Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. L’esempio di un nuovo inizio con nuovi vincoli fraterni.
Volti di fraternità e sororità nella fede biblica. L’esempio di un nuovo inizio con nuovi vincoli fraterni.
1. Un nuovo inizio con nuovi vincoli fraterni
La storia di Noè è una delle più fortunate pagine bibliche, anche nell’immaginario collettivo. In particolare, il racconto del diluvio universale (mabbûl per il TM; kataklysmos per i LXX), sebbene dipendente da antichi miti mesopotamici (sumerici e accadici), inaugura un prototipo letterario che gode di numerosi richiami lungo la storia del giudaismo, del rabbinismo e del cristianesimo. Gen 5,29 collega il nome di Noè alla radice nḥm (nella coniugazione Piel), col significato di “consolare”: «costui ci consolerà …», dice il padre Lèmek. Poco più avanti, in Gen 6,6, sembra esserci una certa ironia verbale quando si afferma che «Dio si pentì [nḥm, nella coniugazione Niphal] di aver fatto l’uomo sulla terra…». Si potrebbe dire anche che Dio resti sconsolato dalla sua stessa creazione a causa della malvagità degli uomini. Il nome di Noè, allora, registra la sua alta missione: non tanto quella di consolare il padre Lèmek, quanto di consolare Dio e convincerlo della bontà della sua creazione. Noè avrà il compito di traghettare gli esseri viventi sulle acque della rigenerazione universale, rendendo possibile, allo sbarco, la prima alleanza tra Dio e l’intera creazione.
Rotte le acque sopra il firmamento, inizia un travaglio lungo quaranta giorni e quaranta notti. Finalmente, l’arca, come grembo fecondo, partorisce una nuova creazione. Non a caso, il Rito dell’Elezione o Iscrizione del nome di un catecumeno prevede come lettura possibile Gen 9,8-15: il candidato ha così davanti l’esempio di Noè, scelto in vista di una originaria — direi anche naturale — alleanza con Dio. Da allora in poi, il cosmo si regge sulla benevolenza di Dio. Nel prosieguo della storia della salvezza il rapporto tra Dio e l’umanità si strutturerà nella forma di una amicizia, come nell’alleanza con Abramo, o nella forma del patto bilaterale, come nell’alleanza al Sinai, con l’intero popolo guidato da Mosè. Intanto, prima di questi passaggi, ogni uomo sulla terra viene raggiunto dalla promessa di Dio: «Finché la terra rimane, semina e raccolto, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno» (Gen 8,22). L’alleanza noachica — primitiva rispetto all’alleanza abramitica e mosaica — si radica, dunque, su vincoli profondamente naturali, che riguardano tutto il genere umano.
«Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: “Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca”» (Gen 9,8-11). Tale patto viene icasticamente rappresentata da un segno: un arco nelle nubi. «Ecco il mio arco alla nube io l’ho dato, / il segno del patto tra me e la terra, / tra me, voi, e ogni essere vivente / in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,12-16). Come, più tardi, in Egitto l’arco di sangue sugli stipiti delle porte delle case israelitiche sarà il segno per il Signore di passare oltre, così l’arcobaleno, più che un segno per gli uomini (come, più tardi, la circoncisione nell’alleanza abramitica o come il sabato), è un promemoria che Dio si dà per essere sicuro di mantenere la sua promessa. L’immagine dell’arcobaleno, dunque, a differenza della sensibilità odierna, è tutt’altro che fiabesca e irenica. Si tratta di un segno che ricorda un pericolo scampato: Dio si è disarmato, ha deposto il suo arco di guerra che diventa arco in cielo.
Dio si pente di essersi pentito e rinnova la faccia della terra. La creazione è davvero «cosa buona», ma solo un’alleanza speciale con Dio la tiene all’esistenza. Solo l’amore ri-crea. Scrive E. Ronchi: «Dio si fa debole davanti alle sue creature e forte invece contro le acque del diluvio, le grandi acque della morte, che non verranno più a spegnere l’amore (cfr. Ct 8,7). Il patto di Dio con il mondo è frutto di un amore che è unilaterale, non chiede niente in cambio; che è non selettivo, e stringe, per sette volte, un legame di vita con “ogni essere in cui è alito di vita, ogni essere vivente in ogni carne” (Gen 9,15-17): l’uomo, ma anche il volatile, il pesce, l’animale dell’arca, il piccolo insetto e il ramoscello d’olivo. Ciò che da allora vince la morte non è la vita, ma questo amore che salva ogni creatura sotto il sole».
A differenza delle future alleanze, qui non c’è selezione: tutto ciò che esce dall’arca viene raggiunto dal segno salvifico dell’arcobaleno. Questi sette colori primari sigillano l’alleanza eterna tra Dio e la creazione, la Berith ‘olam, fondata su sette precetti generalissimi, a cui tutti i popoli della terra devono prestare obbedienza. Per queste caratteristiche, l’alleanza di Noè viene utilizzata per parlare del rapporto tra la rivelazione ebraico-cristiana e le altre religioni. Noè è la mano tesa su ogni fede e cultura non biblica. Questo aspetto rende teologico il discorso che stiamo affrontando. La fraternità universale non è un tema esogeno alla rivelazione. Non è una contaminazione del politically correct di oggi. Al contrario, il nohachismo diventa categoria biblico-teologica e mette all’ordine del giorno i rapporti con le altre religioni.
La creazione post-diluviana non è un semplice ritorno alle origini, ma un aggiornamento del sistema, in cui si palesano le interconnessioni cosmiche, immanenti alla natura stessa. In Noè, «patriarca della stirpe umana scampata dal diluvio», anche l’umanità si scopre interconnessa con la natura e unita da vincoli creaturali, derivanti dal ri-conoscimento della comune natura umana. Il riconoscimento di questi nuovi vincoli fonda la possibilità di una fraternità universale di tutto il genere umano. Il tema è molto esplorato e non voglio soffermarmi a considerare tutte le implicazioni. Desidero, invece, porre l’accento su una pericope poco nota – l’ubriacatura di Noè (Gen 9,18-29) –, ma che, a mio avviso, condensa una sapienza che illumina meglio il percorso tematico sulla fraternità/sororità che stiamo sviluppando lungo quest’anno.
2. La fraternità universale alla prova del padre
La pericope di Gen 9,18-29 segna, all’interno della trama drammatica di Gen 1-11, il fallimento della relazione padre-figlio. Da questo fallimento, anche la fraternità subisce un contraccolpo. Mentre nell’episodio di Caino e Abele la fraternità resta ferita nella reciprocità dei rapporti fraterni, qui la ferità della fraternità si allarga e si triangola con la figura paterna. Il disonore arrecato al padre da parte di uno dei suoi figli appare come un peccato originale della fraternità universale. Gen 9,19 dice chiaramente che dai tre figli di Noè si disperde il genere umano, preannunciando la tavola dei popoli di Gen 10 e l’episodio della dispersione di Babele.
Lascio da parte il problema diacronico del testo. Il racconto qua talis è molto denso ed efficace. «Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna» (Gen 9,20). Noè, il nuovo Adamo, pianta – il primo a piantare era stato Dio in Eden (Gen 2,8) – una vigna (cf. Sal 104,15), partecipando alla nuova creazione. «Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda» (Gen 9,21). L’ubriacatura di Noè – prima presentato come uomo giusto (cf. Gen 6,9; 7,1), irreprensibile e che cammina con Dio (cf. Gen 6,9) – è molto strana. Sembra non esserci nessun giudizio morale su questa ubriacatura, ma possiamo immaginare che Noè abbia certamente sbagliato la misura delle cose. Il vino nella Bibbia gioca sempre un ruolo ambiguo (cf. Sal 4,8; Sir 40,20). La nudità, anche se coperta dalla tenda, diventa motivo di disonore (cf. Es 20,26; 2Sam 6,26; 10,4-5; particolarmente significativo è Ab 2,15-16).
L’abuso di vino e la nudità insieme sono spesso collegate alla sfera sessuale. A ben vedere, però, molto più ingombranti sono i paralleli con lo stato delle origini dell’umanità ante lapsum: c’è un nuovo Adamo (per dire “agricoltore” si usa l’espressione «uomo del suolo», ’îš hā’ădāmâh); c’è un giardino; c’è l’abuso di un frutto; c’è la nudità. Davanti alla nudità del padre, i figli di Noè – Šem, Ḥam e Yèphet – terranno comportamenti diversi, che saranno all’origine della disuguaglianza tra i popoli. L’agiografo, in altre parole, osservando il reale, si rende conto che questa fratellanza originaria è compromessa dalle scelte fatte da ciascun fratello.
Tutta la vicenda successiva all’ubriacatura, ruota attorno al peccato di Ḥam, padre di Canaan, capostipite del popolo idolatra dei cananei. Il collegamento tra Ḥam e Canaan è redazionale e serve a preparare la maledizione di Gen 9,25. In che cosa consiste il peccato di Ḥam? Ci sono più livelli di lettura. Intanto, Ḥam vede la nudità del padre, ne carpisce la sfera intima della sua persona. “Vedere” significa avere anche il controllo: vedere la nudità del padre, in altre parole, comporta un affronto al principio generativo e all’autorità di Noè. Probabilmente Ḥam vuole impossessarsi di questa autorità. C’è qualcosa di molto simile ai complessi freudiani.
La pietà filiale avrebbe dovuto salvaguardare la riservatezza del padre. Invece, oltre al furto della sua nudità, si aggiunge il disprezzo. Ḥam, infatti, racconta ai fratelli le debolezze del padre. Quello che doveva rimanere nel chiuso di una tenda viene sbandierato ai quattro venti. Šem e Yèphet, appreso il fatto, reagiscono in maniera diversa rispetto alla sconsideratezza di Ḥam: essi resistono alla pulsione scopica e mettono in atto una strategia per non impossessarsi della nudità del padre. La narrazione indugia a lungo nel descriver l’operazione, alquanto elaborata, che evita ai due fratelli di mancare di rispetto nei confronti del padre (cf. Gen 9,23): camminando a ritroso con la faccia rivolta indietro, si adoperano subito a coprire col mantello la nudità di Noè. Non c’è una volontà accudente dei figli nei confronti del padre sbronzo. Šem e Yèphet, piuttosto, si limitano a prendersi cura di lui nell’unica maniera possibile: quella di non lasciarlo nel ridicolo. Essi capiscono che il fianco scoperto del padre è un vulnus alla loro stessa identità. Quello che fanno è, appunto, onorare il padre, perché offrono al padre l’onus del mantello che controbilancia il disonore della nudità. È lo stesso gesto che Dio opera nei confronti di Adamo ed Eva: non li lascia andare via da Eden senza averli prima rivestiti con pelli (cf. Gen 3,21).
Ebbene, leggendo in profondità il gesto di pietà filiale da parte di Šem e Yèphet, nasce spontaneo il paragone con il quarto comandamento (quinto, nel computo ebraico), comandato dall’alleanza al Sinai. Il collegamento ci fornisce una potente chiave ermeneutica. Verrà il giorno in cui il genitori sarà nudo e debole. In quel giorno si deciderà la possibilità di entrare in una vita lunga e felice (cf. Es 20,12; Dt 5,16). Il peccato di Ḥam è, come ogni peccato, una mancanza: davanti alla debolezza del padre, egli si sottrae alla pietà filiale e, al contrario, avverte una pulsione di rivincita, un risentimento che diventa giudizio, delazione, svergognamento… C’è quasi godimento nell’aver umiliato il padre che invecchia, a cui vengono meno le sue forze fisiche e spirituali. Eppure, paradossalmente, il disonore del padre diventa vergogna, senso di colpa e risentimento anche per il figlio Ḥam, che sì ha peccato contro il padre, ma, in definitiva, ha disonorato anche se stesso. Šem e Yèphet esprimono, nella loro devozione filiale, il primo gesto di misericordia della Bibbia, perché sanno stendere un velo pietoso sulla fragilità del padre, senza fermarsi a fissare morbosamente la vulnerabilità delle proprie radici. È in questo momento che la fraternità si differenzia nella decisione etica: «chi rinnega la filiazione, sottraendosi ai doveri fondamentali, si esclude dalla fraternità».
Noè lancia la sua maledizione, non tanto contro il figlio Ḥam, autore del misfatto, quanto contro il nipote Canaan e la sua discendenza: «Maledetto sia Canaan! / Che sia schiavo degli schiavi per i suoi fratelli!». Noè che fino a quel momento era rimasto quiescente e stordito dal vino, prende l’iniziativa e apre bocca per maledire: è il primo caso di maledizione proferito da una creatura umana. Il giorno, in cui il genitore avrà bisogno del mantello, sarà per il figlio il giorno della maledizione o della tua benedizione. Sarà il giorno in cui si decide se passare a vita adulta ed equilibrata oppure restare nella conflittualità triste, infantile e vittimista. La discendenza di Canaan sarà «schiavissima», dice il testo ebraico. Certo, non c’è solo un giudizio morale, ma anche una polemica contro l’idolatria praticata da popolo cananei. Bisogna ricordare anche che, tra ḥamiti, ci sono anche gli egiziani, cioè il popolo che ha reso schiavi i discendenti di Šem. La maledizione, dunque, è anche una eziologia che spiega l’inimicizia contro gli egiziani e contro il popolo che occupa illegittimamente la terra promessa.
La benedizione degli altri fratelli, invece, è l’esplicitazione di ciò che è già contenuto in quell’onore tributato al padre: Šem e Yèphet, coprendo la debolezza, si emancipano dal senso di colpa, si riconciliano con le proprie radici, trovano pace interiore, equilibrio, felicità; si emancipano dai vortici introspettivi, dai sensi di colpa e dal ricatto di viscosità familistiche e diventano, a loro volta, padri. Nelle radici genitoriali, dunque, si scatena il dramma di come siamo e come dobbiamo essere, quanto è necessitato e quanto è possibile nella nostra vita. In queste radici prende forma la nostra creaturalità e, dunque, il nostro rapporto con il Creatore. Senza la radice non ci sono i rami: paternità, filiazione e fraternità sono indissolubili. A mo’ di sintesi possiamo affermare che la pietà filiale è il presupposto di ogni pietà fraterna. Questa affermazione apre alla dimensione soprannaturale della Paternità divina, che non è ancora visibile nel nostro brano, ma che diventerà il tema centrale della rivelazione di Gesù, nostro fratello perché Figlio del Padre.
P. Carmelo Russo
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