La preghiera è un linguaggio universale che interpreta tensioni dell’umano che trovano espressioni diverse.
La preghiera è un linguaggio universale che interpreta tensioni dell’umano che trovano espressioni diverse.
«La preghiera è un linguaggio universale che non appartiene solo all’homo religiosus ma interpreta tensioni dell’umano che trovano espressioni diverse, oggetti e metodi molteplici e creativi. Essa può essere introspettiva o psicologica, dedita all’intimità della persona, finalizzata a una conoscenza di sé, al piacere o alla pace interiore. Può essere contemplativa e declinarsi come una disciplina di pensiero, intellettuale, meditativa, rivolta all’intuizione, alla ricerca della verità o della bellezza. Può assolvere a un compito etico, credente o laico, che è quello di far da sostegno all’impegno civile, sociale, economico, dove sperare è il motore di ogni impresa individuale o collettiva.»
La biblista Rosanna Virgili inizia così, su Avvenire, una riflessione sull’importanza della preghiera, che non è il contrario di operare, come molti pensano: l’ora e il labora vanno di pari passo. Nelle Scritture, inoltre, essa non parte necessariamente dall’alto dei cieli, ma anche da un’esperienza terrena quando nasce come querela di un diritto umano essenziale: la sete di vita, libertà, giustizia, felicità. In esse colpisce il modo e la fonte del pregare.
Il primo esempio che si incontra è il grido che sale dal sangue di Abele per bocca della terra bagnata di violenza. Poi c’è Agar, la madre di Ismaele e matriarca del mondo musulmano, che, mentre era morente nel deserto insieme al figlio, l’Angelo di Dio avvicinò per chiederle: «Che hai?» (Genesi 21,17). La sua è una preghiera muta, con le parole non si formano più nella mente e la loro articolazione che si scioglie in un vuoto disperato. Anna, che fu creduta ubriaca, dovette spiegare: «Sono una donna affranta, sto solo sfogando il mio cuore davanti al Signore» (1Samuele 1,15). Durante l’esodo, Miriam contrasse la lebbra. I suoi fratelli Mosè e Aronne gridarono: «Dio, ti prego, guariscila» (Numeri 12,13), rafforzando i legami familiari nella preghiera, che non sostituisce le cure sanitarie ma rende la malattia un’occasione per consolidare la comunità.
«Pregare è caricarsi del peso degli altri. […] C’è un fatto curioso nei Vangeli: invece di essere il Maestro a farlo per primo, sono i discepoli a chiedergli: “Insegnaci a pregare”. Avrebbero voluto, forse, una preghiera speciale che li identificasse come diversi dagli altri. Pensavano che il loro fosse un Dio lontano, invece era in Cielo: un abbraccio vicino a ogni punto della terra. Pensavano che per essere esauditi dovessero moltiplicare le parole, invece bastava la sincerità del cuore. Pensavano che Egli non conoscesse le miserie umane invece avrebbe potuto spiegargliele una a una. Pensavano che Dio avesse un nome proprio di cui potersi fare proprietari, ma Gesù li spiazzò: “Voi, dunque, pregate così: padre nostro” (Matteo 6,9). Quello di Dio era un nome comune, un semplice padre. Pensavano che la preghiera di ognuno venisse calcolata in un libro privato, invece essa finiva sul conto della comune Fratellanza.»
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