Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 7
Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 7
1. Per iniziare
Come è stato possibile che dopo duemila anni di cristianesimo l’Europa sia piombata nella notte oscura di una guerra così devastante? Come è stato possibile che in questi duemila anni di cristianesimo la storia dei popoli europei sia stata tanto ricca di guerre e tanto povera di pace? Dobbiamo forse risponderci che la diplomazia e il realismo politico (quando non una colpevole complicità) sono stati più forti della spinta profetica e che il vangelo della pace non è stato annunciato. Dobbiamo forse risponderci che una teologia della pace non può limitarsi a regolare moralmente i criteri di una presunta legittimità di un intervento armato, ma proporsi come un’interpretazione globale di tutto il mistero della redenzione che si misura con la crudezza della realtà e con la sua capacità o incapacità di entrare nella storia. È questa la strada che mi sembra necessario anche oggi provare a percorrere.
Dinanzi alle stragi umanitarie non solo di questa guerra in Ucraina ma di questi ultimi decenni, occorre chiedersi se si può rifiutare in modo assoluto il ricorso ai mezzi militari, oppure pensare all’accettazione (certo molto condizionata) di una possibile legittimità dell’intervento umanitario, anche di carattere armato, per impedire che i diritti umani di una popolazione innocente siano gravemente calpestati da tiranni senza scrupoli. Questo dissidio è certamente molto interessante, nel rapporto dialettico tra due esigenze di fondo che non sempre è facile tenere insieme. Nella concezione cristiana, infatti, è estremamente chiara l’assolutezza (o piuttosto la necessaria progressiva assolutizzazione) del “non uccidere”, come precetto fondamentale del vivere sociale ma, ancor più in profondità, come fondamento stesso della moralità. Contemporaneamente, però, troviamo l’appello alla responsabilità e all’obbligo di proteggere la vita che è minacciata, in un contesto storico-culturale in cui le soluzioni nonviolente non sono ancora sempre efficaci o concretamente realizzabili.
In fondo, riuscire a risolvere questa tensione (vista la potenza distruttiva delle armi moderne, che non donano una seconda chance) è proprio l’obiettivo della riflessione etica in questo campo. Come credenti dovremmo essere animati da un vero ottimismo antropologico, che ci porta a credere che l’umanità possa progressivamente dotarsi di strumenti etici, giuridici, sociali e culturali per un abbandono definitivo di ogni ricorso alla forza armata. Anzi, il tempo verrà (o meglio dovrebbe venire) in cui tutto ciò sarà superato e lo strumento culturale e provvisorio della guerra sarà sostituito da altri mezzi che, pur non essendo perfetti, saranno oggettivamente nonviolenti o, almeno, sempre meno violenti. Ora è il tempo di cominciare a costruire seriamente questa strada di sviluppo umano, sebbene nelle nostre condizioni attuali, in fieri, non possiamo ancora escludere del tutto, almeno a priori, la legittimità di un ricorso alla forza delle armi (se autorizzato da un’autorità internazionale ed imparziale), per proteggere l’innocente o per prevenire gravi abusi nei confronti del bene comune.
La guerra è una minaccia che può essere eliminata dal mondo degli uomini; il diritto alla legittima difesa armata, però, non può essere messo radicalmente in discussione, nemmeno dal punto di vista teorico. Il concilio Vaticano II, il 7 dicembre 1965, promulgando la costituzione pastorale Gaudium et spes, riconosceva che era giunto il tempo di guardare ai temi della guerra e della pace in modo rinnovato. Dopo le due grandi guerre che avevano sconvolto il mondo nella prima metà del secolo XX, e i paesi cristiani dell’Europa in modo particolare, e il clima gelido della “guerra fredda” che ad esse era seguito e nel quale ci si trovava immersi, una presa di coscienza e un cambio di rotta nelle comunità cristiane non era ulteriormente rinviabile.
Devono necessariamente far riflettere i giusti rilievi critici che, portati da parte di diversi storici, accusano la Chiesa e il cristianesimo di non aver cambiato niente nella storia del problema di fondo della guerra. Anzi, l’analisi storica dimostra con un’evidenza quasi sconsolante che il tema della pace è penetrato nella cristianità generalmente sotto il segno del suo contrario: ossia, a causa dell’esigenza di dare legittimità alla guerra giusta, se non addirittura santa. In Europa, anche dopo il trionfo della civiltà cristiana, ci sono state guerre come in tutte le altre parti del mondo. La Chiesa non ha sentito come una sua priorità quella di assumersi la responsabilità storica di una missione di pace.
2. Uno sguardo alla storia
Se vogliamo schematizzare il modo in cui nella riflessione cristiana si sono affrontati i temi delicati della guerra e della pace possiamo disegnare tre periodi ponendo le affermazioni nuove di GS come confine tra il secondo e il terzo e la svolta costantiniana tra il primo e il secondo.
a) La prima tappa di questo percorso fino a Costantino, o ancor più precisamente fino al decreto di Teodosio del 416, è segnata da un’incompatibilità pratica e vissuta tra professione cristiana e vita militare, ma al contempo da un’assenza di una vera e propria riflessione sulla pace. Se, almeno sino alla fine del secondo secolo, sembra essere prevalente nelle comunità cristiane la tensione verso un pacifismo radicale connotato da un obbligo alla non-violenza e dal divieto assoluto di esercitare la professione militare, quando poi aumenterà il numero dei soldati convertiti, si concederà loro di non abbandonare l’esercito a patto però che non uccidano per nessun motivo.
Il punto prospettico dal quale i cristiani dei primi secoli guardano alla pace ha un timbro chiaramente escatologico e poco interessato ad un impegno reale nella storia per la risoluzione dei conflitti: la missione della Chiesa è realizzare il Regno messianico di Dio annunciato dai profeti, un regno dove domina la pace, è invece compito dell’impero gestire politicamente la realtà terrena. In fondo potremmo dire che la Chiesa, in questo primo momento, si chiama fuori dal dovere di difendere l’impero attraverso le armi, ma non condanna esplicitamente la guerra, lascia solamente che siano i pagani a farla e non si pone neppure profeticamente a tentare giudizi sulla conduzione politica della res publica. Dunque in questo primo periodo i cristiani non fanno la guerra, ma non elaborano neppure una teologia della pace, cercano unicamente, chiusi nelle loro dimensioni spirituali, escatologiche ed individuali, di restare fedeli al precetto evangelico del non uccidere.
b) Chiaramente le cose dovranno cambiare quando con Costantino tutto l’impero diventerà cristiano: adesso non ci si può più esimere dal dovere di pensare alla sicurezza dello Stato, non ci sono più altri cui lasciarla e così la Chiesa sposa la pace 3 imperiale fatta e difesa con le armi. Gli unici che saranno dispensati dalle armi saranno il clero e i religiosi. E qui forse troviamo l’origine del fossato di separazione tra clero e laicato. Il legame stretto che nasce tra Chiesa ed impero impone un nuovo modo di guardare alla guerra, ma come giustificare un esercito cristiano? La carica profetica delle beatitudini evangeliche è sacrificata al realismo politico attraverso l’elaborazione della teoria della guerra giusta, una teoria che è sempre servita a giustificare le guerre e mai a condannarle.
La riflessione che marcherà maggiormente il pensiero cristiano sarà quella di s. Agostino (i passi più importanti sono Contra Faustum, XXII, 74-78; Quaestiones in Heptateuchum, IV; VI e soprattutto De Civitate Dei, XV, 4; XIX, 7. 12-13) che troverà una sua sistemazione giuridica nel Decretum Gratiani (pars II, causa XXIII) e una teologica in s. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae II-II, q. 40). S. Agostino elabora la dottrina della guerra giusta con l’obiettivo non di legittimare la guerra, ma di porre dei limiti alla possibilità di dichiararla (jus ad bellum), fissando tre condizioni: la giusta causa, la retta intenzione, la legittima autorità. La Scolastica e in particolare S. Tommaso d’Aquino riprenderanno le posizioni di Agostino, aggiungendo altri due criteri: la ultima ratio (solo dopo aver esperito tutti i tentativi di trovare soluzioni per via diplomatica) e il debitus modus, che riguarda lo jus in bello (uso dei mezzi legittimi e protezione dei civili).
c) In epoca moderna c’è la piena formulazione della dottrina della guerra giusta, favorita dalla nascita degli stati assoluti che rivendicano il monopolio della forza (basta faide private), dalla ripresa della distinzione tra il diritto di fare la guerra e la condotta da tenere in occasione della guerra, dal recupero del diritto di legittima difesa allargandolo dalla sfera individuale a quella comunitaria o sociale: licet vim vi repellere. Le novità sono significative: il concetto di guerra giusta non è più elaborato per porre dei limiti alla guerra ma per legittimarla pienamente; il criterio fondamentale di legittimazione della guerra non è più quello oggettivo della giusta causa ma quello soggettivo della legittima autorità (assolutismo). È chiaro che tra queste maglie così larghe riusciranno a passare e a trovare legittimità tutte le guerre. Escluse alcune eccezioni – sopra tutti Bartolomeo De Las Casas ed Erasmo da Rotterdam – la riflessione cristiana sulla pace sarà dominata e monopolizzata fino al secolo scorso da una ripetizione pedissequa, arida e manualistica dei principi della guerra giusta, relegando il tema della pace in qualche pagina del grande trattato sulla giustizia, incapace di rendere il biblico non uccidere una chiara scelta esistenziale.
d) Ci vorranno gli sconvolgimenti e i drammi delle due guerre mondiali per rimettere in movimento un pensare cristiano sulla pace. Era in effetti ben difficile rimanere fermi su queste posizioni di fronte all’escalation della potenza distruttiva delle armi nel secolo XX, alle guerre che non sono più degli eserciti ma che colpiscono direttamente la popolazione civile, di fronte ai bombardamenti indiscriminati sulle città. Iniziative contro la teoria ormai indifendibile della guerra giusta furono prese da un gruppo di sei autori cattolici nel 1928 tra i quali anche il nostro don Luigi Sturzo. Purtroppo questi primi, timidi, tentativi di un nuovo approccio al problema della guerra e della pace non riusciranno a lasciare delle tracce nei manuali di teologia ancora 4 troppo saldamente legati ai vecchi schemi e nemmeno (ma come poteva essere altrimenti) impediranno alle nazioni cristiane di impegnarsi in quella spaventosa guerra fratricida che fu il secondo conflitto mondiale.
e) Riflessioni nuove sono maturate nell’ambito della Chiesa cattolica soprattutto a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963), che rifiuta ogni tipo di guerra in quanto «contraria alla ragione». Questo superamento della tradizionale dottrina della guerra giusta si basa su motivazioni razionali (l’enciclica è rivolta a tutti gli uomini di buona volontà) quali la presenza nel nostro tempo di armi micidiali, come l’atomica, che hanno il potere sconvolgente di distruggere l’intera umanità (l’enciclica nasce nel contesto della famosa crisi dei missili di Cuba). Successivamente nella Gaudium et spes, da dove siamo partiti, sempre all’interno del superamento della dottrina della guerra giusta, si ricupera il principio della legittima difesa anche a livello collettivo come strumento per far fronte a situazioni critiche, nella piena salvaguardia del criterio di proporzionalità. Di qui si apre la strada ad interventi di ingerenza umanitaria o di polizia internazionale.
Giovanni Paolo II ha ribadito più volte con grande fermezza il no alla guerra, pur riconoscendo l’esigenza di intervenire per evitare il dilagare di mali maggiori, come la tortura di massa, l’eliminazione di interi gruppi etnici, le violenze efferate contro donne e bambini. In certe situazioni è obbligo fare ricorso alla forza come male minore, sviluppando «azioni circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello sopranazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi».
3. Pace e discernimento
L’abbandono della dottrina della guerra giusta e della deterrenza non significa rifiuto totale all’uso della forza, se questo è necessario per impedire il genocidio o la persecuzione di massa, come il conflitto dei Balcani ci ha mostrato. È nata così la dottrina della ingerenza umanitaria e degli interventi di polizia internazionale, il cui scopo è quello di dare soccorso alle vittime dell’aggressione mediante il coinvolgimento della comunità internazionale. Non si tratta di reintrodurre la dottrina della guerra giusta, infatti il fine perseguito è quello di arrestare un processo di grave violenza, con un’azione circoscritta destinata solo a disarmare l’aggressore. La legittimità di tali forme di intervento è legata al verificarsi di alcune condizioni, quali l’imparzialità, la volontà di promuovere una vera de-escalation della violenza e della guerra e la prudenza nell’uso delle armi.
Per questo la loro plausibilità è tale solo in presenza di situazioni estreme, nelle quali l’uso coercitivo della forza è reso necessario sia dal fallimento registrato sul terreno della trattativa politica sia dalla considerazione che gli effetti negativi del mancato intervento risulterebbero più gravi di quelli prodotti dall’intervento stesso; o ancora per questo è necessario come garanzia di imparzialità il controllo delle grandi organizzazioni internazionali (oggi in particolare all’ONU) in grado di valutare oggettivamente (al di fuori e al di sopra di interessi particolaristici) l’opportunità (o la necessità) di intervenire. Il modello al quale la politica deve, anche in questo caso, ispirare la propria condotta è il modello di un’etica della responsabilità, basata sulla verifica delle conseguenze, cioè sul bilancio degli effetti positivi e negativi delle azioni. L’uso della violenza è reso possibile solo a seguito di un giudizio formulato in termini di male minore.
La politica non può infatti lasciarsi guidare dalle sole buone intenzioni o ridursi a una astratta proclamazione dei principi; deve avere come obiettivo la ricerca del possibile e saper correre, in alcuni casi – quando si è di fronte a situazioni drammatiche –, anche il rischio di sbagliare intervenendo piuttosto che evitando di intervenire per non sbagliare. Del tema della guerra si occupa anche l’ultima enciclica sociale, Fratelli tutti (FT), in particolare ai paragrafi dal 256 al 262 del settimo capitolo dedicato ai percorsi di pace per un nuovo incontro. Nel testo il Papa la associa alla pena di morte come esempio di false risposte che non risolvono i problemi che pretendono di superare e non fanno che aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto sociale. Si tratta di affermazioni che dichiarano l’inammissibilità della teoria della guerra giusta. Sono paragrafi che riprendono l’insegnamento che si è sviluppato soprattutto nel post-Concilio.
La grande novità dell’insegnamento di Papa Francesco su questi temi è quella contenuta in un discorso pronunciato nel suo viaggio in Giappone quando disse, nei luoghi dove furono sganciate le bombe atomiche nel 1945, che anche il solo possesso di armi nucleari a scopo deterrente è già immorale. Ecco perché al numero 258 il Papa arriva ad affermare che oggi «è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile guerra giusta». Quindi non è tanto la dottrina che è cambiata, ma la dottrina stessa che ha dichiarato la propria fine proprio in virtù di quei criteri che le servivano per giustificare la regolamentazione della violenza. Pensando a tali dimensioni distruttive, più o meno presenti in ogni guerra, ma soprattutto nei conflitti armati dei nostri giorni, già il titolo del paragrafo che FT dedica al tema della guerra (nn. 256-262) rappresenta un messaggio forte e pone quest’ultima sotto il segno di un sostantivo inquietante: l’ingiustizia!
4. Come costruire percorsi di pace
Non è possibile però limitarsi a ribadire delle affermazioni di principio. E questo perché la pace, prima che responsabilità e impegno di ognuno e dell’intera comunità, è dono e possibilità nuova anticipata dallo Spirito: va accolta con gioia fiduciosa in modo da plasmare la mentalità e porsi come criterio di discernimento a tutti i livelli. Credo che sia responsabilità di ognuno fare che tutto questo si affermi in maniera più chiara. Occorre un sentire sociale nuovo, che rifiuti di legittimare atteggiamenti e prassi ispirati alla contrapposizione e alla violenza: da quelli presenti nel linguaggio e nei comportamenti quotidiani a quelli riguardanti i rapporti tra gruppi e nazioni. È illusorio pensare di poter dire un convinto e costruttivo no alla guerra quando gli stili di vita non si lasciano plasmare dalla logica della reciprocità, del dialogo, del camminare insieme.
Ogni guerra nasce da un’ingiustizia, ogni guerra, comprese quelle che a volte si fanno nelle nostre famiglie e comunità, che si combattono o che si fanno in silenzio, anche quelle nascono dall’ingiustizia. È triste vedere che l’umanità non riesce a essere capace di pensare con schemi e progetti di pace. Tutti pensiamo con schemi di guerra. È il cainismo esistenziale. La fratellanza di tutti – è di tutti – e non si concretizza in schemi che trasformino la vita delle famiglie, comunità, popoli, nazioni e del mondo. Come tutti i valori, anche la non violenza, per essere effettivamente efficace, deve diventare discernimento, cogliendo con fiducia i passi possibili. Dovrà essere espressione di dialogo e di confronto sincero. Le vie di uscita dall’ingiustizia della guerra sono faticose e richiamano a capovolgimenti di condotte individuali e di pratiche politiche. In questo senso esse possono generare nuova umanità. FT indica la strada dell’empatia, quando dice «prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi» (n. 261).
Tenere gli occhi aperti sul dolore degli altri porta fuori dall’ingiustizia abissale della guerra, perché ne assume le conseguenze e determina la volontà di mai più ricorrere ad essa. E poi c’è la via dei negoziati, espressione di una attitudine a «pensare e generare un mondo aperto» (FT, n. 87), di cui «la migliore politica» (FT, n. 154) deve sapersi fare carico. La pace, inoltre, è sempre un processo. Il messaggio del Papa per la giornata della pace di quest’anno 2023 prende l’avvio dalla beatitudine: «Beati i facitori di pace perché saranno chiamati figli di Dio». E il Papa aggiunge subito che le beatitudini non sono solo un premio nell’altra vita, non si raggiungono solo salendo in Cielo o aspettando che il Cielo scenda sulla terra. Le beatitudini, scrive il Papa, sono «dono messianico e opera umana ad un tempo». Il che vuol dire che il Regno di Dio può essere preparato anche partendo da questa terra e che questo mondo non è condannato ad essere solo il regno del male per sempre.
Già Benedetto XVI diceva che «la pace è possibile» e che si può già essere chiamati figli Dio anche dentro la storia umana. A condizione che si sia capaci di cambiare molta parte del modo di pensare, di vivere, di considerare la società e di organizzare l’economia del mondo di oggi si può raggiungere la pace. Anche Gandhi sosteneva che nemmeno il non violento poteva diventare tale dall’oggi al domani. Anche lui aveva bisogno di una conversione globale, di un addestramento più lungo e di un eroismo più rigoroso e generoso di quello del guerriero. «L’operatore di pace – scrive il Papa – e colui che cerca il bene degli altri» e «l’etica della pace è etica della comunione e della condivisione». Si potrebbe riassumere il messaggio del Papa dicendo che è scritto in prima persona plurale con la logica del noi anziché dell’io.
5. Per concludere
Nei giorni scorsi ho rivisto la fantastica trilogia de Il signore degli anelli, ispirato dalla famosa opera letteraria di Tolkien. Ad un certo punto della storia, Frodo, l’hobbit della Contea, che si trova a vivere un momento delicato e drammatico della sua missione, esclama: «Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai mei giorni». Frodo viveva tranquillo e sereno nella sua terra e si ritrova invece al centro di eventi foschi e tenebrosi. Un po’ come noi oggi. A Frodo risponde un altro dei protagonisti della storia, Gandalf: «Anch’io avrei desiderato, come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato». Vivere il tempo che ci è dato, questo tempo, operando concretamente a favore della pace. Seminatori, artigiani, testimoni di pace e speranza. È giunta l’ora, a conclusione, di far risuonare la campana della speranza. E custodire questa bambina, così la chiama il grande scrittore Charles Péguy, nato centocinquant’anni fa, la speranza bambina, la più piccola delle tre, più anziane, la fede e la carità. È bambina, la speranza, e dunque va custodita e va sostenuta nel suo camminare. Ma come sostenerla?
Penso che abbiamo bisogno di più poesia oggi. Necessitiamo di immagini che allungano le braccia, spalancano gli occhi, rigenerano il respiro nei polmoni. Immagini che facciano pensare, riattivino il battito perduto del cuore. Quelli che si occupano del bene comune, tutti coloro che fanno politica dovrebbero leggere poesia. Leggere i poeti almeno due volte al giorno prima di parlare dei problemi del paese. Perché prima di decidere se tagliare gli alberi, se asfaltare una strada, se mettere un’improbabile segnaletica, come fare una scuola, come costruire le case e perfino i cimiteri, si possano imparare parole nuove. Soprattutto quando si parla delle persone, della loro dignità, dei loro diritti. In tutte le piazze dei nostri paesi e città dovrebbero esserci insieme ai distributori di acqua i distributori di poesia. E per questo vi lascio con la Poesia per la pace di Gianni Rodari:
Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
e orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra
per esempio, la guerra.
Don Vittorio Rocca
Mercoledì della Bibbia 2023, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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