Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 4
Se vuoi la pace, disarma le relazioni: un percorso biblico per aiutarci a diventare costruttori di relazioni umane. Parte 4
1. Nella storia come Gesù: di fronte (e non sotto) Pilato
Non ho competenze bibliche, ma solo l’esperienza di una vita cristiana in cui la lectio divina settimanale ha un suo peso (e per più di un anno nella mia parrocchia abbiamo letto anche il libro dell’Apocalisse), come pure ha peso la compagnia degli uomini (con l’attenzione ai poveri guardati con il cuore stesso di Dio) e con un tentativo di stare consapevolmente nella città e nella storia. In una Chiesa, quella di Noto, che in un momento alto del suo cammino, il secondo sinodo diocesano voluto da mons. Nicolosi e celebrato tra il 1992 e il 1996, maturò tra le sue prime decisioni di conversione quella di un ascolto di Gesù nella lettura orante delle Scritture, non come attività qualsiasi, ma come fondamento su cui tutto ristrutturare, e poi con la decisione di stare nella storia «senza progetti propri ma con la misura del Crocifisso» e, come Geremia profeta, testimoniare il giudizio di Dio sulla storia dalla parte dei poveri.
E oggi la nostra storia è sottoposta a tensioni che sicuramente hanno a che fare con il parto di un mondo nuovo – così la frequenza delle Scritture ci aiuta a leggere, con l’apostolo Paolo, in profondità quello che ci accade – ma anzitutto con le doglie di questo parto. Con dolori forti per tanta violenza, per tanto potere violento che porta alla morte milioni di persone con cinismo inaudito e che provoca anche un forte senso di impotenza e perfino di assuefazione, di amarezza che corrode il cuore e di paralisi nell’agire. Con il rischio di un cristianesimo che, nel nostro Occidente (è bene precisarlo, il Sud del mondo è altra cosa), mentre diventa sempre più insignificante, viene spesso vissuto deformato, privato della forma e forza del Vangelo, e diventa rifugio nel sacro, fuga dalla storia, con nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo.
Questi mercoledì della Bibbia sono un dono perché ci chiedono di dare forma evangelica ai nostri pensieri e al nostro stare nella compagnia degli uomini. Io sono strumento poco adatto, ma conta l’essere insieme in ascolto del Signore: il tema e l’impegno a rileggere insieme la Bibbia possono aiutarci ancora oggi a testimoniare una fede che ama la terra, che ci fa stare – nei rapporti con il potere violento, nelle molteplici forme con cui si manifesta – come Gesù, «che diede la sua bella testimonianza di fronte [e non sotto!] Pilato» (1Tm 6,13), e questo permette all’autore della lettera a Timoteo un’esortazione dal tono simile a quello dell’Apocalisse, radicale perché collocata in un contesto di adorazione e di lode di Colui che è veramente potente, di un potere per il bene: «Ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. A lui onore e potenza per sempre. Amen» (1Tm 6,14-16).
2. L’Apocalisse: annuncio sul senso della storia, consolazione nella prova
Cerchiamo allora di prendere in mano il libro dell’Apocalisse e di trarre una luce per i nostri passi e per la nostra resistenza al potere violento e alle sue insidie. Un chiarimento preliminare va fatto sul linguaggio. In quello ordinario apocalisse ha la connotazione della catastrofe, mentre il titolo dell’ultimo libro della Bibbia cristiana, tradotto dal greco, significa “rivelazione”, rimanda quindi all’azione del “togliere ciò che copre e nasconde”. «[Si tratta di] un libro di consolazione e di speranza, una grande professione di fede nella signoria cosmica del Cristo, vincitore del peccato e della morte, quindi tutt’altro che una lugubre previsione di sciagure e di disgrazie», chiarisce il biblista Claudio Doglio. Si tratta di un’opera radicata nella liturgia, ricca di canti festosi, che medita le Scritture, che usa il simbolismo come strumento abituale di comunicazione, celebra il mistero pasquale come chiave di lettura di una storia interamente nelle mani di Dio e scrive in forma di visione l’annuncio evangelico sul senso della storia umana.
Il libro nasce nella comunità giovannea durante il regno di Domiziano, che accentua il culto dell’imperatore con il titolo Deus et Dominus, e quindi in una comunità in conflitto con l’autorità romana ma anche con il paganesimo intellettuale ellenistico, intriso di esoterismo e magia, e con le comunità giudaiche che rifiutano Gesù come il Cristo. Fa problema una diffusa mentalità di tipo giudeo cristiano e gnostico per la quale gli elementi materiali sono insignificanti e quindi l’adattamento alla vita pagana è visto come normale e giusto. Giovanni invece, contro il rischio della tiepidezza, esorta alla decisione e alla coerenza. «[Ė] la riflessione di una comunità che riconosce il dono della propria vita nuova, frutto dell’intervento escatologico del Messia, e nello stesso tempo anela al compimento finale», scrive ancora Doglio. Per questo l’autore sceglie il linguaggio letterario apocalittico, allora molto diffuso, per consolare e sostenere nelle prove, dispiegare il senso degli avvenimenti e aiutare la speranza in tempi migliori. Lo scopo è dunque di consolazione, incoraggiamento e formazione spirituale e teologica a partire da quest’intervento «già realizzato definitivamente in Gesù di Nazaret, morto e risorto, Signore della storia, vivo nella sua Chiesa (e questo fa la differenza per esempio con il libro di Daniele, in cui si attende l’intervento futuro di Dio).
3. L’Apocalisse nella storia dell’Occidente e nel tempo odierno
E certo c’è una storia bimillenaria nel nostro Occidente – pensiamo in particolare a Gioacchino da Fiore o a Savonarola – che ha colto nell’Apocalisse il punto di partenza per una lettura della fine della storia come un lavacro cosmico di espiazione con la vittoria degli eletti, mentre più correttamente il libro testimonia lo sforzo di interpretare la storia alla luce della rivelazione divina e chiarirne il senso. E comunque resta interessante che il libro dell’Apocalisse sia diventato la madre di tutte le utopie moderne, grazie alle quali l’Occidente ha una storia diversa dall’Oriente perché ha creduto nella verità e nell’incombenza del novum.
Certo, c’è da chiedersi se oggi, in un tempo storico tutto schiacciato sul presente, si possa percepire ancora come rilevante il linguaggio apocalittico che lega il presente al futuro, in un nesso tra il “già” e il “non ancora” della salvezza. E tuttavia una consapevolezza forte la troviamo nella filosofia contemporanea. Penso ad Adorno, per il quale solo lo sguardo di un messia che dissesta l’esistente può aprire la nostra storia tragica a un destino di salvezza. O a Benjamin, che ricorda come l’angelo della storia abbia le ali impigliate nelle sue macerie e che tutta la storia diventa autentica nell’attesa di un Messia, che entrerà da una porta piccola. Al pensiero femminile che chiede, «nelle prove, di non indurirsi ma lasciarsi temprare». E l’Apocalisse è ricca di porte che aprono agli scenari ultimi della storia. Mentre rivela, lega il “già” e il “non ancora” della Pasqua, ma anche il futuro che verrà e il passato da cui riceviamo le Scritture. Può essere letta come una grande rappresentazione teatrale collocata in una cattedrale imperiale medievali che avevano due absidi.
«Anche la visione dell’Apocalisse – scrive Severino Dianich – si apre con lo spettatore che, invece di guardare solo in avanti, sentendo risuonare una voce potente alle sue spalle, è obbligato a girarsi e allora comincia a vedere. Vede il Kỳrios del mondo, il Cristo risuscitato, circondato dai segni della gloria, della potenza e pronto a giudicare con quella “spada affilata a doppio taglio” che gli esce dalla bocca, cioè con la sua tagliente e decisiva parola». «[Cristo] è la voce potente che chiama: bisognerà girarsi indietro, guardare le cose in una prospettiva diversa. Allora si potrà vedere la voce, perché la Parola si è fatta carne, è diventata soggetto della storia umana ed è ininterrottamente visibile nella memoria della Chiesa che conserva tutto ciò che Gesù ha detto, fatto e sofferto. Ma in realtà, per la sua resurrezione, il ricordo di lui diventa una memoria futuri: essa lievita continuamente in noi, dischiudendo a chi l’ascolta nella fede la doppia dimensione del mondo, quella che viene dalle cose che si vedono e quella che viene dalle cose che non si vedono».
Una comunità e i cristiani resistono guardando avanti, ma anzitutto riascoltando la voce di Dio che, in modo potente può risuonare nelle diverse epoche storiche e svelare il senso ultimo di ciò che accade. Già queste prime annotazioni ci dicono l’attualità dell’Apocalisse: risveglia un senso del tempo diverso da quello in cui siamo immersi. La prima resistenza dei cristiani di fronte al potere violento, che tutto omologa e schiaccia sul presente, e un contributo unico e importante al cammino comune dell’umanità, diventa allora l’impegno a tenere viva una lettura della storia come quella dell’Apocalisse. Noi cristiani non possiamo restare impigliati nell’immediato. Dobbiamo ritrovare il respiro di una lettura più larga della realtà a cui ci apre l’assidua frequenza delle Scritture lette con attenzione al testo e alla vita. Se in certi momenti era importante che accanto alla Bibbia ci fosse il giornale (per una fede incarnata), oggi è necessario che, accanto e prima di giornali e social, ci sia la Bibbia. E che l’alterità del testo spinga ad un’ermeneutica della nostra storia, con grande lucidità, partecipazione e coraggio.
Nella sinodalità, potremmo aggiungere, con il largo respiro che possiamo avere per la cattolicità della Chiesa sparsa nel mondo, che sempre più diventa da noi Chiesa dalle genti, e nell’accoglienza dei migranti come segno dei tempi; in una sinodalità che, accogliendo i gemiti dello Spirito nella storia, ci metta insieme in cammino verso il compimento e, intanto, ci renda capaci di lasciarci interpellare da questa storia che vive grandi catastrofi. Penso come sia importante per questo la narrazione e il compito di missionari, giornalisti, volontari internazionali e una cooperazione tra le Chiese che non si riduca a generica solidarietà ma diventi aiuto reciproco a capire il giudizio e la consolazione di Dio. Ricordo che quando siamo andati in Africa nel nostro gemellaggio pastorale tra diocesi di Noto e di Butembo-Beni, grazie alla sapienza dei vescovi Nicolosi e Katalico, ci siamo detti insieme alla Chiesa gemella: «Siamo chiamati a cantare il Magnificat nelle periferie dell’Impero!».
4. I grandi simboli
4.1. Il trono, l’Agnello, il libro
Si precisa allora, leggendo l’Apocalisse, come ogni resistenza avrà bisogno di obbedienza alla Parola di Dio. La cui forza e attualità viene presentata nell’ultimo libro della Bibbia attraverso un forte linguaggio simbolico. Dopo le sette lettere alle Chiese, che sono chiamate alla conversione, si apre la porta del cielo e al sommo si vede un trono, con uno seduto risplendente come grande pietra preziosa, circondato da anziani incoronati, tutto galleggiante su un mare di cristallo e percorso dal volo misterioso di quattro esseri viventi pieni di occhi. L’universo sta per essere giudicato e l’interrogativo diventa, nell’angoscia del giudizio imminente, come poter conoscere il giudizio del personaggio misterioso che siede in trono?
L’angoscia si scioglie quando appare l’Agnello trafitto, Gesù, con sette occhi – di cui uno che vede lontano – e sul capo sette corna a dire la sua grande potenza. Che consiste anzitutto nella rivelazione del senso del mondo e della storia. Nell’insieme viene evocata una visione luminosa e il rotolo contiene il piano di Dio, la risposta ai grandi perché dell’umanità, che l’Agnello rivela, essendo l’unico capace di farlo «perché ha accolto pienamente il piano di Dio fino ad essere ucciso. La sua capacità viene offerta a tutti gli uomini senza alcuna distinzione, in modo tale che li abilita a collaborare all’instaurazione del Regno con una mediazione tipicamente sacerdotale» (C. Doglio).
4.2. I tre cavalli
Nel contesto di una liturgia di lode, per sette volte il Cristo infrange i sigilli che tenevano chiuso il libro della rivelazione. All’apertura dei sigilli appaiono un cavaliere su un cavallo bianco, altro segno del Cristo, e quindi quello rosso della guerra, quello nero della fame e verde della peste, mentre al quinto sigillo appaiono i martiri della fede, al sesto scompaiono il cielo e la terra per cedere il posto al luminoso spettacolo di una moltitudine di santi, provenienti da ogni nazione, razza, lingua e popolo. Non è concesso però stare a guardare. Al sesto squillo, in mezzo al caos di un’umanità immersa nelle sventure, ci raggiunge la chiamata a ingoiare un piccolo libro, dolce e amaro insieme, un invito alla nostra parte di consapevolezza.
4.3. La donna e il serpente
All’apertura del settimo sigillo tutto di nuovo resta in sospeso e tutto ricomincia, attraverso sette squilli di tromba, che rimandano alle antiche piaghe d’Egitto, e la visione del tempio celeste con l’arca dell’alleanza, scomparsa dal tempo dell’assedio da parte dei babilonesi e che ora ricompare, segno del patto di Dio che non viene meno ed è al di sopra di tutto ciò che accade. Nella resistenza è Dio la nostra forza! E sta accadendo il parto della donna cosmica, vestita di sole, coronata di stelle e con la luna ai suoi piedi. Nasce il bambino che rappresenta la nuova umanità, ma la donna è terribilmente insidiata dal drago rosso, che è il diavolo, e da una bestia incoronata che è il potere politico e da un’altra bestia che è l’insidia dell’eresia. «Il conteso narrativo dell’insieme orienta […] ad un’interpretazione ampia che veda nella donna l’umanità nella sua originale bellezza e anche l’esperienza di misericordia vissuta dal popolo eletto: il punto di partenza della storia umana segnata dal peccato e l’intervento salvifico di Dio a favore di Israele. Il secondo segno è un mostro: viene chiamato drákon, […] identificato senza dubbio con il serpente antico» (C. Doglio).
4.4. Babilonia, la prostituta
Riappare quindi l’Agnello, circondato dalla folla dei santi, e si mette in moto un’altra sequenza settenaria: sette angeli con sette coppe dorate in mano, colme dei flagelli che vengono versati sul mondo. Alla fine viene annunciata la caduta della nuova Babilonia, la prostituta sdraiata sui sette colli (Roma) e ricompare il cavallo bianco, dall’abito macchiato di sangue ma vittorioso: Gesù, il Verbo di Dio che riprende nelle sue mani il potere sul mondo. Alla pace raggiunta vengono assegnati mille anni, passati i quali «Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni». Un monito forse contro l’attesa troppo immediata e un invito alla vigilanza per la violenza che la Chiesa dovrà subire al suo interno. Infatti, «la bestia, su cui la donna è simbolicamente seduta in atteggiamento di dominio, si identifica chiaramente con il mostro salito dal mare (13,1) interpretato come il potere politico corrotto. Il rapporto con tutto il contesto simbolico e il confronto con il resto della tradizione neotestamentaria inducono a vedere nella donna il simbolo del giudaismo corrotto: il popolo alleato si è prostituito con gli stranieri, la città santa è diventata una spelonca di ladri, i destinatari delle promesse divine le hanno rifiutate, opponendosi a Cristo e perseguitando i cristiani. […] Di fatto Babilonia simboleggia il potere del male e l’infedeltà a Dio concretamente presenti nella storia umana […], le due immagini sono molto più ricche di questi corrispettivi storici e chiedono di essere attualizzate nelle situazioni di ogni tempo» (C. Doglio).
Fermiamoci sulla forza dei simboli, ma anche sul contrappunto del canto e la solennità della liturgia. La resistenza – impariamo dall’Apocalisse – ha bisogno di liturgia e di contemplazione (e dei carismi contemplativi!), e mi viene di pensare a ciò che Dossetti chiamava “misura eucaristica della Chiesa”, «perché nell’Eucaristia – come egli scriveva – la Chiesa si realizza nel suo atto più perfetto e completo in terra, l’atto che precede, per così dire, che giunge quasi al limite dell’atto eterno, e quindi tale assemblea è il modello, l’archetipo che possiamo avere presente della realtà più profonda della Chiesa e perciò anche delle linee fondamentali della sua struttura … La scelta del centro permette di trovare l’equilibrio della vita cristiana che supera le false opposizioni tra azione e contemplazione, tra dimensione presente e dimensione escatologica della Chiesa … [E nell’Eucaristia converge] la storia, quella vera, non curiosa, la storia della salvezza: di tutti gli uomini, e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno ‘creatività’ o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini), che sono dei senza storia».
Nella liturgia la Parola ascoltata diventa Parola attuata e aiuta a ritrovare la propria misura nei martiri anzitutto e quindi nei santi, oggi potremo dire dei santi nascosti della porta accanto! Da cui impariamo anzitutto una forte tensione mistica e la consapevolezza che occorre mirare – come diceva Dossetti profeticamente – «non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la potenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore [non trascurando virtù come la fortezza e la giustizia]. Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma alla luce del metastorico, dell’escatologia» (anche gli umili arrivano a consapevolezze simili: penso alla signora Maria Covato, una donna analfabeta ma grande nella carità, ad alcune sue espressione che erano tutt’uno con lo stile sobrio e generoso della sua vita: «Burrasconi, sa manciatu l’Italia, u Signuri sa puttari!; Busch nun po’ mannari a morri tanti figghi ri mamma»).
Un terzo elemento – dopo il discernimento e la liturgia che ci apre alla misura dei martiri – è la vigilanza interna alla Chiesa, alle logiche mondane e alle alleanze con il potere che riducono il cristianesimo a una religione civile. Mi colpisce la superficialità e l’ambiguità che caratterizzano spesso i rapporti con i potenti e il denaro. Penso che sia, invece, importante una distanza (penso alla lucidità su questo del giudice Livatino), anche forti del fatto che noi non dovremmo coltivare interessi nostri ma sempre bene comune e vivere sub tutela Dei e coram Deo!
5. La nuova Gerusalemme e la città a misura di sguardo
Alla fine del libro, la scena splendente della pace raggiunta: cielo nuovo, terra nuova e una nuova città scendente dall’alto, bella come una sposa adorna per il suo sposo, una città dalle mura salde e le porte aperte, una città in cui si celebra e vive la gioiosa convivenza dei figli di Dio, che «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi». Questa visione, se interiorizzata e riportata alla nostra vita, ci dà la forza di costruire la città terrena con la cifra della città celeste. E mi viene di pensare alla città “a misura di guardo” di cui parlava il cardinale Martini nel discorso/testamento del 28 giugno 2002 al Comune di Milano “Paure e speranze di una città”:
«La città – scriveva – è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza di umanità da due pericoli contrari e dissolutivi: quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo, togliendogli un centro di identità; e quello della chiusura nel clan che lo identifica ma lo isterilisce dentro le pareti del noto. La città è invece luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento. […] proprio in forza della sua complessità localizzata, la città permette tutta una serie di relazioni condotte sotto lo sguardo e a misura di sguardo, e quindi esposte al ravvicinato controllo etico, e consente all’uomo di affinare tutte le sue capacità. Essa è infatti sempre meno un territorio con caratteristiche peculiari, e sempre più un mini-Stato dove si agitano tutti i problemi dell’umano. È perciò palestra di costruzione politica generale ed esaltazione della politica come attività etica architettonica. […] La città evidenzia le differenze e stimola la politica al suo ruolo principe di promozione dei diversi, in modo particolare dei più umili fino a che possano raggiungere una uguaglianza sostanziale. Se compito della città è la promozione di tutti gli uomini, questo si realizza non con una equidistanza astratta, ma con scelte preferenziali storiche costose. Solo queste costruiscono un costume utile alla promozione della moltitudine, e non si limitano a lasciare a gesti di sensibilità individuale, peraltro sempre meritori, la creazione d’una città amabile».
Una città a misura di sguardo, aprire gli occhi sulla storia, lasciarsi aprire gli occhi dai martiri. Il nostro sguardo sulla croce gloriosa ci libera dagli sguardi sottomessi ai potenti e ci rende testimoni di speranza anzitutto nell’esserci con cuore grande e occhi aperti. E gli occhi ritornano spesso nel libro dell’Apocalisse, a dire l’esigenza di scrutare il senso della storia e questa singolare performance è replicabile nella continua lotta tra il bene e il male che si apre, da credenti, alla visione dell’azione di Gesù inviato dal Padre per lottare e vincere il male, e alla domanda che ci accomuna a tutti gli uomini: “Che cosa possiamo sperare?”. La risposta si ritrova vedendo la voce. Ebbene, la voce non vede ma si ode, in questo caso va vista perché salva la Parola fatta carne. E, se tutta la storia sarà percorsa da innumerevoli catastrofi, la fine del mondo sarà un cielo nuovo, una terra nuova, la nuova Gerusalemme destinata ad essere la sposa di Dio.
«La contemplazione delle innumerevoli vicissitudini della storia è, nonostante tutto, contemplazione della potenza di Dio. […] Ma Dio è davvero pronto a dispiegare la sua potenza, o questa è davvero così grande da poter vincere quella del male e della morte? Scriveva Sergio Quinzio in un paradossale e inquietante libretto di alcuni anni fa, che il problema cruciale non è se Dio c’è o non c’è, ma se Dio è salvezza, se egli stesso è in grado di salvarsi. […] L’Apocalisse ci conduce per mano fino all’orlo di questo abisso, da un settenario all’altro, come se davvero le sciagure non dovessero avere mai termine. E sul bordo del precipizio ci chiede davvero di avere fede: “Sì, verrò presto!” sussurra la voce e il credente sospira “Vieni, Signore Gesù!”» (S. Dianich). Siamo portatori di una speranza dolcissima ma anche immersi nella vicenda umana, dovendone gustare anzitutto le amarezze. I canti di lode si intrecciano con il clamore della battaglia. In ogni situazione c’è una chiamata, che poi si rinnova successivamente, in ogni istante si gioca una partita più grande, in rapporto con l’Eterno.
«Io credo – scriveva Dietrich Bonhoeffer – che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia. Per questo, egli ha bisogno di uomini che sappiano servirsi di ogni cosa per il fine migliore. Io credo che in ogni situazione critica Dio vuole darci tanta capacità di resistenza quanta ci è necessaria. Ma non ce la dà in anticipo, affinché non facciamo affidamento su noi stessi, ma su di lui soltanto. In questa fede dovrebbe esser vinta ogni paura del futuro. Io credo che neppure i nostri errori e i nostri sbagli sono inutili, e che a Dio non è più difficile venirne a capo di quanto non lo sia con le nostre supposte buone azioni. Sono certo che Dio non è un Fato atemporale, anzi credo che egli attende preghiere sincere e azioni responsabili, e che ad esse risponde».
Maurilio Assenza
Mercoledì della Bibbia 2023, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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