La dimensione fondante e decisiva non è la concessione all’uomo di una facoltà autonoma, ma il dono divino.
La dimensione fondante e decisiva non è la concessione all’uomo di una facoltà autonoma, ma il dono divino.
Nel Nuovo Testamento, sia Giovanni che Paolo quando parlano di figli di Dio lo fanno in riferimento al Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ad esempio, il primo scrive che il Verbo «venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,11-12), il secondo «Tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù» (Gal 3,26). Nel commentare la frase del quarto evangelista sul blog Alzo gli occhi verso il cielo, il monaco di Bose Luciano Manicardi ha sottolineato come la dimensione fondante e decisiva non sia la concessione all’uomo di una facoltà autonoma, ma il dono divino.
Per il credente, aggiunge, il divenire figli del Signore consiste in un cammino fondato sul dinamismo della fede e sul decentramento da sé, per continuare a fissare lo sguardo su Gesù che orienta al Padre: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Questa condizione è destinata a tutti gli esseri umani e accessibile a tutta l’umanità, ma è riconosciuta e testimoniata in quelle persone che di questo dono fanno la loro responsabilità, orientando sé stessi verso la somiglianza con l’uomo Gesù, colui che ha pienamente vissuto la figliolanza divina.
L’essere figli di Dio è poi legato a una delle novità cristiane più radicali, l’amore per i nemici: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44-45 e Lc 6,35). Questo amore è lo sviluppo dell’umano che è nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e, scrive Manicardi, proprio la responsabilità fondamentale del credente è divenire umano. Con la creazione l’immagine divina è posta nell’uomo, ma saranno gli umani a dover raggiungerne la somiglianza con la fatica della relazione. Il compito di uomini e donne è dunque rendersi simili all’immagine che essi portano in sé stessi.
L’orizzonte è quello del giorno della salvezza, che però nemmeno il Figlio stesso di Dio conosce: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32). Quindi, il credente deve accettare umilmente la salvifica ignoranza circa l’al di là e la salvezza eterna, deve accettare che nel giudizio finale tutti saranno spiazzati e contraddetti nelle loro convinzioni (Mt 25,31-46). La responsabilità dei credenti di essere umani si spinge dunque fino alla morte. Poi, il lavoro spetta a Dio.
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