Il Signore lo possiamo riconoscere nel volto di poveri, abbandonati e stranieri

Omelia di Papa Francesco alla messa nell’anniversario della sua visita a Lampedusa nel 2013.

«La ricerca del volto di Dio è garanzia del buon esito del nostro viaggio attraverso questo mondo, che è un esodo verso la vera Terra Promessa, la Patria celeste. […] Il popolo d’Israele, descritto dal profeta Osea nella prima Lettura (cfr 10,1-3.7-8.12), all’epoca era un popolo smarrito, che aveva perso di vista la Terra Promessa e vagava nel deserto dell’iniquità. La prosperità e l’abbondante ricchezza avevano allontanato il cuore degli Israeliti dal Signore e l’avevano riempito di falsità e di ingiustizia. Si tratta di un peccato da cui anche noi, cristiani di oggi, non siamo immuni. […] L’appello di Osea ci raggiunge oggi come un rinnovato invito alla conversione, a volgere i nostri occhi al Signore per scorgere il suo volto.»

Lo ha detto Papa Francesco questa mattina nella cappella di Casa Santa Marta, dove ha celebrato una messa nell’anniversario della sua visita a Lampedusa nel 2013. Questa ricerca del volto di Dio è motivata da un desiderio di incontro personale con il Signore e la sua potenza che salva. Gli apostoli hanno avuto la grazia di incontrarlo fisicamente in Gesù, che li ha chiamati per nome guardandoli negli occhi. Questo incontro personale con Gesù è possibile anche per noi se lo riconosciamo nel volto dei poveri, degli ammalati, degli abbandonati e degli stranieri sul nostro cammino. Solo così l’incontro diventa anche tempo di grazia e di salvezza. Poi, il pontefice ricorda un episodio della sua visita a Lampedusa, da ascoltare pensando al monito sempre attuale “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40), che dovremmo usare tutti come punto fondamentale del nostro esame di coscienza.

«Ricordo quel giorno […]. Alcuni mi raccontavano le proprie storie, quanto avevano sofferto per arrivare lì. E c’erano degli interpreti. Uno raccontava cose terribili nella sua lingua, e l’interprete sembrava tradurre bene; ma questo parlava tanto e la traduzione era breve. “Mah – pensai – si vede che questa lingua per esprimersi ha dei giri più lunghi”. Quando sono tornato a casa, il pomeriggio, nella reception, c’era una […] che era figlia di etiopi. Capiva la lingua e aveva guardato alla tv l’incontro. E mi ha detto questo: “Senta, quello che il traduttore etiope Le ha detto non è nemmeno la quarta parte delle torture, delle sofferenze, che hanno vissuto loro”. Mi hanno dato la versione distillata. Questo succede oggi con la Libia […]. La guerra, sì, è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare.»

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