Un percorso all’interno del Libro dei Salmi, per un cammino di maturità umana e di fede. Salmi da 90 a 106.
Un percorso all’interno del Libro dei Salmi, per un cammino di maturità umana e di fede. Salmi da 90 a 106.
Questa sera ci fermeremo a riflettere sul quarto libretto dei Salmi che comprende quelli che vanno dal Sal 90 al Sal 106. È bene ricordare che i Salmi ci propongono un itinerario spirituale che è lungo e impegnativo e impegna l’uomo in tutte le manifestazioni del suo vissuto. Questo cammino, nel quale siamo coinvolti dallo Spirito del Risorto, dura tutta la vita, conduce ad «essere rafforzati dallo Spirito nell’uomo interiore» (Ef 3,16), fa del nostro corpo il tempio dello Spirito (cf. 1Cor 6,19) e ci rende presenti, in modo maturo e responsabile, nel mondo e nella storia. Ripeto è un cammino impegnativo e richiede il coraggio, prima di tutto, di lottare contro il proprio “io” eccentrico, di sottrarsi alle mode, ma anche di andare incontro all’impopolarità e di sapersi conciliare con momenti difficili, bui, con una certa solitudine e con i propri limiti. Proprio per questo nel cammino spirituale si ha bisogno di essere nutriti e sostenuti soprattutto dalla parola di Dio, dalla preghiera e dal silenzio.
1. Per uscire dalla crisi: insegnaci a contare i nostri giorni
Il quarto libretto dei Salmi ci vuole accompagnare per uscire dalla crisi evidenziata nel terzo libretto, e ci ricorda che tre fattori fanno progredire la nostra vita spirituale: la grazia di Dio, la nostra volontà e il tempo. Questo quarto libretto inizia col Sal 90, proposto come: Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio. Questo salmo è una riflessione sapienziale sul tempo della vita umana, per dirci che essa è breve, dura settanta o al massimo ottant’anni: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via» (Sal 90,10). La sapienza ha qualcosa a che fare con l’età, con il crescere degli anni e con la capacità di assumere l’invecchiamento: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90,12). Saggezza, sapienza è anche capacità di accettare che il “tempo” non sia sempre uguale a sé stesso, che vi siano tempi diversi, non tutti ugualmente felici.
Perciò, la prima indicazione che ci viene offerta per uscire dalla crisi è molto terra terra: ci vuole tempo. L’atteggiamento sapienziale richiesto all’uomo è dunque anzitutto quello dell’accettazione radicale della temporalità, e, nella consapevolezza del proprio limite, quello del lasciarsi plasmare quotidianamente dall’abbraccio di Dio: «Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (v. 14). Una seconda indicazione, più profonda ci viene dal Sal 91. Il salmo si apre con un’introduzione, nei primi due versetti, poi c’è il discorso del maestro (Mosè), dal versetto 3 fino al versetto 13, e poi, nei versetti 14-16, troviamo l’oracolo del Signore. È la voce stessa di Dio che interviene. L’orante è, per lo più in silenzio. Anche questo è un modo di essere oranti: tacere ed ascoltare.
Il salmo è una benedizione per chi cerca rifugio nel nel segreto dell’Altissimo, una parola straordinaria di assistenza e di consolazione. Questo non vuol dire che al credente non capiterà nessuna disgrazia. La vita umana è costantemente esposta a pericoli di ogni tipo, e lo specifico del salmo 91 sta proprio nell’essere il canto contro gli incontri cattivi e le piaghe diaboliche. Ma, il salmo ci ricorda: nel pericolo, nella disgrazia non sei solo, il Signore nella sua misericordia ti accompagna. Questa sua presenza è espressa con una serie di verbi che evidenziano la presenza paterna e materna di Dio: mettere in salvo, innalzare al sicuro, rispondere, liberare, glorificare, saziare con lunghi giorni, far vedere la salvezza. Insomma, una pienezza di vita, che trova la sua cifra riassuntiva nella splendida espressione, priva di verbo, collocata al centro di questa lista: «Con lui io nell’angoscia (sventura)». Sì, Dio è Emmanuele, Dio con noi (cf Is 7,17; Mt 1,23), è il Nome più quotidiano del Dio rivelatoci dalle Scritture: sempre, ogni giorno, ogni ora, soprattutto nell’ora dell’angoscia, lui con noi (cf. Sal 4,2; 20,2; 50,15).
Il Signore è sempre con la creatura umana, anche nella sventura. È per questo che l’uomo non sarà risparmiato dalle difficoltà, dall’angoscia, ma sarà liberato, e anzi glorificato. «Immo anokhi be-zarah (con lui io [sono] nella sventura)» (“sventura” è termine che serve a indicare tutte le reali o possibili tribolazioni, le strettoie, le angustie, le difficoltà) vuol dire che il Signore non ci abbandona mai, neppure nell’angoscia, ovvero che lui stesso prende su di sé la nostra angoscia. La crisi ha scavato l’uomo, probabilmente lo ha anche ferito, ma gli ha dato una maggiore profondità di sguardo nel mistero della compassione di Dio. Nei Vangeli, poi, diventa evidente ciò che è proclamato nel salmo: Dio prende la nostra carne, in Gesù entra nella nostra debolezza e cammina con noi. Al Giordano Gesù dà inizio alla sua missione pubblica e lo fa in modo molto umile: mettendosi in fila con i peccatori, lui che non aveva peccato. E proprio qui il Padre lo accredita: «Questi è il figlio mio, l’amato, in cui mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Poi, dai vangeli traspare in filigrana l’immagine di Gesù uomo della strada (cf Mc l0), che va incontro a ogni uomo con uno sguardo ricco di misericordia, di compassione.
2. Salmo 103: misericordioso e pietoso è il Signore
Tenendo conto di queste premesse presenti in questi salmi, e dell’esperienza che fa chi prega e accoglie il Signore, desidero fare alcune considerazione a partire dal Sal 103, splendido inno all’amore misericordioso di Dio, pervaso da altissima e intensa spiritualità. Il salmo si apre e si chiude con una splendida benedizione, considerata una perla del Salterio: «Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici» (Sal 103,1-2). Mentre la prima benedizione è personale, poi, si chiude con una benedizione corale-cosmica (vv. 20-22): «Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri, che eseguite la sua volontà. Benedite il Signore, voi tutte opere sue, in tutti i luoghi del suo dominio. Benedici il Signore, anima mia».
Chi prega qui sta lodando e ringraziando il Signore e questa lode è chiamata benedizione. Abitualmente la benedizione si chiede a Dio e attraverso la sua benedizione l’uomo ottiene la forza di Dio che gli assicura la felicità, il benessere. La storia dei patriarchi, nella Bibbia è frutto della benedizione di Dio. Qui è l’orante che dice: «Benedici il Signore anima mia», ed esprime il desiderio di proclamare la sconfinata generosità di Dio che si effonde sull’umanità, sulla storia e sull’universo, dando un respiro nuovo a tutti. La preghiera, quindi si apre in un clima di ottimismo, di riconoscenza e di felicità. Il «Dio è amore» della Prima Lettera di Giovanni (4,8) sembra quasi anticipato in questa benedizione. All’interno di queste due benedizioni, sono presenti e si fondono in armonia nel Salmo, il canto gioioso di ringraziamento perché Dio è misericordioso, e la riflessione, meditazione sapienziale sulla fragilità e la caducità umana circondata sempre dalla misericordia di Dio. Il salmo infatti possiamo divederlo in due parti. Nella prima (vv. 3-10) si esaltano l’amore e il perdono di Dio. Nella seconda (vv. 11-19) si evidenzia il rapporto tra amore eterno di Dio e fragilità umana. Il volto del Signore qui tratteggiato è quello della tenerezza, della misericordia, della pietà. È un dolce canto dell’amore e del perdono.
a) Prima parte: l’amore e il perdono di Dio
Il volto del Signore qui tratteggiato è quello della tenerezza, della misericordia, della pietà. È un dolce canto dell’amore e del perdono. Inizia coinvolgendo l’anima, non solo le labbra, a benedire il Signore.
«Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici» (1-2). «Anima mia» vuole dire: il desiderio di vita che abbiamo nel cuore. «Quanto è in me», vuole dire: i pensieri, i sentimenti, le emozioni, i desideri, le decisioni… tutto quanto abbiamo dentro di noi, il nostro mondo interiore, deve «benedire il Signore» e «il suo santo nome». Il nome è, in qualche modo, “il volto di Dio” che abbiamo imparato a sperimentare (cfr. Sal 27). Come quello di un amico che conosciamo.
«Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici». I benefici vengono descritti nei seguenti versetti 3-5. È un invito a ricordare tutto ciò che Dio ha fatto e fa per noi (i verbi che seguono sono participi presente). Il non dimenticare, il raccontare quello che Dio ha fatto per noi, è uno dei comandamenti fondamentali dell’esperienza d’Israele: «non dimenticare» (Dt 9,7), «guardati dal dimenticare» (Dt 6,12), «il Signore ha compiuto meraviglie» (Sal 136,4), «il Signore ha operato la salvezza» (Sal 74,12)…; ricorda quello che tu hai conosciuto e sperimentato e scrivilo, imprimilo e incidilo dentro al tuo cuore: «non dimenticare tanti suoi benefici». Quali sono questi benefici? Ecco:
«Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità» (v. 3). L’enumerazione dei benefici parte dalla grazia fondamentale, dal dono più sconvolgente, il perdono dei peccati. Il perdono di Dio non è una semplice cancellatura, ma un rifare nuova la nostra esistenza, infatti se accogliamo il perdono ci ritroviamo guariti, così riflette in merito S. Agostino: «Dio guarisce tutte le tue infermità. Non temere dunque: tutte le tue infermità saranno guarite. E se dici che esse son grandi, sappi che più grande è il medico che le cura. Per un medico dalla potenza infinita non esiste nessun male inguaribile. Tu devi solo permettere che egli ti curi e non devi respingere le sue mani, ché egli sa bene quel che c’è da fare. E non devi solo compiacerti quando lenisce le piaghe, ma saper sopportare anche quando le incide: sopporta il dolore della medicina, pensando alla guarigione futura. (…) Gli uomini accettano di essere immobilizzati e operati, pronti a subire, in vista dell’incerta guarigione, un sicuro dolore ed a pagare un grosso compenso. Dio invece, che ti ha creato, ti cura in maniera sicura e gratuita. Rimettiti dunque alle sue mani, o anima che lo benedici e non dimentichi le sue retribuzioni: egli infatti guarisce tutte le tue infermità».
«Salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia» (v. 4). Questo «salva» è la traduzione del verbo che indica il Redentore (goel), il parente prossimo che riscatta e libera dalla schiavitù e, nel nostro caso, libera dalla morte. «Dalla fossa»: è un’immagine per indicare la condizione di morte dell’uomo. Quindi, “Dio salva dalla morte”, è capace non solo di combattere e di vincere le malattie ma anche di superare il confine, per noi invincibile, della morte. «Ti circonda di grazia e di misericordia», sono quelle che ti fanno bello, nobile e degno. Alle liberazioni negative dal peccato, dalla malattia, dalla morte, subentrano ora le azioni positive di Dio che circonda la creatura umana con la sua tenerezza, fedeltà hesed e col suo affetto materno rahamim.
«Sazia di beni la tua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza» (v. 5). La benevolenza e l’affetto di Dio si manifestano concretamente in una sazietà di beni, di felicità e di bellezza (questo è il senso tob bene in ebraico). È l’esperienza della pienezza. A volte abbiamo l’impressione che i giorni della nostra vita sono fuggiti velocemente, – ci sembra siano passati senza lasciare un segno, che siano vuoti e inutili –, il Signore li riempie «di beni». E «rinnova» la nostra esperienza di vita, ci riempie di una forza vitale nuova. Il Salmo lo esprime con un’immagine mitica, quella dell’aquila che rinnova la sua giovinezza, che cambia le penne e ancora si libera leggera come vittoriosa sopra il tempo e la vecchiaia: «e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza».
Il fedele sa che il progressivo affievolirsi della sua esistenza biologica può essere vissuto diversamente nella coscienza della vicinanza di Dio che da sola basta a dare a questa esistenza un valore incalcolabile. La nuova nascita che Gesù annunzia a Nicodemo nel dialogo notturno (cf. Gv 3) o la nuova creatura descritta da Paolo (cf. 2Cor 5,17; Gal 5,15) sono preparate dalla speranza presente in questo salmo. Il salmista, chi prega, avverte che sta sbocciando per lui una nuova giovinezza, meno tumultuosa della prima ma anche più libera dalle passioni, dalle illusioni, illuminata dalla consapevolezza del limite ma anche della pace di Dio.
I vv. 6-7: «Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele». Richiamano ciò che il Signore concretamente ha fatto per il suo popolo nell’esperienza dell’esodo, sono una testimonianza concreta della salvezza e dell’amore di Dio per il suo popolo. Il Signore attraverso Mosé ha fatto conoscere al suo popolo la liberazione e la salvezza.
Nel v. 8: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore». Il Salmo riprende una autodefinizione di Dio. Nel cap. 34 del Libro dell’Esodo si racconta del Signore che, passando davanti a Mosè, gli rivela il suo nome, la sua identità: «Jahve, Jahve, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di compassione» (Es 34, 6); questo è il nome di Dio. Nella preghiera lo ricordiamo a noi e nello stesso tempo lo mettiamo davanti al Signore con fiducia.
Poi i vv. 9-10: «Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe». Il salmista, chi prega, facendo l’esperienza della misericordia di Dio scopre una certa irrazionalità positiva nella bontà di Dio. Egli, nella sua bontà, non applica con spietata freddezza la sua giustizia, egli sospende la sua ira e perdona chi si riconosce colpevole, senza esigere fiscalmente una riparazione o un pagamento proporzionato, ma chiede solo il riconoscimento del proprio peccato e la conversione, il ritorno a Lui e una vita animata dalla sua bontà.
b) Seconda parte: Amore eterno di Dio e fragilità umana
Il salmo vuole mostrare quale Dio sia quello che ci sta vicino e lo fa, attraverso queste righe tra le più alte dell’AT, evidenziando che la misericordia di Dio nasce dalla conoscenza che Egli ha della nostra fragilità radicale. Sono usati tre paragoni per descrivere questo amore paterno di Dio. I primi due paragoni sono complementari e definiscono le due dimensioni dello spazio: la verticale: «Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia (hased) è potente su quelli che lo temono» (v. 11); l’orizzontale: «quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe» (vv. 11-12). Tutto questo per dire che l’amore di Dio abbraccia l’infinito. La terza immagine, invece, si riferisce alla profondità psicologica dell’amore paterno: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (v. 13). Risulta chiaro così, l’idea della paternità di Dio.
Il punto di partenza teologico di questo rapporto di paternità di JHWH nei confronti di Israele è collocato all’interno dell’evento dell’esodo, segno fondamentale della salvezza. È per questo che in modo lapidario in Es 4,22 si proclama: «Dice IHWH: Israele è il mio figlio primogenito (benî bekorî)». E subito dopo JHWH interpella il faraone così: «Lascia partire il mio figlio» (Es 4,23). Proprio perché Dio è Padre e Madre, è Misericordioso, così si rivela a Mosè: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e de fedeltà…» (Es 34,6). Qui, nel salmo, viene evidenziata la paternità anche nei confronti del singolo e non solo di tutto Israele, della comunità. In questo orizzonte, questo salmo è molto vicino al NT. Il commento ideale di questo salmo potrebbe essere la parabola del padre misericordioso nei confronti del figlio, descritta in Lc 15,11-32. Con due paragoni, poi, descrive la fragilità creaturale dell’uomo, che può essere redenta da Dio, usando la metafora della polvere plasmata dal vasaio: «perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (v. 14).
Perché plasmato dalla terra (cf. Gen 2,7), Dio sa che l’uomo è fragile e la fragilità creaturale diventa un motivo a sostegno del perdono. Questa fragilità viene evidenziata anche nei vv. 15 e 16, con l’immagine dell’erba e del fiore: «L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo, così egli fiorisce» (v. 15). Un fiore meraviglioso è sbocciato in un campo verdeggiante. Il vento del deserto gli piomba addosso col suo soffio infocato e il fiore si dissecca riducendosi a un po’ di polvere introvabile: «Se un vento lo investe, non è più, né più lo riconosce la sua dimora» (v. 16). Dio, però si china su questa creatura fragilissima che è l’uomo e lo avvolge con il suo amore (hesed) che è per sempre. Appoggiandoci nella fede in Dio – ci ricorda il salmista – noi usciamo dal limite e dalla caducità e ci immergiamo nella vita stessa di Dio.
La misericordia di Dio ci viene detto ancora, nei vv. 17-18, supera non solo lo spazio, ma anche il tempo: «Ma l’amore (hesed) del Signore è da sempre (olam), per sempre su quelli che lo temono, e la sua giustizia per i figli dei figli, per quelli che custodiscono la sua alleanza e ricordano i suoi precetti per osservarli» (vv. 17-18).Perché il suo regno abbraccia l’universo e quindi nulla può sottrarvisi: «Il Signore ha posto il suo trono nei cieli e il suo regno domina l’universo» (v. 19). E allora tutte le voci e tutti gli strumenti sono chiamati a unirsi in un immenso coro di benedizione: «Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri, che eseguite la sua volontà. Benedite il Signore, voi tutte opere sue, in tutti i luoghi del suo dominio. Benedici il Signore, anima mia» (vv. 20-23). Ai cori angelici sono invitati ad unirsi tutte le creature disperse per tutte le regioni dell’universo, dominio del Signore. A questo coro non può mancare l’anima mia. Come cantare la misericordia del Signore?
3. La misericordia è il fondamento del mondo
Quando noi preghiamo i salmi ci inseriamo in questo ritmo della storia della salvezza e, comunque vadano le cose anche noi cantiamo la misericordia di Dio. Misericordia, grazia è la parola chiave del libro dei salmi, in particolare di questo salmo. Il salterio quindi può essere detto microcosmo di tenerezza di Dio. Perciò, per tentare di delineare una teologia dei Salmi, sarebbe sufficiente mettere a fuoco questo concetto basilare, perché è quello che meglio di ogni altro esprime e riassume il rapporto uomo-Dio nel Salterio. Chi prega i salmi, allora, e fa l’esperienza della fedeltà e misericordia del Signore è coinvolto a raccontare, esprimere con la propria vita il perdono e la misericordia-grazia di Dio che ha sperimentato. È coinvolto a edificare un mondo nuovo, un mondo di grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione sulla misericordia, sulla grazia, secondo il progetto di Dio.
Il testo che porta a compimento l’intuizione del salmo è certamente ancora Lc 15, dove è presente il tema del perdono del padre, ma anche a far propria la misericordia del padre accogliendo il fratello e partecipando della gioia del padre. Questo tema è presente sempre in Lc 6,27-38. In questo discorso di Gesù, aperto dalle beatitudini, Dio Padre è presentato come esemplare, cui i fedeli debbono ispirarsi. Aprendosi alla gratuità e al perdono i credenti fanno risplendere nella loro vita la grazia charis di Dio e, a chi si lascia coinvolgere da questa passione di Dio, Gesù dice: «la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35). Perdonare è come risuscitare un morto.
Questo amore è la spia che ci dice se abbiamo accolto la misericordia, la salvezza di Dio. Nel perdono il primo a risuscitare è chi perdona, perché si ritrova figlio dell’Altissimo, con una vita che diventa trasparenza del Padre. Al v. 36 è detto: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro». Qui Lc. usa l’aggettivo oiktirmon che traduce l’ebraico rahamim. Dio Padre-Madre che ama visceralmente l’uomo ed entra in rapporto di necessità biologica con lui dandogli la vita, la casa, il cibo, coinvolge l’uomo a diventare come lui e ad esprimere in modo dinamico questa misericordia verso i fratelli assumendo i lineamenti del volto del Padre, da qui l’invito: «Non giudicate…, non condannate…, perdonate…, date… Una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo».
Alberto Neglia
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