare e/o applicare una legge universalmente valida. Soffermiamoci sul periodo cruciale tra Ottocento e Novecento – sinteticamente caratterizzato dalla piena industrializzazione, dall’ingresso delle masse nell’arena politica, dalla politica di potenza degli Stati.
Dopo l’unificazione italiana e tedesca l’identità nazionale, più che il motore unificatore dello Stato come noi oggi lo conosciamo, diviene un fine in sé. A prescindere dalla sua declinazione monarchica o democratica, volontaristica o naturalistica, si configura esclusivamente come giustificazione della politica di potenza, o nazionalismo tribale – per dirla con Arendt – che trasforma il sentimento di lealtà nei confronti del proprio Stato in autorizzazione alla prevaricazione e alla barbarie. Perciò il nazionalismo può essere considerato ideologicamente responsabile dello scontro imperialistico culminante con la Prima Guerra Mondiale, campo di battaglia che prepara il consolidamento politico-istituzionale dei movimenti illiberali e antidemocratici entro cui primeggiano la sovranità esclusiva, l’autarchia, la xenofobia, elementi che abbiamo detto essere insiti nella versione diabolica del nazionalismo.
Significativo, in tale prospettiva, lo spostamento della scienza politica tedesca in direzione biologica fino a far prevalere scientificamente il valore politico e non più naturale della vita. Il totalitarismo concretizza tragicamente lo slittamento della nazione dal fatto biologico – impolitico e in sé privo di connotazioni morali – a quello politico. Lo Stato appare realmente grande quanto il territorio su cui si estende; allo stesso modo, il corpo dei suoi abitanti sembra realmente dover costituire una infrangibile catena che sostiene la sovranità della nazione. La politica nazista, tutta interessata ad incrementare la natalità, così come agli studi sull’eugenetica e all’igiene razziale, non è che il tentativo di governare la vita quale unica forza viva della storia. La potenza dello Stato viene direttamente collegata alla salute dei suoi membri.
Tuttavia, proprio perché investita di questa immediata valenza politica, la nascita diviene anche il crinale lungo il quale la vita si spacca in due ordini non solo gerarchicamente subordinati, ma anche rigidamente giustapposti come sono quelli dei padroni e degli schiavi, degli uomini e degli animali, dei viventi e dei morenti. Mai come nel regime nazista la nazione sembrò radicarsi naturalmente nei cittadini di sangue tedesco: ma non era semplicemente la nascita a determinare il ruolo politico del vivente, bensì la sua posizione nel diagramma politico-razziale a predeterminare il valore della sua nascita. L’interesse vitale della nazione-nazista è favorire l’incremento dei più forti e prevenire, parallelamente, quello dei più deboli: la difesa del corpo nazionale richiede l’asportazione delle sue parti malate. La lucida follia di Nietzsche aveva mostrato pochi decenni prima il paradosso della sovranità nazionale, tradizionalmente considerata una e indivisibile, cogliendo un’irriducibile separazione tra classi e razze, svelando una verità infernale: «La vita stessa non riconosce né solidarietà né ‘parità dei diritti’ tra le parti sane e quelle malate di un organismo: queste ultime bisogna reciderle, o il tutto perisce».
La promessa su cui – più o meno velatamente – si fonda ogni nazionalismo, su cui ogni nazionalismo crolla, è che in base alla propria nazionalità – questa incarnazione terrena e intimamente pericolosa della Provvidenza – si sarà tra i salvati e non tra i recisi. Il nazionalismo come ideologia dello stato nazionale, storicamente concepita per il progetto politico di unificazione culturale di un territorio e in un territorio restituisce, insieme all’appropriazione e al radicamento, una continua opera di espropriazione e sradicamento fin dentro le frontiere. Lo confermano le proposte degli autoritarismi europei – basate sui dualismi noi/loro, dentro/fuori, prima/dopo, ecc. – centrate sulla salvezza contro gli altri – che di volta in volta personificano i disperati del mondo. Ma quali sono i confini del mondo? Mentre risuona ancora quel “Nessuno si salva” da solo in una piazza San Pietro bagnata di pioggia e lacrime il 27 marzo del 2020, la domanda vuole essere una provocazione a ripensare i confini, costruire linguaggi e codici simbolici capaci di rifiutare la costruzione di confini contro – una sorta di contraddizione in termini, di cui si dirà a breve.
3. Nascita, nazione, nazionalismo. Una questione di confini
Ciò che si è tentato di tracciare sin qui è che l’esito concreto del nazionalismo come ideologia sta nel funesto cortocircuito del nazismo, che traduce un evento eminentemente singolare come la nascita in un legame spersonalizzante, che unisce i figli ai padri, equipara i vivi ai morti, blocca gli esseri umani al territorio confinato entro cui sono nati. Vorrei soffermarmi sul tema dei confini accostando la questione linguistica accennata inizialmente, la razza come valore nel caso del nazismo e la giustificazione del primato nazionale in quanto legame di natura insuperabile. Riprendo a tal proposito la conferenza Che cos’è una nazione? che Ernest Renan tiene alla Sorbona l’11 marzo 1882. L’intellettuale francese oppone alle dottrine della nazione intesa come una comunità basata sull’etnia, sul linguaggio, sull’affinità religiosa e sulla geografia, la nazione intesa come principio spirituale, senza confini prestabiliti, basato sul desiderio di un popolo di vivere insieme. «La considerazione ‘esclusiva’ della lingua presenta, al pari del peso eccessivo attribuito alla razza, pericoli e inconvenienti. Quando si esagera, ci si rinchiude in una cultura determinata, che viene considerata razionale: ci si autolimita, ci si imprigiona». La nazione, dice, «è un plebiscito di tutti i giorni».
Concludo con una precisazione sul vocabolo confine, che in latino si dice confinis – derivato di finis, “limite”, col prefisso con-. Rappresenta una comunione di fini, intesi come limiti entro cui rimanere, ma, se vogliamo, anche scopi e obiettivi che proiettano nell’orizzonte del movimento. Questa l’ambivalenza intrinseca del confine: punto fermo di riferimento, traccia evidente di una separazione, di una distanza da difendere; eppure soglia che mette in contatto con il fuori, con l’altro che abita un altrove insondabile soltanto se rimaniamo fissi nella nostra posizione di partenza. È vero che ogni delimitarsi equivale a definirsi – sia che si tratti dei confini di Stato, dei confini del sapere, dei confini della morale. Quando si delimita uno spazio si crea necessariamente un di qua e un di là, un dentro e un fuori. Come se per avere consapevolezza del noi sia necessaria l’espulsione degli altri.
Occorrerebbe ammettere con Karl Popper, «l’assoluta assurdità» di giustificare e proteggere i confini nazionali (culturali, linguistici, razziali etc.) rendendoli naturali. Siffatta logica infatti corrisponde ad un’esigenza impossibile: che ogni Stato sia definito a partire da un «confine naturale, e che questo coincida con la naturale dimora del gruppo etnico, la nazione, sicché dovrebbe essere il gruppo etnico, la nazione, a determinare e proteggere i confini naturali dello Stato». In effetti, cosa rende «naturale» il confine? Un confine che spesso cambia più volte? Soltanto il Portogallo ha confini nazionali risalenti al XV secolo, e solo la Spagna al XVII. I più grandi Stati europei hanno visto i loro confini variare sensibilmente, non a caso nel corso del XX secolo, il secolo d’oro della nazione: l’Italia nel 1919, il Regno Unito nel 1922, la Polonia nel 1945, la Francia nel 1947 e la Germania nel 1945 e nel 1990. L’appartenenza naturale dello Stato al popolo ha giustificato qualsiasi confine come qualsiasi sconfinamento – dalla Polonia di Hitler alla Crimea o al Donbass di Putin.
Ricordiamo il libro terzo di Guerra e pace che comincia con l’icastica rappresentazione di un’invasione e dei suoi esiti: «Il 12 giugno le forze dell’Europa occidentale varcarono le frontiere della Russia e cominciò la guerra, cioè si compì un fatto contrario alla ragione umana e a tutta la natura umana. Milioni di uomini commisero gli uni contro gli altri così innumerevoli malefici, inganni, tradimenti, rapine, falsificazioni ed emissioni di assegnati falsi, saccheggi, incendi ed assassini, quanti per secoli interi non ne raccoglierebbero gli annali di tutti i tribunali del mondo». Queste pagine sembrano scritte pensando ad altre invasioni, più che recenti, smascherando tratti identici in ogni tempo, semmai attualmente potenziati da uno sviluppo senza precedenti della tecnologia bellica. Dai primi dell’Ottocento alla Lettera a Georges Bernanos di Simone Weil, che rievoca un altro momento cruciale: «[…] Avevo dieci anni al tempo del trattato di Versailles (1919, ndr). Fino ad allora ero stata patriota con tutta l’esaltazione dei bambini in periodo di guerra. La volontà di umiliare il nemico vinto, che dilagò ovunque in quel momento (e negli anni successivi) in maniera così ripugnante, mi guarì una volta per tutte da quel patriottismo ingenuo. Le umiliazioni inflitte dal mio paese mi sono più dolorose di quelle che può subire».
Qui non è semplicemente la guerra oggetto di attacchi polemici, ma pure la pace scritta con il sangue delle vittime, suggellata dalla rivalsa dei vincitori. La storia successiva al trattato di pace, appunto, non tarderà a mostrare il volto fatale della spartizione tra vincitori e vinti. Cionondimeno credo sia essenziale accogliere l’idea che il «peggio non è inevitabile né irreparabile», come ha scritto Tzvetan Todorov, accettando l’ineluttabilità del male ma rimettendo altresì costantemente in gioco le infinite possibilità del bene: «il passato è fruttuoso non quando serve a nutrire il risentimento o il trionfalismo ma quando il suo gusto amaro porta a trasformarci».
Maria Grazia Recupero
Mercoledì della spiritualità 2022, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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