La natalità, così come l’accoglienza, ci rivelano quanta felicità c’è nella società

Discorso di Papa Francesco agli Stati generali della natalità.

A un’udienza del mercoledì, una signora ha chiesto a Papa Francesco di benedire il proprio bambino, che poi si è rivelato essere un cagnolino. Il pontefice non ha avuto pazienza e l’ha sgridata, ricordandole i tanti bambini che hanno fame. Il racconto di questo fatto gli è servito per introdurre il suo discorso di ieri ai partecipanti alla terza edizione degli Stati generali della natalità, tenutisi a Roma e promossi dal Forum delle associazioni familiari e da Fondazione per la natalità. Infatti, mentre ci sono abitudini come questa, lo scorso anno in Italia a fronte di 713.499 persone morte ne sono nate appena 392.598. Se ne nascono così poche vuol dire che non c’è molta speranza, perché la nascita di figli è l’indicatore principale per misurare il futuro di un popolo. Oggi, poi, procreare appare come un’impresa a carico delle famiglie, soprattutto quelle giovani condizionate dall’incertezza, dalla disillusione e dalla paura. Sentirsi soli e costretti a contare esclusivamente sulle proprie forze è pericoloso, perché questo toglie la condivisione di un valore ed erode il vivere comune.

In questo tempo di guerre, pandemie, migrazioni e crisi climatiche, ha proseguito il Papa, il futuro è incerto e le certezze acquisite passano in fretta. Tra difficoltà a trovare un lavoro stabile e salari insufficienti, le nuove generazioni sperimentano più di tutti la sensazione di precarietà. Se da questa crisi vogliamo uscirne migliori, occorre che la politica e il mondo delle imprese diventino amiche della famiglia, correggendo le disuguaglianze del mercato libero che colpiscono soprattutto le donne. Solo insieme ci si può lasciare alle spalle questo inverno demografico. E cambiando mentalità: a quelle madri che si lamentano che il proprio figlio rimane a casa e non si sposa, Francesco risponde: “Non stiri le camicie, signora. Incominciamo così, poi vediamo”.

«Non possiamo accettare che la nostra società smetta di essere generativa e degeneri nella tristezza. Quando non c’è generatività viene la tristezza. È un malessere brutto, grigio. Non possiamo accettare passivamente che tanti giovani fatichino a concretizzare il loro sogno familiare e siano costretti ad abbassare l’asticella del desiderio, accontentandosi di surrogati privati e mediocri: fare soldi, puntare alla carriera, viaggiare, custodire gelosamente il tempo libero… Tutte cose buone e giuste quando rientrano in un progetto generativo più grande, che dona vita attorno a sé e dopo di sé; se invece rimangono solo aspirazioni individuali, inaridiscono nell’egoismo e portano a quella stanchezza interiore. Ridiamo fiato ai desideri di felicità dei giovani!».

La sfida della natalità è questione di speranza, dice Francesco, ma non nel senso di ottimismo, di un vago sentimento positivo sull’avvenire, bensì di virtù concreta, di atteggiamento di vita. Per questo serve che ognuno si impegni per il bene comune, che ognuno sia partecipe e coinvolto nel dare senso alla propria vita e a quella degli altri. Alimentare la speranza è dunque un’azione sociale, perché i figli non sono beni individuali, sono persone che contribuiscono alla crescita di tutti apportando ricchezza umana e generazionale.

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