La preghiera apre la porta alla speranza: a confronto con i testimoni della fede quando la notte avvolge la vita.
La preghiera apre la porta alla speranza: a confronto con i testimoni della fede quando la notte avvolge la vita.
Il terzo millennio si è aperto sotto il segno della minaccia, la paura è diventata compagna oscura della contemporaneità – paura delle guerre e del nucleare, del degrado ecologico, della manipolazione genetica, del trovarsi disoccupati, della precarietà dell’esistere – e si ha l’impressione che la speranza sia venuta meno nell’orizzonte della nostra cultura. Oggi la situazione è peggiorata. Sta sotto gli occhi di tutti noi la situazione che viviamo: cambiamenti climatici delle stagioni, drammatiche situazioni di possibile guerra nucleare. Da qui l’incremento generalizzato della produzione e della vendita delle armi, di quelle nucleari in particolare, che riempiono gli arsenali dei singoli Stati mette in gioco il destino del mondo e dell’intera umanità. A questo si deve aggiungere l’indifferenza da parte di molti, che si esprime anche nei pochi che vanno a votare, e la violenza sempre più presente nelle famiglie e tra i ragazzi. Anche la Chiesa vive le sue difficoltà: sia a causa degli scandali e degli abusi di vario genere che si perpetuano al suo interno, sia perché avverte che è finito il tempo della cristianità: siamo ormai diventati piccole comunità e in esse spesso sono assenti i giovani.
1. È possibile sperare?
Per cui, oggi, ci si chiede non solo cosa sperare, ma, in modo più radicale: è possibile sperare? Questo navigare al buio e senza speranza, determinato da varie circostanze, che a volte sfocia in forme di violenza, di indifferenza verso l’altro o di rassegnazione, di per sé non si addice all’uomo, perché egli, credente o non credente, non solo avverte il bisogno di speranza, ma è speranza. Egli sente il bisogno di oltrepassare lo scacco dell’esistenza, seppure confusamente, avverte come un risucchio in avanti, una gravitazione sul futuro, verso una pienezza di senso. Giovanni Crisostomo evidenziava: «Ciò che ci porta alla sventura non sono tanto i nostri peccati quanto la disperazione». Pensiamo, allora, che è urgente riflettere e coltivarsi come uomini di speranza perché essa ci educa a non trascorrere i nostri giorni da rassegnati e a non concedere mai, rabbiosamente, spazio alla distruzione. Il nostro, comunque, è un tempo in cui si pone con palpabile drammaticità la domanda: che cosa posso sperare?. E da questo interrogativo non è esente il cristiano.
La speranza cristiana, infatti, è bene chiarirlo, in un’epoca in cui molti disperano, non vuole semplicemente consolare o favorire facili ottimismi, ma vuole ricordare che la promessa biblica non ha certo risparmiato ai suoi testimoni la lunga attesa nella notte. Il cammino di fede è segnato da un processo che nella Bibbia è chiamato deserto, e che dai mistici sarà chiamato notte. Consapevole che il cammino con Dio avviene tra luce e buio, il salmista prega: «Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre. Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (Sal 44,24-25). Questa è l’esperienza che facciamo un po’ tutti: passiamo da momenti belli, luminosi in cui riteniamo di sapere chi è Dio per noi e poi, invece, facciamo esperienza dell’aridità, del vuoto, della perdita di orientamento, del silenzio di Dio e di non sapere nemmeno se crediamo!
2. La notte avvolge il vissuto
All’origine della tenebra o della nausea interiore si trova ordinariamente un fatto doloroso, un conflitto di relazione, una disgrazia: eventi che sconvolgono l’esistenza e la fede di una persona. Sono svariate le circostanze difficili che mettono in crisi la nostra fede. Ma c’è da dire che, forse, sono anche rivelazione del costitutivo fondamentale della fede cristiana. Essa non è rimozione del negativo della vita e della storia, ma possibilità di attraversarlo e di confrontarsi con esso, avendo Qualcuno a cui rivolgersi, a cui gridare e con cui vivere. Il cammino di fede diventa ancora più paradossale e drammatico quando questo Qualcuno a cui ci si rivolge fa silenzio o sembra ostile. Allora la domanda “perché?” si fa straziante e insistente.
È bella, al riguardo, l’intuizione/risposta di S. Weil: «Egli (Dio) è colui, che, mediante l’opera della notte oscura, si ritira per non essere amato come un tesoro da un avaro». «È Dio che per amore si ritira da noi perché sia possibile amarlo», in pura gratuità. Il tema della notte, quindi, è presente nella tradizione spirituale ed è vista come un processo dinamico attraverso il quale l’uomo viene strappato dalle sue sicurezze, da una vita centrata sul proprio io, per radicarsi in una vita centrata in Dio e quindi animata dalla sua Parola. Dal racconto biblico emerge con chiarezza che la speranza è dono connesso alla fede e all’ascolto della parola di Dio insperata e gratuita: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is 41,10), dice il Signore al suo popolo, attraverso il profeta. Essa, quindi, non si fonda sulle proprie capacità di mutare le cose, ma sulla fede in Dio motivata dall’amore.
3. La speranza ha la sua voce: la preghiera
Se la speranza è dono di Dio, dono offerto a noi nel Figlio, per Paolo, Cristo stesso è la nostra speranza (1Tm 1,1), l’unica cosa da fare è cercare Dio e vivere insieme a lui. Dallo stare con lui scaturisce la speranza che va oltre ogni disperazione. Uno degli spazi determinanti per cercare Dio e sperare in Lui è la preghiera. Nell’enciclica Spe Salvi, Benedetto XVI indica dei luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza e, tra essi, propone la preghiera. Egli scrive nel paragrafo 2:
«Un primo essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi. Se sono relegato in estrema solitudine…; ma l’orante non è mai totalmente solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento, l’indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza, che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il mondo un testimone della speranza – di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta».
3.1. Cosa è la preghiera?
Più avanti il Papa si preoccupa di spiegare che «pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini» (n. 33). «Nella preghiera entriamo in comunione con … la vita stessa di Dio, colui che realmente è, viene in noi per questa porta». Allora, «dobbiamo restare nella preghiera, il più a lungo possibile, affinché la sua forza invincibile penetri in noi e ci renda capaci di resistere a ogni influenza distruttiva. Quando dentro di noi sorgerà questa forza, rifulgerà in noi la gioia della speranza nella vittoria definitiva».
Ma se oggi è difficile sperare, c’è da dire che non risulta facile nemmeno pregare. Si possono dire tante preghiere e attivare tante devozioni, ma la preghiera vera, quella che si fa accoglienza della vitalità di Dio nella propria vita e che quindi coinvolge il cuore, non è facile. Pertanto, ritrovare il cammino verso il proprio cuore, dove ognuno porta, secondo la mirabile espressione di Pietro, «l’uomo nascosto» (1Pt 3,4), cioè, ciò che costituisce la nostra realtà più profonda e più vera, è il compito più importante dell’uomo. È il viaggio più impegnativo: «Là Dio ci incontra e soltanto a partire di là noi possiamo a nostra volta incontrare gli uomini. Là Dio ci parla e a partire di là possiamo anche noi parlare agli uomini».
3.2. La preghiera esperienza tra abbraccio e silenzio di Dio
Tutto sembrerebbe risolto, perché nella preghiera, a volte, abbiamo l’impressione della carezza di Dio che ci accompagna, ma, poi, sperimentiamo, anche, che non è sempre così perché, pur pregando, ci troviamo spesso di fronte ai drammi della vita e di fronte a Dio che tace. Allora si affaccia la tentazione di smettere di pregare e di sperare. Non dobbiamo meravigliarci, questa difficoltà affiora anche nella preghiera biblica, nei Salmi. Ma in essi è presente un filo rosso che educa a resistere nel cammino di fede, a pregare e a sperare. Sono significativi, in merito, i Salmi 42 e 43, dove si intrecciano preghiera e speranza e sono espresse nel ritornello che ritorna tre volte e che dà un tono a tutto il salmo: «Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,6.12; 43,5). In questo salmo è presente un desiderio vitale verso Dio e nello stesso tempo l’esperienza della sua assenza, potremmo ancora dire, dei ritardi di Dio. La manifestazione di Dio, e quindi la percezione della sua presenza, è sottesa fra due poli opposti, espressi nella duplice e opposta valenza del simbolo dell’acqua:
– acqua che è portatrice di vita: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia… ha sete del Dio vivente» (Sal 42,2-3).
– acqua che è portatrice di morte: «Tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati» (Sal 42,8).
Il salmo, quindi, si presenta come una metafora della vicenda umana e della speranza cristiana. L’imperativo della speranza nella seconda parte del ritornello: «Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio», non è un invito a rifugiarsi in Dio, scavalcando o chiudendo gli occhi sulle sofferenze presenti, ma è un invito a vivere il presente, aprendosi al Dio della salvezza. Nella prospettiva di questo salmo, sperare comporta la conversione dell’orientamento del cuore, per cui l’orante non fissa più con sguardo nostalgico il passato (Sal 42,5), ma si volta e guarda fiducioso verso il futuro. La speranza poggia sulla parola di Dio e il suo cammino è illuminato e guidato dalla Parola che in Gesù si è fatta carne e ha trovato il suo compimento. Sperare nella parola di Dio è rendere la Parola operante nella propria vita e nella storia.
4. La preghiera e la speranza di Gesù di fronte ai ritardi di Dio
Questa condizione, tipica dell’orante biblico, non è estranea all’esperienza dello stesso «Cristo Gesù nostra speranza» (1Tm 1,1), che ha vissuto il mistero della passione, della morte e della resurrezione, e di conseguenza del cristiano. Gesù, infatti, più di tutti i giusti dell’AT, ha vissuto lo scandalo dei ritardi di Dio. E il battezzato, immerso in lui, non può sottrarsi a questa logica. Gesù ha pregato molto spesso. Ha passato persino notti intere in preghiera (Lc 6,12). Ma prega soprattutto nei momenti più critici della sua vita terrena, quando la tentazione assale anche lui. Egli affronta la tentazione pregando, soprattutto l’ultima tentazione nell’orto degli ulivi e sulla croce. Gesù aveva detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Quando, durante la passione bisogna fare questa volontà, si scatena il dramma. Si apre un confronto sanguinoso con la volontà del Padre. Non appena infatti tenta di vivere questa obbedienza nella sua natura umana, scoppia la crisi. Il suo corpo l’abbandona, suda sangue e acqua, muore.
E Gesù affronta questo confronto sanguinoso con la volontà del Padre pregando: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39): È pregando che Gesù ha sostenuto questa lotta ed è stato esaudito al di là della morte. Sulla croce la tentazione si fa ancora più insidiosa. Qui viene schernito su ciò che gli sta più a cuore, ciò per cui è venuto: la salvezza. Con sarcasmo gli viene detto: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto… Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,35. 37). Gesù non nasconde l’angoscia e pregando fa suo il grido del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Gesù sente improvvisamente l’assurdità della sua morte e dell’incomprensibile assenza del Padre. Egli sperimenta fino in fondo di come sia difficile cambiare il cuore, la vita degli uomini, ma questo non lo porta alla disperazione, perché egli sa che il regno di Dio è là dove non si da ritorno su di sé, non si da dimostrazione di potenza, ma comunione con Dio e desiderio di rendere tutti, anche nel più profondo dolore, partecipi della gioia di Dio.
A partire da questa situazione drammatica, quindi, Gesù continua a credere, contro ogni speranza umana, che il Padre nonostante tutto lo ama. E lo ama, non senza la morte, neppure sfuggendo alla morte, ma mediante la morte per una vita nuova. In questa prova senza misura, sull’orlo della disperazione, la preghiera di Gesù ha saputo pronunciare il suo sì alla volontà del Padre. La sua preghiera è un bacio d’amore nel quale egli consegna il suo ultimo respiro: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Gesù accetta di lasciarsi andare… nelle mani di suo Padre. È un abbraccio che non sfocia nella morte, ma nell’Amore, nella resurrezione. Egli dalla croce consegna il suo spirito (Gv 19,30), il suo respiro al Padre, ma lo consegna anche a noi, come bacio d’amore, perché anche noi possiamo vivere del suo soffio vitale del suo respiro e perché anche a noi sia concesso vivere la stessa speranza e lo stesso abbandono nel progetto del Padre. Gesù con il suo corpo risuscitato, è ora la Via della speranza. E lo è perché è colui che prima di tutto, pregando, ha attivamente sperato nell’oscurità della nostra storia.
5. La testimonianza dei martiri monaci trappisti di Tibhirine (Algeria)
Gesù risorto, il Vivente è la speranza dell’uomo perché, come scriveva fratel Christophe, nella Pasqua del 1995, il più giovane dei monaci di Tibhirine, in Algeria, certamente uomo di speranza, ucciso, assieme agli altri suoi fratelli monaci, nel maggio del 1996, «il peggio, Gesù non l’ha fuggito. L’ha affrontato, l’ha desiderato fino all’angoscia e alla ribellione. Sulla croce, l’ha accettato come una tavola imbandita – preparata – da Dio, suo Padre, “di fronte al nemico” (Salmo 22). Ci consegna allora il soffio della speranza. Alcune donne, tra cui – in piedi – Maria, sono presenti, così come il discepolo amato. È l’ora della speranza contro ogni speranza. La Chiesa inizia qui: in uno sguardo di speranza verso “colui che hanno trafitto” (Gv 19,37; Ap 1,7).
Trafitta anche lei, riceve la missione di portare la speranza al pieno compimento, fino alla fine (cfr. Eb 6,11). “Per Cristo, noi crediamo in Dio che l’ha risuscitato… così che la nostra fede e la nostra speranza sono salde in Dio” (cfr. 1Pt 1,21)». Questa speranza di Gesù dà a lui, e ai fratelli della sua comunità, la capacità di vivere, nella speranza anche loro, una situazione drammatica, senza fuggire, ma condividendo la sorte dei fratelli musulmani con i quali vivevano pacificamente, mi riferisco alla comunità trappista di Thibirine in Algeria. L’Algeria stava vivendo il dramma della guerra civile, tra i militari al potere e il Gruppo Islamico Armato (GIA), con tutte le conseguenze di violenza e di morte che comporta qualsiasi guerra civile. Il GIA impone agli stranieri di lasciare l’Algeria, entro la fine di ottobre del 1993, chi non lascia sarà ucciso.
Il 14 dicembre 1993, 12 (su 19) croati di un’officina, installati a 4 chilometri in linea d’aria dal mjonastero, sono sgozzati da un commando di 50 persone. Le vittime sono state scelte perché erano cristiani e croati. È stato un vero choc per la comunità. A brevissima distanza, il 24 dicembre sono loro a essere visitati dal GIA. Fratel Christian, priore della comunità, così relaziona a p. Bernardo Olivera, superiore generale dei trappisti: «“Loro” sono qui, verso le 19:15, tre dentro e altri tre fuori, armati, senza porre direttamente gesti di minaccia… Fratel Christian ha una lunga conversazione con il responsabile, facendogli notare che sono entrati armati, per la prima volta, in una “casa di pace”, dove non c’è spazio per le armi. Il capo mostra di voler tranquillizzare sulle sue intenzioni attuali e future, a determinate condizioni. […] Fratel Christian espone alcune obiezioni. “Non avete scelta”, gli risponde il terrorista». Malgrado ciò pregando e facendo discernimento comunitario, i monaci decidono di rimanere.
5.1. “Diventare immagine dell’Amore”
È importante, allora cercare di capire perché questi monaci hanno deciso di resistere continuando a vivere la loro esperienza evangelica in un territorio sempre più segnato dalla violenza e dalla morte. C’è una lettera di fratel Luc, del 24-3-1996, qualche giorno prima del loro rapimento-sequestro, (avviene la notte tra il 26 e 27 marzo) che ci fa intravedere la radice profonda della loro scelta, egli scrive: «Io non credo che la violenza possa estirpare la violenza. Noi non possiamo vivere da uomini se non accettando di diventare immagine dell’Amore, così come si è manifestato nel Cristo che, pur essendo giusto, ha voluto subire la sorte degli ingiusti». Pregando, rimangono in questo inferno che toglie il respiro. Vi rimangono con la speranza che «La cosa più bella ci può arrivare nel cuore del peggio». […] E con la consapevolezza che «il soggetto di questa vita spirituale a Tibhirine è lo Spirito Santo. Ciò – conclude fratel Christophe – ci dispensa da qualsiasi eroismo, se non addirittura da ogni aspirazione al martirologio». Resta comunque disponibile, per grazia dell’Amato, a consegnare la vita per la pace di tutti: «Ti domando in questo giorno la grazia di diventare servo e di dare la mia vita qui in riscatto per la pace in riscatto per la vita. Gesù attirami nella tua gioia d’amore crocifisso» (D, p. 181).
5.2. Fedeltà a Dio e ai fratelli musulmani in Algeria
La logica dell’Amato li obbliga a resistere in Algeria. L’Amato, che si è fatto Agnello, vittima, li coinvolge a guardare il popolo semplice, quotidianamente massacrato dallo scontro brutale tra il GIA e le forze dell’ordine, e a condividerne la sorte: «Bere il sangue dell’Agnello, scrive Christophe, ci pone in un campo: quello delle vittime» (D, p. 114). È richiesta dell’Amato questa, ma anche appello esplicito dei vicini. Annota fratel Christophe, nel suo diario, il 4 gennaio 1994, quello che Moussa dice a Christian: «“Se partite ci private della vostra speranza e ci togliete la nostra speranza”. (E il giorno dopo vi aggiunge) “Vieni. Noi andiamo per il nostro popolo” (Èdith Stein)» (D, p. 36). Questa responsabilità verso gli altri inchioda lui e i suoi fratelli a resistere in Algeria in una situazione drammatica. Per fratel Christophe, venire in Algeria è stato un atto di amore, un rispondere a quel primo “ti amo”. Egli nel maggio del 1995 scrive: «Venire in Algeria attraverso te è movimento d’amore infinito e preciso: va, ama questo popolo, sii il servitore del mio ti amo» (D, p. 152).
Questo stesso amore ora, lo inchioda, lo costringe a lasciarsi coinvolgere nel dinamismo dell’Amato: «La decisione impossibile, sì, l’ho presa: ricevuta da Te. / Amore che mi obbliga. / Questo è il mio corpo: dato./ Questo è il mio sangue: versato. / Avvenga di me secondo la tua parola che il tuo gesto mi pervada. / E questa decisione – la tua: mi oltrepassa infinitamente. Vicino alla Donna (tu, il Figlio nato dalla sua carne, mi autorizza a chiamarla Mamma e a prenderla con me). La mia decisione è molto semplice: io sono. Decisione più forte della morte.» (D, p. 28). In questa decisione si sente incoraggiato dalla testimonianza di fede della madre di Christian, espressa in una lettera al figlio, nel febbraio 1994, quando ancora lo choc di Natale è fresco nella comunità: «Emoziona ancora nel rileggere le parole scritte da Monique de Chergé, la madre di Christian, all’inizio della lettera: “I fiori dei campi non cambiano di posto per cercare i raggi del sole. Dio ha cura di fecondarli là dove sono”» (D, p. 62).
Ma soprattutto è la logica dell’Amato che obbliga, lui e i fratelli, a resistere in Algeria. L’Amato, che si è fatto Agnello, vittima, lo coinvolge a guardare il popolo semplice, quotidianamente massacrato dallo scontro brutale tra il GIA e l’esercito regolare, a condividerne la sorte: «Bere il sangue dell’Agnello – scrive – ci pone in un campo: quello delle vittime.» (D, p. 114). È richiesta dell’Amato questa, ma anche appello esplicito dei vicini: «Sento che questa domanda mi viene anche dai vicini, da Moussa, da Mohamed e da Alì: volete andarvene, lasciarci?» (Diario, p. 141). L’amico Mohamed gli dice esplicitamente: «Voi avete ancora una piccola porta per andarvene, noi invece no: non c’è sentiero né porta» (D, p. 33). Ancora, Mohamed gli ricorda: «L’algerino è diventato povero, molto povero. È solo. Non ha nessuno a cui rivolgersi. Il popolo è stato distrutto. Non reagisce più […] I figli? sono traumatizzati» (D, p. 57).
In questa situazione di estrema povertà e di paura del futuro, annota fratel Christophe: «Lo sguardo dei poveri fa appello all’ autorità (di Gesù) in noi. Christian diceva a M. figlio di Alì: “Sai, si è un po’ come un uccello sul ramo”. E lui risponde: “Vedi: il ramo siete voi. Noi siamo l’uccello e se si taglia il ramo”. Vi è qui un’autorità evangelica riconosciuta, che opera meglio della Legge: se voi partiste, Tibhirine sarebbe finita, si litigherà…» (D, p. 39). Con questa consapevolezza, seppure invitati dal nunzio a trasferirsi presso la nunziatura, luogo ritenuto più sicuro, Christophe annota: «Non posso immaginare di trovarci in un altro luogo all’infuori di qui. È il luogo che tu ci indichi: andiamo! Da Natale siamo in marcia: liberi di essere qui fino a prova contraria. […] I nostri vicini non ci immaginano in un luogo diverso da questo con essi. È con loro il posto per vivere la nostra vocazione monastica e scrivere qui una povera e imperfetta risposta di discepoli nella Chiesa-viva» (D, p. 93).
In una riflessione sulla speranza, in occasione della Pasqua del 1995, sempre fratel Christophe, tra l’altro scrive: «Beato chi spera in te! Tu sole, scudo di luce, di grazia, di gloria, mia luce e mia salvezza, te ne prego: il tuo volto – sul volto di ogni vivente – si illumini! (cfr. Salmo 118,135). Io… e gli altri? Io e te, questo faccia a faccia, se non riceve un’apertura, una breccia, rischia fortemente di essere solo un’illusione o una prigione. […] Nel volto (del prossimo) tu mi guardi. Straniero, prigioniero, nudo, affamato, tu fai appello alla speranza: tocca a me metterla all’opera. Spera! Rinfranca il tuo cuore! Fatti coraggio! Spera ancora! Sii forte! Ne va della vita del tuo prossimo, ferito sul bordo della strada. Forza! La speranza, collocata così a livello dello sguardo, non può più essere un’evasione. Non è consentito sognare mentre l’altro ha fame, è malato… Sperare significa credere nell’impossibile che ogni relazione autentica, giusta, in fondo attende:
– speranza del perdono (Salmo 37) e della giustizia;
– speranza di un bacio (Cantico 1,1 o Luca 15): giustizia e pace si baceranno;
– speranza di… vita!
Passare oltre, rifiutare o fuggire questo insperato che l’altro attende significa, in fondo, scegliere la morte e, peggio ancora, divenirne l’artefice (cfr. Geremia 12,4; 18,18). Aprirsi alla speranza di Dio, là, sul volto dell’altro, lasciarsi sconvolgere, disturbare, distogliere, significa cessare di sapere, entrare in quello che tu, tu sai (cfr. Geremia 29,11). La porta della speranza è la disgrazia (la valle di Akor) che si apre alla novità e mi ingiunge un comandamento nuovo, il comandamento del nuovo (cfr. Osea) di cui tu vuoi farci complici, innamorati. […] La speranza una vera fatica di giardiniere! Abita la terra e resta fedele… Chi spera nel Signore possederà la terra! Un avvenire è promesso ai pacifici (Sal 36). Avanti (en marche), operatori di pace, saranno chiamati tuoi figli!»
Per concludere
La speranza cristiana, allora non è intimistica, ma ha un aspetto di responsabilità della storia. Essa è condizione che consente al credente di inserirsi nella dinamicità degli eventi storici, di guardare in profondità gli avvenimenti e di accettare il rischio delle scelte presenti con la costante tensione al futuro. La speranza è accettazione di questo rischio con la consapevolezza che l’operare nel mondo non si perderà nella caducità della morte, ma passerà, con l’uomo, alla nuova vita. Con la sua azione il cristiano si dispone e dispone il mondo a ricevere la grazia della salvezza futura; prepara ed anticipa la definitiva manifestazione della gloria di Dio in Cristo. In questa prospettiva, la speranza diviene un atteggiamento attivo, nutrito di coraggio e di fortezza d’animo, che alimenta la resistenza nella sofferenza e la tensione nella lotta. Così il cristiano è chiamato a vivere il suo impegno nel mondo non perché rimanga quello che è, ma perché si trasformi e diventi ciò che gli è promesso che diventerà.
P. Alberto Neglia
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