Gesù è la nuova luce che illumina l’ombra della storia

La “Presentazione al Tempio” di Rembrandt è un insieme di sguardi e pose che esprime meraviglia, dolore e speranza per il Messia.

Il Tempio di Gerusalemme è in parte avvolto dall’ombra, in parte è inondato da una luce splendente. Nella parte oscura, una candela giace spenta e ha una funzione iconografica tipica di molti pittori fiamminghi: l’assenza di una fiammella indica un termine, una fine. Il nuovo inizio proviene dall’altro lato del quadro, dai raggi del sole che entrano dalla finestra e rischiarano l’interno dell’edificio. Questo bagliore investe Gesù Bambino, il quale a sua volta sembra emanare una luminosità propria che supera quella di questo mondo: la «luce per illuminare le genti» (Luca 2,32). L’era del Tempio è terminata e, a conferma di ciò che patriarchi e profeti avevano annunciato, è arrivata l’ora di quello successivo, ovvero del Corpo del Redentore.

Come si legge su Luoghi dell’infinito, l’olandese Rembrandt van Rijn dipinse questa Presentazione al Tempio nel 1628, a ventidue anni. La sua qualità emerge soprattutto nella composizione carica di rimandi e nell’intensità psicologica dei personaggi, i quali sono legati dall’intreccio di sguardi. Il piccolo Gesù sta guardando fissamente Maria, come fanno i neonati che cercano continuamente il contatto visivo con la madre, e lei lo ricambia, con le mani giunte in una posa adorante. Simeone, che tiene in braccio il Salvatore e lo adagia sulla morbida e ricca veste segno della sua nobiltà d’animo, si rivolge alla Madonna per dirle la sua profezia sul bimbo riconosciuto come Dio, la quale combinerà il dolore della crocifissione e la speranza della resurrezione delle genti. Il volto di lei, infatti, appare meditabondo.

Anche l’anziana profetessa Anna, in piedi dietro di loro, ha la grazia di vedere Cristo in un bambino comune. Il suo nome completo indica il compimento del suo destino alla fine di una vita segnata da una vedovanza precoce e dalla solitudine: Anna significa “Dio fa grazia”; Fanu-el (è figlia di Fanuele) “colei che vede Dio”; Aser (la sua tribù) “beato, felice”. La gioia di aver visto il Messia si scontra con la possente posa con le braccia aperte che rimanda al dramma della crocifissione, il quale però porterà alla redenzione di Gerusalemme.

Infine, di spalle e in controluce, quasi scostato dalla scena principale, c’è Giuseppe. È un testimone silenzioso e devoto, come dimostra il suo stare in ginocchio con il cappello fra le mani, del Mistero della vita nascente che contiene già il destino della morte. Non ne vediamo il volto, perché rappresenta l’umanità chiamata a riconoscere, oltre le apparenze, il Figlio del Padre in un corpo fragile. Noi siamo dunque in una zona d’ombra fatta di attese e di domande, dove, nonostante le sofferenze e le proprie croci, desideriamo vedere Dio.