Viviamo in un mondo di disperati?

La preghiera apre la porta alla speranza: rimandi a esperienze bibliche e alla contemporaneità per osare ancora sperare.

1. C’è ancora spazio per la speranza

Se guardiamo i fatti di ogni giorno, se apriamo un giornale, se diamo un’occhiata al telegiornale, si ha proprio l’impressione di vivere in un pianeta di antropoidi impazziti e disperati. Osservate il regime che ci governa, la quasi totalità dell’ambiente occidentale ufficiale; respirate l’aria che spira tra politici e giovani, e vi convincerete che siamo davvero in un mondo disperato, infernale – come direbbe Italo Calvino. Si assocerebbe a lui il suo contemporaneo Jean Paul. Sartre che parlava degli altri umani come l’inferno del singolo soggetto. Nell’inferno si è lasciata fuori ogni speranza. Eppure non possiamo fare a meno di chiederci se questa impressione è più di un vago sentimento, di una sensazione. La disperazione appartiene all’essenza del mondo? È totalizzante? Struttura il mondo nella sua profonda verità? Oppure chi parla di disperazione planetaria tenta solo la descrizione di ciò che vediamo e subiamo?

Rinunceremmo molto facilmente a vivere se non fossimo capaci di pensare che nel mondo c’è buio e c’è luce, e che, in ogni caso, non siamo damnati ad inferos, che c’è ancora spazio per la speranza come unica strada di salvezza. Quell’Italo Calvino appena ricordato, distingue nel termine “mondo” chi è inferno e chi inferno non è, cioè chi non si rassegna e in ogni caso non accetta supinamente i fatti, ma vuole uscirne. Così conclude la sua opera Le città invisibili. Se vogliamo è possibile uscire dall’inferno, «basta cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Resta la domanda: ma noi vogliamo oggi uscire dall’inferno?

2. Due rimandi ad esperienze bibliche

Nel contesto in cui ci troviamo forse è essenziale chiederci se le Sacre Scritture (pur non essendo il libro dove è scritta la nostra storia passata, presente e futura) indicano delle piste di risposta al problema che oggi affrontiamo: siamo o no un Pianeta di disperati? Mi limito a due soli rimandi biblici. Il primo è il Salmo 17,5-6: «Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti impetuosi; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali». Si tratta di una esperienza che il popolo ebraico vive in continuazione; sempre alla ricerca di una sicurezza basata sulla forza, e sempre in procinto di scomparire. Popolo di erranti senza fissa dimora, i nostri padri nella fede, gli ebrei, sempre con lo zainetto dei deportati sulle spalle, sempre con scelte politiche strategiche sbagliate e dunque con la schiavizzazione dietro l’angolo. Popolo che esprime la sua disperazione chiedendosi se «Dio avesse rotto il suo patto e fosse mutata la sua destra potente».

Eppure questo popolo, non perde la speranza e caparbiamente scrive: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo; ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi» (Sal 121). È questo il secondo riferimento biblico. Non so chi di noi oggi oserebbe ripetere con convinzione questo incredibile atto di fede. Forse l’attaccamento alla vita, la speranza di un cambiamento, hanno casa nel cuore dei migranti (200 milioni nel mondo) che abbiamo cacciato dalle loro terre. Forse è nel cuore dei palestinesi che da oltre settant’anni subiscono minacce di sterminio. Forse lo custodiscono gli affamati espropriati della loro economia di sussistenza, gli scartati. Ma noi, anche i qui presenti, non rischiamo di adagiarci sul fatalismo dei dormienti che tutto vogliono eccetto che qualcosa cambi?

3. Osare sperare

Dobbiamo concludere che i disgraziati, gli scartati, gli esuberi, gli impoveriti, gli inermi delle Beatitudini evangeliche, gli anawim di Jhwh sono gli indicatori della nostra speranza? Sì, a quanto pare. Perché sono i soli affamati ed assetati di giustizia ed amore. Ovviamente, se gli sconfitti e gli scartati sono indicatori della nostra speranza, nulla cambierà senza il nostro apporto, senza una fede nuova, senza una collaborazione col Dio che assolutamente ci vuole nella pace. E questo non è per nulla un gioco da ragazzini. Sperare esige un enorme coraggio, perché urta ogni istante con una mentalità di rassegnati, indifferenti, cittadini, inconsapevoli e no, del disastro verso cui si corre. Si esce fuori dal coro se si lavora per il dopo-disperazione, oltre la rovina annunziata. Con una calcolata esagerazione, possiamo dire che superare la disperazione con la speranza è impossibile all’uomo, ma non a Dio. Meglio: osare sperare è insieme opera di Dio e dell’uomo, in sinergia. È espressione dell’Alleanza che fa Dio e l’uomo necessari per la salvezza. Ritorneremo più avanti su questo punto decisivo che ci ricorda il tema generale dei nostri mercoledì: “La preghiera apre la via alla speranza”.

4. È faticoso sperare

Ma ci è impossibile bypassare un interrogativo che coinvolge ciascuno di noi, in prima persona. E cioè: la chiesa, le chiese sono oggi segno di speranza? Si distinguono per il loro contributo alla costruzione della pace nella fede? Lottano o no per un mondo più giusto? Annunziano o no la possibilità di un amore concreto tra umani che assicuri pane, benevolenza e rispetto della dignità di tutti? Trovo nella mia corrispondenza con un amico vescovo un’analisi lucida della situazione. Mi scrive: «forse oggi dovremmo rievangelizzare il mondo e la chiesa, parlare di Gesù e basta. Il problema è che Gesù tutti crediamo di conoscerlo, ma ci rifacciamo alle conoscenze del catechismo. Ormai non fa venire i brividi a nessuno. È un personaggio come tanti altri. Lui e le sue cose ci sono cadute dal cuore. L’abitudine alle cose di Dio ci è rovinata addosso e non riusciamo a ritrovare lo sprint che la fede può darci… Il vangelo, quando cominciamo a parlarne, gli ascoltatori sanno già come va a finire, per cui non è più una novità. Siamo cristiani vecchi, senza fiato e dalla vista corta. Lui… Lui cerca complici e noi continuiamo a contare i praticanti. Due visioni diverse. Quando cominceremo a metterci insieme come credenti? Quando cominceremo a capire che i problemi dell’uomo sono i problemi di Dio?».

Lo sguardo laico di uno scrittore (Italo Calvino) e quello religioso di un vescovo convergono nella difficoltà che abbiamo di recitare un solo Atto di speranza. Cioè è faticoso sperare, e se a volte ci troviamo tra i disperati che hanno accettato la disperazione come unico ambiente vitale, non c’è da colpevolizzarci. Forse questo voleva dire Paolo con il suo ossimoro: bisogna osare sperare anche quando si è disperati, bisogna sperare contra spem (cf. Rm 4,18-19). Del resto la storia della salvezza non si snoda sempre tra la perdita e la risurrezione della speranza? Scrive Christian Bobin in Francesco e l’infinitamente piccolo, parlando degli ebrei usciti dall’Egitto: «Ciò che è faticoso è sperare. Allora ogni tanto disperano, si abbandonano ad un sonno disperante disperato. Non un passo in più. Non un solo passo di più. Maledicono Dio, poi si stancano di maledirlo. Ne prendono un altro, più consono ai loto gusti. Qualunque cosa può servire da Dio, quando Dio manca. Allora Dio, quello vero, colui che li ama come un folle, colui che li conta uno per uno, viene a rovesciare i picchetti delle loro tende, a tirali fuori dal letto tiepido della loro disperazione, e di nuovo ripartono tra le dune di sabbia».

Il credente cristiano rassomiglia al credente ebreo, molto più di quanto ne abbia coscienza. Sa di esserci al mondo per portare a tutti la lieta notizia di un Dio altro, nonviolento, amante degli uomini, tutto misericordia e tenerezza. Per questo è chiamato ad essere altro rispetto alla mentalità corrente. E tuttavia è anche preso dalla smania di essere come tutti, di vivere come vivono tutti. Accoglie così il pensiero unico, quale che sia, entra cioè nella mentalità, nella cultura del luogo dove vive. Il credente cristiano è come lacerato tra adesione al suo battesimo ed il suo pratico rinnegamento, tra fedeltà a sé e a Dio e la sua infedeltà, tra adesione al mondo e cambiamento del mondo. Nei momenti migliori ritorna a fare risorgere la voce battesimale e si distanzia dal pensiero unico, a costo anche di disperarsi cercando, e di cercare disperandosi.

5. Osare sperare è opera congiunta di Dio e dell’uomo, coinvolge Cielo e Terra.

Rendiamocene conto: non è per nulla ovvio contrapporre al reale l’ideale, agli affari il diritto alla vita di ogni uomo. Contrapporre alla storia concreta divenuta suicida, la fede e il desiderio di realizzare ciò che non esiste ancora, l’utopia. Cioè la realizzazione del sogno di Dio, che Gesù chiama “il Regno”. Ecco ciò che è in gioco:

– adattare il mondo a ciò che deve diventare, progettare un cammino altro, vedere altrimenti l’uomo, il suo destino e la convivenza tra umani, significa essere tacciati di appassionati alla poesia da barbieri, o di essere sognatori, folli, anacronistici, utopisti progettatori di un mondo che mai c’è stato e mai ci sarà;
– ci vuole un immenso coraggio per dire ciò che nessuno vuole sentire, per ascoltare le ragioni di chi ha torto e i torti di chi ha ragione;
– la speranza mette in crisi il mondo, smaschera l’errore presentato come verità, giudica i potenti di qualsiasi colore;
– ci vuole coraggio ad appropriarsi del diritto ad un giudizio storico sulla realtà in nome della propria fede. Si tratta di uscire dai sacri recinti e immergersi nella realtà per umanizzarla come ha fatto Gesù che per questo divenne un delinquente;
– ma del resto la fede è fundamentum sperandarum rerum, «fondamento delle cose che si sperano» (Eb 11,1). Segno del nostro ateismo di massa è il fatto che non si spera niente, al massimo si cercano carabattole. A perle preziose, alla ricerca di tesori, nessuno pensa;
– sperare tutto questo allora non è compito di Adam, del “fatto di fango”, a meno che Dio non ne faccia un essere vivente col Suo Spirito.

6. A quale albero appenderemo le nostre cetre (cf. Sal 137)? Quali sono i fondamenti della nostra speranza e dove cercarli?

Ci avviamo alla conclusione. Se è vero che Dio è presente in tutti e agisce per mezzo di tutti (cf. Ef 4,1-6), non credo basti dire che “sono in Lui” le nostre speranze. Per certi versi questo è radicalmente vero, per altri è pericoloso e mistificante. Non è in mano di Dio darci le pace, se la guerra l’abbiamo inventata e voluta noi. Non è in sua mano fare diminuire il riscaldamento climatico se le nostre case e le nostre città, per scelte scellerate, sono stufe a cielo aperto. Per essere ancora più esplicito, dico che non è radice di speranza cristiana la convinzione che siamo nelle mani di Dio e Lui, che è Padre onnipotente, che può fare tutto ciò che vuole, interverrà sicuramente nella storia umana per cambiarla, da solo, intervenendo dall’esterno, rattoppando i nostri errori.

Ebbene il Dio che è apparso in Gesù non è un pantokrator, un onnipotente, non è uno la cui potenza fa sentire noi come burattini nelle sue mani, schiacciati nella nostra impotenza, non è uno che ha in mano la morte e la vita, uno che dona o priva della pace, uno che “permette” al male di esistere, ai bambini di essere uccisi, alle guerre più feroci di scatenarsi, uno che manda pioggia o siccità, tempeste o bel tempo, a suo piacimento o per castigare/premiare l’uomo. Il Creatore, creandoci come esseri liberi, si è come ritratto per darci spazio, e tra la Sua volontà in Cielo e la sua volontà benefica e misericordiosa che deve essere instaurata sulla terra, si erge tragicamente la libertà dell’uomo. Senza il sì libero dell’uomo, il mondo va alla malora, ma col suo fiat fiorisce sulla terra il Paradiso. Per questo Paolo può dire che «Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, (non agisce più da solo) ma è presente in tutti ed opera per mezzo di tutti» (Ef 4,6).

Al di fuori di queste prospettive, a mio parere, si incatena Dio a un ruolo ed ad un volto che non ha: cioè di essere un padre cinico che vuole (“permettere” non è con-sentire?) il male e la nostra sofferenza, che ci abbandona a noi stessi e poi ci giudica con pene eterne. E Dio allora che fa? Ci dà il suo Spirito perché possiamo uscire dal nostro egoismo, organizzare la vita in modo che tutti abbiano pane, tutti sia perdonanti-perdonati, tutti si riconoscano fratelli, tutti rispettino la dignità di tutti, tutti chiamino male il male e bene il bene, e vivano da liberati dal male, dal nulla, dalla tendenza di uomini che ci godono a sovrastare gli altri come se fossero dio. Queste radici della speranza non sono però in mano al singolo. Credere nel possibile e attenderlo, è problema di fede nella salvezza portata da Gesù; e la fede c’è “se due o tre sono riuniti nel Suo nome” (cf. Mt 18,20). La speranza è anelito di comunità che inseguono la speranza, perché questa umanità dispersa si riunisca di Gesù.

Speranza non è previsione (razionale o solo desiderata) del futuro. È compiere determinate azioni nella certezza che, comunque vadano le cose, ciò che stiamo facendo ha un senso. È nella speranza che amiamo. È nella speranza che diciamo – schierandoci – Io credo! È in questo tipo di speranza che una ONG mette nel Mediterraneo una nave… È nella speranza che si genera un figlio. Questa speranza, implicita o esplicita, è connessa con la fede. Sintetizzando al massimo ciò che ci siamo scambiati, forse possiamo dire che fino a quando sulla Terra ci sono uomini di speranza vera, fattiva, operosa, non possiamo dire che viviamo in un mondo di disperati. C’è ancora spazio per la vita e la felicità di ogni nato da donna.

Se noi non aspettiamo che un giro di boa sia determinato nella storia da un Dio onnipotente, pantokrator, che agisce a suo capriccio, se siamo convinti che i problemi creati dall’uomo debbano essere risolti dall’uomo animato dal Santo Spirito che ci è stato donato, allora le radici della nostra speranza le scopriamo in un popolo che si fa sentire, che parla, che ascolta gli urli della sofferenza e ne parla a Dio e all’uomo della strada, e diventa artefice di umanità e di benevolenza. Con buona pace della signora Thatcher, che negli anni ’80 affermava che non esiste la società, ma solo lo stato, siamo convinti che la società esiste, siamo noi, sono i poveri di tutti i continenti, i sofferenti e le migliaia di persone annegate nel Mediterraneo, sono coloro che sognano, che camminano, che si battono per la pace frutto di giustizia (e non di vittoria), che non credono nella fine della storia. Questa società è anche la Chiesa, quando lascia alle sue spalle duecento anni di ritardo e percepisce se stessa come la portatrice fattiva di un lieto annunzio di salvezza da realizzare qui ed ora, come si addici a dei figli di Dio, partecipi della vita dell’Eterno.

P. Felice Scalia
Mercoledì della spiritualità 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto