La preghiera del profeta Elia nei tempi di aridità spirituale

La preghiera apre la porta alla speranza: l’esempio del personaggio biblico definito dal suo stare alla presenza di Dio.

1. La speranza umiliata

Inizierei il presente tentativo di contributo al percorso di questi mercoledì sul tema “La preghiera apre la porta alla speranza” con una considerazione previa che sintetizzerei come l’umiliazione della speranza. Per i credenti la speranza è virtù teologale, per l’umanesimo laico è motore di ricerca, forse per la filosofia potrebbe essere accostabile come sottofondo comune ai trascendentali, al vero, al bello e al buono. Ma la speranza è anche derisa dalla disillusione e dal cinismo, data l’ambiguità di cui è stata rivestita nella storia. Manipolata nei sistemi di potere, essa è stata identificata in uomini, pensieri e costruzioni spesso totalizzanti, rivelatisi poi disastrosi per tutti coloro che vi avevano aderito. E più ampia è stata l’adesione, più coinvolgente l’investimento di energie ed attese, più la delusione è divenuta traumatica con il risultato di un rifiuto verso l’attesa di un cambiamento o anche solo di una svolta ai livelli più svariati. Gli esempi li abbiamo nelle ideologie socio-politiche, ma anche in quella che è (o che è stata) la vera e propria fede nel progresso.

Basti pensare al calo lento ma inesorabile della partecipazione al voto elettorale. Fino alla posizione nichilistica di chi nega la speranza in quanto “non senso”, vedendola come un sentimento deresponsabilizzante, magari nella ricerca di sostituirvi un realismo della volontà che non lasci più spazio all’illusione, marcando così una pretesa definitiva età adulta per individui e società. Come se avessimo già vissuto e visto tutto. Come se nulla potesse più sorprendere o assumere i caratteri di una novità inedita tale da risvegliare e convogliare le energie necessarie per un di più di vita. È la drammatica sensazione di stanchezza che serpeggia nella cultura e nella politica, come anche a tutti i livelli del vivere civile e, non ultimo, anche nel panorama ecclesiale. Emerge così il tragico contraltare della speranza: la paura, l’angoscia, la fragorosa ma più frequentemente sottile e silenziosa disperazione.

Al tema della speranza sarebbe legato anche quello del sogno: anch’esso banalizzato, ridotto al piccolo cabotaggio, indirizzato nei circuiti limitati dell’interesse e del privato, in un orizzonte di celle che si pretendono autosufficienti, dentro un codice di comunicazione standardizzato di cui la pubblicità è oggi l’immagine più lampante ed il gestore più attrezzato. Se lo spirito, inteso come l’uomo al di là dei propri bisogni e condizionamenti, avverte la situazione di aridità, allora può avere ancora senso l’attesa di un bene. L’umanità irriducibile, rinnovata nelle generazioni e nella loro riproduzione di libertà, può ancora svincolarsi quanto basta per sognare e sperare. Sperare di riprendere a sperare.

Quell’aridità spirituale citata nel tema di stasera possiede un valore di richiamo, senza dubbio doloroso. È una realtà complessa, per quanto nel nostro linguaggio intraecclesiale essa abbia delle coordinate ben precise, anche profondamente positive qualora sia un Altro a condurci nel deserto. Ma se la speranza è stata inaridita, abusata, umiliata, e se percepiamo che non si può vivere senza speranza, allora occorre renderla nuovamente credibile. Sono necessari testimoni della speranza che accettino di entrare dentro le sue dinamiche senza sconti, portando il peso delle banalizzazioni alle quali è stata sottoposta, e siano disponibili a rischiare di persona.

2. Il profeta della siccità

Ecco allora il protagonista della nostra riflessione di stasera: il profeta Elia. Il testo biblico non parla della sua ascendenza, ci informa soltanto sulla sua città di origine, Tisbe, nella regione di Galaad, nella Transgiordania, ai confini della Terra di Israele. A Elia è dedicato un ciclo non molto lungo che occupa i capitoli da 17 a 21 del primo libro dei Re e i primi due capitoli del secondo libro dei Re, in coda all’opera che non molto tempo fa gli studiosi denominavano come storiografia deuteronomistica, quei libri storici che partono dal Deuteronomio e vanno fin proprio al secondo libro dei Re. Semplificando, si tratta di una narrazione redatta nel regno del sud (Giuda) non molto dopo l’esilio e che legge tutta la storia di Israele nella Terra promessa alla luce dell’Alleanza di JHWH con il suo popolo sancita con Mosè: l’idea di fondo è che solo la fedeltà a quell’Alleanza e ai comandamenti garantisce ad Israele non soltanto il suo benessere ma la sua stessa sopravvivenza. In base a questo criterio tutto viene passato al vaglio e giudicato, anche (e soprattutto) i Re.

In particolare è la drammatica frattura in due parti, Sud e Nord, del regno di Salomone a originare una visione che procede in parallelo, ma senza determinare preferenze da parte del redattore a parte alcune eccezioni. Tipica è la frase sintetica applicata a molti dei re dei quali si afferma: «fece ciò che è male agli occhi di JHWH più di tutti i suoi padri». Il racconto su Elia è una storia che si svolge al Nord, dove tutto è finito ormai da tempo, perché nel 722 a.C. gli Assiri invasero il paese, annessero il regno e deportarono in modo sistematico tutta la popolazione. Eppure quella storia, con quel profeta così particolare, aveva ancora un senso e non poteva essere dimenticata. Da subito, Elia è qualificato da un elemento che il narratore mette in bocca a lui stesso nel suo primo atto raccontato e che lo vede parlare al re Acab: «Per la vita di JHWH, Dio di Israele, alla cui presenza io sto» (1Re 17,1). Una frase misteriosa, che solo tutta la vicenda permetterà al lettore di capire.

Elia appare come un profeta granitico, forte e sicuro, impavido, come Samuele con Saul e come Natan nei confronti di Davide. Paradossalmente è lui che provoca la siccità e la determina per anni in modo tragico: né pioggia e né rugiada, fin quando non sarà lo stesso profeta a comandarlo. È lui che determina il tempo di aridità. Ad un primo sguardo, sembrerebbe avere ragione il re Acab quando, più avanti, avrà a dirgli sfidandolo: «Sei tu che mandi in rovina Israele?» (1Re 18,17). Perché, in fondo, Acab sembrerebbe un ottimo re. Ha consolidato l’alleanza con i Fenici, sposando Gezabele, figlia del Re di Sidone; non ci vuole molto ad arguire che, per il regno del Nord, Israele, fertile e ricco (diversamente alla terra montuosa e semidesertica del Sud, Giuda), la collaborazione con un popolo di navigatori e mercanti apriva possibilità davvero notevoli di ricchezza. E, come sempre succede ad un debole che si mette con un forte (mentre il forte pregusta di guadagnare dal debole), più ci si omologa e meglio è.

Ecco così il proliferare degli idoli e dei loro templi, soprattutto il Dio Baal, il rassicurante Signore delle stagioni e della fecondità, divinità commerciale del do ut des, con tutto il suo panteon. Un colonialismo culturale che solletica gli appetiti immediati. Ma che determina la perdita di un’identità senza la quale si è esposti a logiche distruttive. Mettendosi contro Acab, Elia potrebbe sembrare un fanatico asceta oscurantista. Peccato che la realtà che sta dietro il progetto di opulenza di Acab sia molto diversa e si ponga come una vera e propria violenza ai danni del popolo che è chiamato a governare. Senza scomodare quella che appare una vera e propria persecuzione (i profeti uccisi: cfr. 1Re 18,3) è emblematico il caso della vigna di Nabot (cfr. 1Re 21) dove troviamo i segni della corruzione indotta dall’arroganza del potere sulla società. Allora non è tutto oro ciò che luccica, anzi. La siccità materiale svela quella ancora più profonda e chiama ad una scelta di campo: cos’è che vuole veramente il popolo? Cosa comporta il sogno di gloria del Re? Ma soprattutto: chi è il Signore da seguire? La scelta è libera, e sempre viene indicata come libera (cfr. 1Re 18,21). Con il suo intervento, Elia compie una operazione di verità, di svelamento. E, come il seguito della narrazione mostra, porta egli stesso il peso di questa siccità (cfr. 1Re 17,7).

3. La preghiera di Elia

Se Elia è definito dal suo stare alla presenza di Dio, allora sembrerebbe logico che tutta la sua vita sia intessuta di preghiera. Ciò che appare, sempre dall’inizio, è il suo ascolto di ciò che JHWH gli comunica. Nell’esperienza di Elia, JHWH è un Dio che parla e che lo muove. Ma non basta. A Elia Dio rivela se stesso oltre le strette logiche di qualunque sistema umano. Ed è Dio stesso che lo indirizza verso un segno di speranza nella disponibilità umile di una povera vedova (cfr. 1Re 17,7-24): qui vediamo la preghiera esplicita del profeta nel momento drammatico della morte del figlio. Notiamo come la preghiera di domanda provocatoria e di richiesta esplicita sia accompagnata da un gesto che impegna la fisicità del profeta. Ritroviamo questo diverse volte: il profeta è coinvolto totalmente nella dinamica di parole e gesti; è l’indicazione di un coinvolgimento totale da parte di un «uomo di Dio», così come Elia (cfr. 1Re 1,24) e più tardi Eliseo (cfr. 2Re 4,7.9.16.25.27; 5,8.14.15; 6,9.10.15; 7,18.19; 8,4.7.11; 13,19) vengono chiamati dalla gente. Sulla base di una ulteriore parola da parte di JHWH, «io manderò la pioggia sulla faccia della terra» (1Re 18,1), Elia si presenta ad Acab e convoca la sfida con i profeti di Baal nel contesto di un sacrificio sul monte Carmelo.

Il punto è: chi concede il fuoco? Ma, dentro la qualità simbolica del fuoco, è sottesa la domanda: chi ascolta e risponde in pienezza? «Rispondimi, JHWH, rispondimi», sono le parole poste significativamente sulla bocca di Elia. Da questi dati notiamo anche la qualità letteraria del ciclo di Elia: siamo davanti ad un apice letterario sia come forma linguistica che come uso ben calibrato degli strumenti retorici e simbolici. Dopo il trionfo sul Carmelo, ecco il nostro testo, che ci parla di speranza. Persino per il pessimo Acab, un re vile ed opportunista, ma pur sempre un unto, secondo la prospettiva deuteronomista. Elia sente già la pioggia: è lui che vede oltre, come con la certezza di cose sperate. Siamo ancora sul Carmelo, sulla parte più alta. Elia si getta a terra e compie il gesto di rannicchiarsi: tutto fa pensare ad un gesto di prostrazione e di raccoglimento, quindi attinente alla preghiera. Ma non ci sono parole pronunciate. Solo l’invito al servo di guardare ripetutamente verso il mare, per poi essere in grado di discernere in un piccolo segno la realizzazione della promessa di Dio che è fedele (cfr. 1Re 18,41-46).

4. E, dopo la pioggia, ancora il deserto

Si tratta di un vero e proprio colpo di scena da parte del capolavoro letterario che è il ciclo di Elia. Dio non è prigioniero delle sue manifestazioni: per questo non potrà mai essere neppure minimamente accostato agli idoli. È quasi certo che la redazione ha operato un assemblaggio anacronistico: sarebbe più logico porre l’esperienza dell’Horeb all’inizio del ministero profetico di Elia, quando la partita contro idoli e idolatri è ancora tutta da giocare. E invece ecco che, dopo la schiacciante vittoria, dopo la risposta di Dio e dopo il ritorno della pioggia su di una terra e su un popolo che ha recuperato la sua autentica professione di fede, ecco che il profeta viene preso dal panico e fugge in preda alla paura-desiderio di morire. «Si inoltrò nel deserto» (1Re 19,4); non si tratta più di una siccità indotta per un paese normalmente florido, ma la scelta consapevole di perdersi lì dove non c’è vita, dove l’aridità non ha alternative. Elia, precedentemente sempre mosso da Dio, stavolta compie un viaggio senza un comando, ed è un viaggio verso la morte.

La sua preghiera è quella del disperato, che rivela forse una presunzione nutrita in passato ed ora clamorosamente smentita: essere migliore dei padri (cfr. 1Re 19,4). Ma JHWH non ascolta quella preghiera. Anzi, cerca di riprendere la guida del suo profeta, trasformando la sua fuga in un pellegrinaggio verso le origini. È così che Elia giunge all’Horeb e ripercorre alcuni tratti dell’esperienza di colui che è considerato il primo dei profeti, Mosè. Mentre si trova nella caverna (cfr. Es 33,21-23), gli viene rivolta la parola di JHWH. La risposta di Elia alla domanda di Dio assume i contorni di una lamentazione; pare davvero difficile trarre Elia dallo stato di non speranza. La svolta è tutta nell’iniziativa di JHWH, che interpella il discernimento del profeta: vento, terremoto e fuoco non cambiano la situazione del profeta e il redattore nota che JHWH non era in essi.

È invece qol demamah daqqah, la «voce di un silenzio impalpabile» (1Re 19,12) a determinare la svolta: Elia esce dalla caverna e si copre il volto alla presenza del Signore, quella presenza che qualifica la sua vita. È forse proprio attraverso quella voce che JHWH gli comunica svariate nuove missioni, tra le quali l’unzione di Eliseo come suo successore; ma c’è ancora qualcosa, ed è nella logica del “resto santo”: settemila persone tra il popolo, rimaste fedeli. Cosa è allora quella voce? Forse l’invito ad ascoltare e vedere più profondamente, oltre le proprie attese, paure, schemi ed illusioni? Elia è sicuramente un eroe della fede; ma neppure lui può ritenersi il gestore della speranza. Il ritorno di Elia alla speranza (e al servizio come profeta) ha tutto tranne che i tratti della marcia trionfale. È tutta opera di JHWH.

5. La dignità della speranza, guarita grazie alla preghiera del giusto

Se Dio fa fare esperienza della sua libertà che svincola e rilancia, la speranza che viene da lui assume i caratteri del dono imprevisto, libero, incondizionato. Si tratta di un dono calato nella storia, ma che non è prigioniero delle ambiguità della storia, quelle appunto che banalizzano la speranza. Sulla propria pelle, Elia elabora una purificazione della speranza agganciata esclusivamente alla libertà della parola, della voce di Dio. Ed è per questo che Elia diventa l’annunciatore dei tempi nuovi, il precursore del Messia (Ml 3,23-24); figura amata e attesa nella fede vissuta del popolo ebraico fino ad oggi. L’apostolo Giacomo, esortando i cristiani a riguardo della fede nella guarigione, esemplifica in Elia che «molto potente è la preghiera fervorosa del giusto» (Gc 5,16); l’uomo giusto è colui che lascia Dio essere Dio, che sa attendere la sua voce, che resta in ascolto sapendo di vivere nel mistero della presenza del Dio della speranza certa.

P. Roberto Toni
Mercoledì della spiritualità 2024 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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