Non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo

Lettera apostolica “Sublimitas et miseria hominis” di Papa Francesco nel IV centenario della nascita di Blaise Pascal.

«Quattro secoli dopo la sua nascita, Pascal rimane per noi il compagno di strada che accompagna la nostra ricerca della vera felicità e, secondo il dono della fede, il nostro riconoscimento umile e gioioso del Signore morto e risorto». È con queste parole che Papa Francesco ricorda la grande figura di Blaise Pascal, nato il 19 giugno 1623, e lo fa in una lettera apostolica intitolata Sublimitas et miseria hominis. La grandezza e la miseria dell’uomo formano il paradosso che sta al centro della riflessione del matematico, filosofo e teologo francese, cercatore di verità con la ragione e lo spirito in un’epoca di crescente scetticismo religioso. Il suo atteggiamento di stupita apertura alla realtà lo ha portato, in punto di morte a soli trentanove anni, a dire: «Se i medici dicono il vero, e Dio permette che mi rialzi da questa malattia, sono deciso a non avere alcun altro impiego né altra occupazione per tutto il resto della mia vita che il servizio ai poveri». Nei suoi ultimi giorni, tra tutti i suoi pensieri l’urgenza era quella di mettere a disposizione le sue energie nelle opere di misericordia: «L’unico oggetto della Scrittura è la carità».

Sono molte le cose che un cristiano può imparare dalla vita e dai pensieri di Pascal. Innanzitutto, dobbiamo ricordarci che «non solo non conosciamo Dio se non tramite Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo. […] Così senza la Scrittura, che ha per unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solo oscurità», cita il pontefice. Per avanzare nel buio del mondo, però, occorre tenersi lontani dalla tentazione di brandire la fede come una certezza incontestabile, da imporre a tutti, perché al di fuori della prospettiva dell’amore non c’è verità che valga: «Ci si fa un idolo persino della verità stessa, perché la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare». Per questo, nonostante la certezza della fede, l’evangelizzazione va fatta con rispetto e pazienza radicandola nella realtà (niente è più pericoloso di un pensiero disincarnato), attendendo che Dio la doni a chi non la possiede mediante il sentimento del cuore.

Nel racconto di una sua intensa esperienza mistica, conosciuta come “Notte di fuoco”, Pascal sembra riconoscere un’analogia con l’incontro vissuto da Mosè davanti al roveto ardente. Egli riprende il titolo che il Signore si era dato davanti a Mosè, «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» (Es 3,6.15), aggiungendo: «non dei filosofi e dei sapienti. […] Dio di Gesù Cristo». Il Signore non è un’entità astratta, cosmica, ma è il Dio di una persona, di una chiamata, il Dio che è certezza, sentimento, gioia. La fede in Lui, continua il Papa seguendo il suo pensiero, è profondamente attaccata alla ragione, sia perché la mente non può essere costretta a credere a ciò che sa essere falso, sia perché, se si urtano i principi della ragione, la religione diventa assurda. Ma, se la fede è ragionevole, è anche un dono di Dio e non potrebbe imporsi, come ha testimoniato Gesù proponendola con amore e non con la forza. Essa, dunque, supera infinitamente la ragione: «la fede è diversa dalla prova. L’una è umana, l’altra è un dono di Dio».

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