Un percorso all’interno del Libro dei Salmi, per un cammino di maturità umana e di fede. Salmi 1 e 2.
Un percorso all’interno del Libro dei Salmi, per un cammino di maturità umana e di fede. Salmi 1 e 2.
1. Unità dei Salmi 1 e 2
I Salmi 1 e 2 non portano alcuna intestazione e sono da considerarsi come una vera e propria premessa prima di immettersi nel cammino umano e spirituale, che il Salterio o Libro dei Salmi intende proporre. Il tono del Salmo 1 è squisitamente sapienziale e si rivolge ad ogni uomo e ad ogni donna, che intendono sperimentare la vera beatitudine, dando alla propria vita la possibilità di gustare la vera felicità e tutto questo in un contesto non sempre favorevole. Il Salmo 2 ha un carattere messianico-regale: esso, cioè, riprende la promessa che il Signore ha fatto a Davide e che consiste nel dono di un Figlio e ne annuncia il suo compimento.
Questa attenzione rivolta al Figlio della promessa, che viene inteso come il Messia, che in greco si traduce con Cristo, mentre in italiano vuol dire l’Unto, costituisce la vera chiave di comprensione di tutto il Salterio. Questo Messia promesso rappresenta tutti gli uomini, perché ogni uomo e donna sono chiamati a diventare Figli di Dio a somiglianza del Messia. In questo senso si può ben dire che i primi due salmi sono strettamente legati tra di loro, perché dove si parla dell’uomo, si deve intendere come rivolto al Messia e dove si parla del Messia si può intendere come rivolto ad ogni uomo. Il legame è anche visibile da un punto di vista lessicale, perché il termine beato apre il Salmo1 e di fatto chiude il Salmo 2. Si tratta di una tecnica che viene chiamata inclusione e che serve a far comprendere che si tratta di una unità non separabile.
2. Salmo 1: il vero cammino verso la felicità, aperto ad ogni uomo e donna
Questo primo Salmo non si può definire come una preghiera, ma come una proposta sapienziale rivolta verso ogni persona ed a qualunque fede essa possa appartenere. In discussione è qui il raggiungimento della felicità e la vera realizzazione di se stessi, per cui si può dire che chi vuol progredire nell’esperienza umana e spirituale non deve mai perdere di vista l’orizzonte che viene proposto dall’inizio di questo Salmo. Esso sottolinea che la ricerca della felicità deve essere accompagnata dalla piena avvertenza che la via, che porta ad essa è strettamente legata alla via della giustizia. Si richiede, cioè, un costante discernimento per non lasciarsi affascinare dalle proposte di una felicità a buon mercato, ma che poi alla resa dei conti si traduce in un fallimento e in una vera e propria maledizione. La felicità, quella vera, si presenta inizialmente come velata e man mano che si prosegue con costanza sulla via della giustizia o dei comandamenti, essa si rende sperimentabile.
v. 1: «Beato l’uomo»: sono queste le prime parole del salmo, che mettono subito in chiaro che l’intento di tutto il Salterio è quello di introdurre ogni vero cercatore di senso nell’esperienza di una vera beatitudine. Il riferimento al termine ebraico ci offre la possibilità di arricchire l’apertura del salmo. Beato nel corrispettivo ebraico è ashrè, la cui forma verbale significa: avanzare, slanciarsi, far camminare, per cui si può dire che nel termine beato può essere compresa l’idea del cammino, della via e questo ci fa concludere che la felicità richiede un cammino, fatto di discernimento e di scelte responsabili.
v. 1: «beato l’uomo, che non entra (…), che non resta (…), che non siede»: la porta della beatitudine si apre per colui che è ben disposto a fare proprio questo triplice no. L’ordine dei verbi indica una certa progressione, quasi ad immaginare una serie di azioni, che poste una dopo l’altra, fanno totalmente deviare dalla vera strada da percorrere. Del resto ogni credente battezzato sa benissimo che non si può intraprendere un vero cammino cristiano, che si sintetizza nella sequela del Signore Gesù, senza prima aver pronunciato il triplice no nei confronti di una mentalità mondana, centrata sulla esaltazione del proprio ego e sulla ricerca del proprio interesse e della propria sicurezza anche a scapito degli altri.
Avere la forza e la lucidità per pronunziare con la vita questo triplice no porta chiaramente con sé come conseguenza il porsi fuori da quel “ma fanno tutti così”. L’uomo e la donna che decidono di incamminarsi per la via della beatitudine sono subito costretti a scoprire fin dalle prime battute che una tale strada li condanna di fatto ad una vera solitudine, perché la loro diversità mal si adatta con il pensare e con l’agire dei più. Essi “non entrano nel consiglio dei malvagi”; essi, cioè, rifiutano di considerare come normale un certo modo di gestire le cose di questo mondo, accettando che i poveri diventino sempre più poveri. Essi “non restano nella via dei peccatori”, perché di fronte all’arroganza dei malvagi non accettano la via delle collusioni e dei compromessi. Essi, infine, non siedono in compagnia degli arroganti, in quanto sono disposti a subire gli sberleffi di quanti usano le parole per dare una veste di razionalità all’empietà dilagante. La scelta compiuta da quest’uomo o da questa donna fa di loro delle persone, che escono fuori dal coro e che danno l’impressione di essere dei disadattati.
v. 2: «Ma nella legge (Torah) del Signore trova la sua gioia». Se per chi guarda dall’esterno tutto è visto come un’inutile follia, la verità più profonda sta a dimostrare che chi ha scelto di percorrere la strada della beatitudine, in realtà è in grado di sperimentare quella gioia, che, dice Gesù, «nessuno vi potrà mai togliere» (Gv 16,22). Per il salmista si tratta di quella gioia, che proviene dal lasciarsi abbracciare dalla Torah. Chi orienta tutto il suo desiderio nel far propria la volontà di Dio così come è rivelata nella Torah può andare sperimentando lungo il suo cammino di essere abitato dalla presenza del suo Dio. Di quest’uomo o di questa donna che si ritrova impegnata nell’esercizio dell’ascolto della Parola, dono di amore del Dio vivente, viene detto che ella ci prende gusto, si compiace di essa tanto da trovare quella gioia, che dà pienezza di senso alla sua vita.
Questo gusto e questa compiacenza in riferimento alla Parola spingono ogni orante a mantenere un contatto costante con la Torah soprattutto attraverso l’esercizio del meditare, o, ancora meglio, del “ruminare”. Si tratta, cioè, di un ripetere la Parola ascoltata, facendola salire dal cuore alle labbra, ridicendola in modo tale da dare l’impressione di un lento e sottile mormorare o bisbigliare. Questa Torah accolta e gustata a sua volta è quella che dà forma a quest’uomo beato, perché gli fornisce quella identità e quella stabilità, che gli consentono di affrontare il momento in cui la solitudine può farsi dolorosa. Più egli cresce nell’esercizio del “ruminare” la Parola e più egli la fa sua, se ne appropria e così il cammino di questo beato si fa sempre più coinvolgente, sempre più familiare tanto da abbracciare il giorno e la notte. Si tratta, cioè, dell’assunzione di uno stile di vita, che caratterizza ormai il suo stesso modo di abitare in questo mondo.
v. 3: «È come albero piantato lungo corsi di acqua». Per dire la pienezza di vita sperimentata da quest’uomo beato il salmista ricorre al simbolismo dell’albero, che può godere del beneficio dell’acqua abbondante. Chi abbraccia lo stile di vita proposto dalla Torah assomiglia ad un albero trapiantato lungo corsi acqua: egli, cioè, si ritrova ad essere sradicato dal proprio terreno di morte, per essere trapiantato presso quelle acque, che gli permettono di portare frutti a suo tempo. In tal modo la Parola ascoltata e ruminata rende questo giusto un uomo o una donna operosa capace di fruttificare a suo tempo. Le caratteristiche di questa fecondità si possono racchiudere in tre note: è una vita che dà frutto a suo tempo, per cui essa non è preda dell’efficientismo, del tutto e subito; le foglie di quest’albero non appassiscono, per cui si può dire che si tratta di una vita, che profuma già di eternità; l’altra nota è data dal fatto che tutto quello che fa, riesce bene, perché il Signore porta a compimento l’opera iniziata
v. 3: «Non così, non così i malvagi, ma come pula…». Per descrivere l’insignificanza del malvagio il salmista ricorre all’immagine della pula, che sarebbe il sottoprodotto del grano. Non si può trascurare il fatto che il versetto inizia con un doppio «Non così», come a sottolineare che se è vero che la vita del malvagio è simile alla pula, essa comunque continua ad esercitare un suo fascino nel cuore dell’uomo beato. Questo significa che il cammino di quest’uomo o di questa donna richiede un sapiente discernimento, che, del resto, viene facilitato dall’opera dello Spirito, che come vento disperde ogni cosa.
vv. 5-6: «Non si alzeranno i malvagi nel giudizio (…) la via dei malvagi va in rovina». Nei tribunali umani ad alzarsi è l’innocente, per cui non c’è resurrezione per il malvagio. Il salmo si chiude con la sottolineatura che la via del malvagio non porta a nulla.
3. Salmo 2: il dono del Figlio come ultimo orizzonte della storia
Questo salmo sposta l’attenzione, per cui dallo sguardo sull’uomo e sulla sua capacità di discernimento si passa a considerare come Dio riprenda l’iniziativa nei confronti della storia umana, per avviarla verso quel termine, che possa corrispondere pienamente al suo disegno nei confronti della vocazione dell’uomo. Egli è Colui che mantiene la promessa di un Figlio, così come aveva giurato a Davide e che nel corso dei secoli aveva alimentato da parte del popolo di Israele l’attesa del Messia. È l’attesa di quel Figlio di Davide, che ricolmo del dono dello Spirito e quindi Unto, cioè impregnato di questo Spirito, possa essere capace di dare una svolta definitiva alla storia degli uomini e di costituire, così, la compiacenza del Padre.
Questa visione messianica rappresenta il fondamento, che ci permette di interpretare e di comprendere il senso di tutto il Salterio, perché dove si parla dell’uomo, si deve intendere come riferito al Messia, che fa propria la “carne” dell’umanità, mentre dove si parla del Messia si può intendere come riferito alla vocazione di ogni uomo. Il Messia rappresenta, in effetti, tutti gli uomini e per converso ogni uomo e ogni donna sono destinati a diventare figlio/a di Dio a somiglianza del Messia. Tale cammino verso l’esperienza di una vera figliolanza nei confronti di Dio Padre diventa possibile attraverso una duplice obbedienza: alla Torah ed al Messia, il Cristo il Figlio di Dio.
Tutta la storia della salvezza gravita attorno a questa promessa di un Figlio, tanto da costituire il filo conduttore il filo conduttore fino alla pienezza dei tempi, tanto che l’apostolo Paolo può dire: «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Per gli Atti degli Apostoli è Gesù colui che ha portato a compimento la promessa e che adesso è intronizzato alla destra del Padre (cf. At 2,22-36) ed è Lui che attendiamo e che continua a venirci incontro in modo che tutta la storia graviti su di Lui.
v. 1: «Perché le genti sono in tumulto ed i popoli cospirano invano?». Il Salmo si apre con un grande interrogativo, che viene posto da una voce fuori campo e che riguarda le vicende del mondo: Egli guardando come vanno le cose si chiede perplesso perché il mondo sia attraversato da questo tumulto, da questo stato di agitazione. Quello che più lo impressiona è l’atteggiamento dei popoli, il cui cuore è perennemente tentato dall’idolatria, una parola che è evocata dal termine invano.
vv. 2-3: «Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo consacrato». I potenti della terra di fatto perseguono un’azione politica che va a cozzare irrimediabilmente contro il disegno di Dio: essi in concreto per mantenere e per accrescere il loro potere si chiudono al futuro e lo chiudono a tutti gli altri. Re, principi, governanti e tutti coloro che sono detentori di un potere dichiarano apertamente di non sopportare i vincoli di un’autorità superiore che li relativizza. Il Signore, che non intende essere estraneo alla storia degli uomini, viene percepito come un grande disturbatore, uno che pone dei vincoli e con Lui anche il suo Messia, che costituisce il sacramento del suo rivelarsi, perciò essi dicono: «gettiamo via da noi il loro giogo». Eppure Gesù non smette di invitare tutti a prendere il suo giogo: «Venite a me voi tutti che siete stanchi ed oppressi ed io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi ed imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11, 28-29).
v. 4: «Ride colui che sta nei cieli». Adesso la voce fuori campo sposta la sua attenzione verso Colui, che è il vero protagonista della storia umana. Egli abita al di sopra dei cieli, per questo è al di sopra di ogni tumulto ed è in grado di esercitare una vera sovranità nei confronti di coloro, che si sentono slegati da ogni legge e da ogni vincolo. Il suo sorriso è capace di squarciare la fitta tenebra dell’arroganza e della violenza. Il sorriso è come un fascio di luce, che penetra nel fondo del cuore umano, aprendolo a nuovi sguardi ed a pensieri di pace.
v. 5: «Egli parla nella sua ira»: Il sorriso di Dio è strettamente legato alla sua ira, che va compresa come il segno di una incrollabile coerenza per quanto riguarda la sua volontà di amore nei confronti della sua creatura. Questa sua coerenza, questa estrema fedeltà al proposito di salvezza sconvolge il mondo interiore di chi pretende di gestire il mondo a proprio piacimento, preoccupato unicamente di salvaguardare il proprio potere.
v. 6: «Io stesso ho stabilito il mio sovrano». Adesso è il Signore stesso che parla e che rende noto la sua iniziativa in riferimento al Re-Messia, il quale porterà a pieno compimento il disegno di Dio, quando al suo ritorno ricapitolerà ogni cosa, facendo sì che Dio sia tutto in tutti.
v. 7: «Voglio annunciare il decreto del Signore: Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”»: Dopo la voce di Dio, che rivolgendosi a tutto il mondo ha presentato il Messia, che deve realizzare il suo disegno, adesso è lo stesso Messia che prende la parola e ci mette a parte di questo dialogo tra Padre e Figlio. Il Messia atteso e che Dio ha già costituito come Signore dell’universo, si presenta a noi nella sua qualità di Figlio, di uno, cioè, che vive con Dio un rapporto di estrema intimità e che allo stesso tempo è impegnato in un ascolto attento e obbediente della sua volontà nei confronti della storia degli uomini. Per noi cristiani questa presentazione del Messia, in quanto il Figlio, avviene nella scena del battesimo, quando Gesù si mette in fila con i peccatori per farsi battezzare. In quel momento, dicono gli evangelisti, «Una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Lc 3,22). A nostra volta il battesimo, che ha la forza di legarci strettamente al Messia, il Figlio, ci apre alla nuova dimensione di figli adottivi, coinvolti anche noi nella stessa missione del Figlio e partecipi del sogno di Dio Padre e Madre nei confronti del mondo.
v. 9: «Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai». Il Figlio-Re riceve il programma di governo. Si tratta di un’azione decisa, rivolta non a distruggere, ma a promuovere la vita e ad eliminare tutto ciò che ad essa si contrappone. È quanto mai indicativo il rifermento al vaso di argilla, perché nel libro di Geremia viene detto al profeta di scendere nella bottega del vasaio ed è questa la visione che gli presenta davanti: «Ora se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo» (Ger 18,4). E così si può dire che quell’azione del frantumare non è per la condanna, ma per ricevere una nuova forma, per essere riportati ad una storia di vita e non di morte.
v. 10: «Ed ora siate saggi, sovrani». Dopo la voce di Dio e quella del Re-Messia, torna la voce del commentatore, che si rivolge a quanti si sentono investiti di un potere e di una responsabilità, a quanti hanno potuto assistere alla scena della intronizzazione per invitarli a sentirsi coinvolti nella partecipazione a questo modo di esercitare la regalità, che è prerogativa della sapienza.
v. 11: «Servite il Signore con timore e rallegratevi»: Il motivo del rallegrarsi è strettamente legata a questo modo diverso di esercitare la regalità, che rende possibile l’instaurarsi di una convivenza, che renda possibile la vita e le relazioni tra gli uomini.
v. 12: «Baciate il Figlio (…) beato chi in Lui si rifugia». Questa è una delle possibili traduzioni e che costituirebbe l’atto di omaggio nei confronti del consacrato. E il bacio è comunicazione di respiro: noi gli consegniamo il nostro e Lui il suo! Il Salmo si chiude con la riproposizione della beatitudine, ma questa volta essa è in riferimento a chi è disposto a porre la propria fiducia nel Figlio-Messia. Questo nostro affidarci è un tutt’uno con la fede e con l’ascolto della sua parola. Quanti sono pronti a questo rischio della fede scopriranno nel loro cammino un gusto nuovo, il gusto della vita e verranno sempre più confermati in quell’apprendistato della preghiera, che è un tutt’uno con quello dell’imparare a vivere ed a vivere in consonanza alla loro verità di figli.
Nella sua obbedienza a Cristo Signore ed al suo Vangelo di pace, in questo sua piena fiducia in Lui ogni cristiano scopre di acquisire quella vera sapienza che rende saggi e capaci di servire il Signore con timore e tremore. Vivere da figli è, quindi, il programma che si pone davanti a coloro che intendono compiere il cammino della lettura/preghiera del Salterio, ben sapendo che tutto questo li espone ad una lotta continua per lasciare regnare pienamente Cristo nella propria vita, finché ognuno non sentirà rivolte a sé le parole dell’Apocalisse: «Io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,7).
Gregorio Battaglia
Mercoledì della Bibbia 2021, Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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