La proposta del direttore degli Uffizi è apprezzata, ma va affrontata con cautela perché nei secoli tante cose sono cambiate.
La proposta del direttore degli Uffizi è apprezzata, ma va affrontata con cautela perché nei secoli tante cose sono cambiate.
La proposta di restituzione da parte dei musei statali di dipinti realizzati per le chiese, espressa dal direttore delle fiorentine Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt, ha suscitato diverse reazioni. Egli si riferisce a quelle opere d’arte religiosa finite in collezioni museali pubbliche non perché acquisite nel corso dei secoli, ma perché, ad esempio, date in deposito senza alcun passaggio di proprietà ufficiale. Come si legge su Avvenire, il direttore ha commentato così la sua idea, nell’ottica della diffusione del patrimonio culturale su tutto il territorio, ovviamente in condizioni di sicurezza:
«In tanti musei statali si trovano tavole, tele, pale e altri dipinti ideati e realizzati per chiese o cappelle. E visto che l’Italia si distingue da altri Paesi per la diffusione del patrimonio dei beni culturali su tutto il territorio, una ricongiunzione storica – ove possibile – riporterà valore ad opere d’arte e luoghi. [I dipinti] nella loro sede originale ritroverebbero il giusto contesto architettonico–spaziale e il rapporto con le altre opere d’arte, con una valorizzazione virtuosa dal punto di vista storico e artistico. E per giunta, le opere ricontestualizzate riacquisirebbero il loro significato spirituale originario, quello che in prima battuta aveva determinato la loro creazione.»
Schmidt ha fatto l’esempio della Pala Rucellai di Duccio di Buoninsegna, giunta agli Uffizi dalla basilica di Santa Maria Novella nel 1948, dove è esposta dagli anni Cinquanta, e mai entrata a far parte delle proprietà del museo. Ma, come spiega lo storico dell’arte Tomaso Montanari, non si sa di preciso dove fosse collocato all’interno della chiesa duecentesca il dipinto, poi anche spostato nella Cappella Rucellai. Dove collocarlo, quindi, tenendo conto che l’edificio sacro è stato trasformato profondamente sia nel Cinquecento che nell’Ottocento?
Piuttosto cauto è infatti il commento dell’arcivescovo della città, il cardinale Giuseppe Betori, per il quale la proposta in sé merita attenzione perché le opere sacre tornerebbero a essere ciò per cui sono nate, ovvero un’espressione della fede, ma ogni caso andrebbe valutato singolarmente. Non si tratta soltanto di riannodare un’opera d’arte al suo contesto originario, perché le trasformazioni di un territorio rischierebbero di farla apparire estranea. Come riportato su Toscana Oggi, per il cardinale la ricollocazione di un dipinto dovrebbe rispondere a tre criteri:
«Il primo riguarda la collocazione dell’opera in rapporto alle modifiche architettoniche che una chiesa potrebbe aver subito nel tempo. Qualora l’ambiente ecclesiale abbia subito forti modifiche (penso alle molte ridefinizioni delle nostre chiese medievali in epoca post-tridentina, o il rifacimento di molte chiese di paese agli inizi del novecento), sarebbe necessario valutare se lo spazio rimodellato potrebbe offrire spazi adatti alla lettura e alla fruizione dell’opera. [Il secondo] riguarda le garanzie di tutela e sicurezza che potrebbero essere assicurate all’opera. [Il terzo è che] l’opera d’arte ritrovi il contesto religioso per cui è nata, un legame cioè non soltanto con un territorio, ma con una comunità di fede, che la riconosca come un riferimento della preghiera e della devozione. Ci sono comunità che ancora oggi rivendicano un’immagine che fu loro sottratta ma che era parte della loro storia devozionale, e altre invece che hanno dimenticato tale legame così che andrebbe verificato se sia possibile ricrearlo.»
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