Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: l’amore come senso e dinamismo della vita cristiana.
Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: l’amore come senso e dinamismo della vita cristiana.
Teresa nell’ultima fase della sua vita di fronte alle sollecitazioni della priora e delle sorelle accetta di parlare con molta semplicità della sua esperienza umana e spirituale. Ella parla ben volentieri di come il Signore l’abbia gradualmente introdotta in quella che Teresa ama chiamare «la scienza dell’Amore» (Ms B 241, p. 230).
1. Noi oggi che leggiamo Teresa di Lisieux
Ma prima di ascoltare le sue riflessioni e la sua esperienza di vita, credo che sia opportuno fermarci a considerare il contesto storico e culturale in cui ci troviamo immersi e che ci inquieta. A molti di noi è venuto spontaneo paragonare gli inizi di questi anni ’20 del nuovo secolo con quelli del secolo trascorso. Le condizioni storiche sono totalmente differenti, ma una cosa certamente li accomuna e questa è data soprattutto da un senso di spaesamento e da un inespresso desiderio di ritrovare una forte identità nazionale. Il XX secolo si è avviato alla sua chiusura con la caduta del muro di Berlino e con esso la caduta di tutte le ideologie, che ha comportato il seppellimento della grande illusione egalitaria, alimentata dalla dottrina comunista e fatta propria dalle classi lavoratrici, che pensavano di poter essere soggetti attivi di storia.
Il secolo XXI, invece, si è aperto con l’affermarsi della globalizzazione in chiave liberistica, che, se da una parte ha favorito l’annullamento delle distanze, grazie ai nuovi dispostivi tecnologici, dall’altra ha accresciuto le disuguaglianze economiche tra gli Stati e all’interno di ogni singolo Stato. Le conseguenze di tutto questo, unito all’acuirsi della crisi climatica, sono sotto gli occhi di tutti: esplosione dei movimenti migratori; facile ricorso alla guerra, come mezzo politico per difendere i propri interessi economici; frantumazione dei fragili equilibri nazionali e relative spinte alle autonomie localistiche. La guerra di questi giorni tra Russia ed Ucraina, ma dovremmo dire più precisamente tra Russia e Stati Uniti coadiuvati dai paesi europei, ha reso il panorama ancora più inquietante, perché in filigrana si intravvede la grande lotta per l’egemonia mondiale, economica e politica, tra Stati Uniti e Cina e che potrebbe sfociare in una guerra anche atomica.
In sintesi potremmo dire che siamo sull’orlo dell’abisso e pensiamo di poter continuare ad agire come se Hiroshima non ci fosse stata e che la salvezza sarà dalla parte di chi sarà in grado di far partire il primo colpo. Questo clima di sospetti e di guerre sta potentemente condizionando il nostro linguaggio, per cui nei giornali che fanno opinione pubblica la parola pace è stata totalmente bandita, mentre tutta l’attenzione si concentra sull’altro, percepito come nemico da vincere o semplicemente da annientare. I movimenti fascisti in tutto questo hanno avuto buon gioco, proponendo modelli di violenza, alimentando idee di superiorità e di negazione della differenza altrui. P. Tito Brandsma nei giorni antecedenti la II guerra mondiale si rese conto che i grandi movimenti nazi-fascisti, che tanto puntavano sulla forza e sulla superiorità di una razza su tutte le altre, costituivano di fatto la sconfessione del messaggio cristiano, che ha fatto della legge dell’amore il perno della vita personale e sociale. Con amarezza dobbiamo constatare che la storia umana si ripresenta per grande sintesi come un continuo di odio, di violenza, di invasioni, di aggressioni per fini di rapina, e tutto questo molte volte sostenuto e favorito dalle stesse fedi religiose.
Per la Scrittura Santa l’abbandono del modello rappresentato da Caino e che si traduce, nei fatti, nel disinteresse o nell’eliminazione del fratello, costituirebbe l’unica strada di uscita dalla grande tentazione imperiale, per immaginare un altro modo di impostare i rapporti tra gli esseri umani, fondato sulla cura e sul rispetto dell’altro. Da questo punto di vista l’esperienza di Mosé e del popolo di Israele, che si ritrovano schiavi in Egitto, è quanto mai paradigmatica, perché qui si tratta di prendere le distanze da quello stile egiziano, che è stile imperiale, fondato sulla logica della forza e sulla schiavizzazione delle persone. Per Israele, come per Mosé, lasciare fisicamente la terra di Egitto è stato, forse, il passo più facile, ma il difficile per loro è stato il doversi spogliare di quell’egiziano che era stato interiorizzato e che continuava a riemerge ad ogni piè sospinto.
Ci son voluti quarant’anni di deserto per sperimentare la presenza amante di Dio e per comprendere allo stesso tempo che la libertà a cui tanto si aspira deve coniugarsi necessariamente con la responsabilità nei confronti degli altri. In alternativa al verbo della violenza, così connaturale nell’esperienza delle varie generazioni, dovrebbe farsi strada quello dell’amore, nella sua forma di interesse per l’altro, di cura, di dono e di perdono. Si tratta, cioè, di abbandonare la legge della violenza e del delirio di onnipotenza per abbracciare quella dell’amore, in quanto dono di sé. Del resto abbracciare il comandamento dell’amore significa rendersi conto che l’umanità non ha altra strada di salvezza se non quella dettata dall’amore, pena la stessa dissoluzione dell’umano.
Il passaggio non è così semplice, perché la persona umana tende a farsi condizionare dal sentimento della paura, dal bisogno istintivo di possedere, dalla ricerca della propria identità attraverso l’affermazione di sé a discapito degli altri. Si tratta di un movimento, che tende a chiudere l’uomo in se stesso, negandolo alla relazione con l’altro. La dinamica dell’amore è tutt’altra cosa, perché esso spinge la creatura umana a decentrarsi, ad uscire fuori da se stessa, per avventurarsi nel campo dell’incontro con l’altro, costruendo con lui o con lei una vera relazione di vita. Nel Vangelo di Matteo Gesù dice chiaramente che per disporsi a camminare per la sua strada, bisogna imparare a poter dire di no alle ragioni del proprio ego: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua, perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).
2. Amare è vivere, è dare un senso pieno alla propria vita
Teresa di Lisieux, pur nel suo breve itinerario di vita, è andata scoprendo con sempre più chiarezza che la pienezza di una vita non risiede nelle grandi opere compiute, ma nell’umile e gioiosa accoglienza del mondo e degli altri, da ricevere come dono e come responsabilità. Alla scuola dei grandi maestri, come Agostino, Teresa d’Avila, Giovanni della croce, Francesco di Sales, ma soprattutto alla sequela del suo Maestro e Signore, Gesù di Nazareth, Teresa ha ben compreso che nella vita cristiana solo il comandamento dell’amore è tutto, perché capace di illuminare e motivare ogni impegno ed ogni relazione umana. Nella poesia “Vivere d’amore” per ben 13 strofe Teresa cerca di esplicitare cosa sia per lei questa scelta così fondamentale nella sua vita. Scrive così nella strofa 5a: «Vivere d’amore quaggiù è un darsi smisurato, senza chiedere salario; senza far conti io mi do, sicura come sono che quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino che trabocca di tenerezza e corro leggermente […] Non ho più nulla e la mia sola ricchezza è vivere d’amore» (P 9, str. 5, p. 826).
Nel caso di Teresa la parola amore non fa rima con sentimento, che non è escluso, ma che da solo non riesce ad esprimere la densità di questa scelta, perché qui è in gioco tutta la persona umana, in quanto intelletto, sentimento e volontà ed allo stesso tempo è in gioco lo stesso modo di abitare questa terra. Se ci si lascia guidare dall’istinto del possesso, anche la stessa esperienza di amore si riduce a volere l’altro per sé, chiudendolo di fatto in una prigione asfissiante o riducendolo a mezzo della propria affermazione. Per Teresa il vivere di amore significa, invece, una voluta rinuncia a far girare il mondo attorno a se stessa ed al proprio bisogno di essere riconosciuta e ammirata. Nella sua scelta ciò che conta è proprio questo «darsi smisurato, senza chiedere salario», perché la vita si accresce nella misura in cui viene donata.
Il programma di vita proposto da Teresa sembra appartenere ad un altro mondo, perché nel nostro di oggi il programma è ben diverso ed è sintetizzabile in due verbi: produrre e consumare. Per l’umanità del XXI secolo sembra che non vi sia altra ragione per vivere se non dentro questo cerchio asfissiante del produrre e del consumare. Il sopravvento dell’economia sulla politica ha di fatto messo fuori gioco quella che una volta veniva chiamata la “politica dei fini”, e a cui veniva demandata la scelta di cosa produrre e per quale finalità. Di fronte a questo programma del nostro mondo contemporaneo viene spontaneo chiedersi dove abiti il vero realismo, se sia in questa logica del produrre e del consumare o nello sguardo di Teresa che con grande semplicità canta: «Vivere d’amore è un navigare incessante, seminando nei cuori la gioia e la pace» (P 9, str. 8, p. 827).
3. Dove ricercare la scienza dell’amore?
Con molta onestà dobbiamo riconoscere che il saper amare non rientra nel nostro bagaglio connaturale. Lasciati a noi stessi, non sappiamo fare altro che ripetere le stesse logiche di sempre. Mi sembra quanto mai opportuno risentire nel Manoscritto B le parole di Teresa tutta protesa alla ricerca della scienza dell’amore: «La scienza dell’amore, oh sì! La parola risuona dolce all’anima mia, desidero soltanto questa scienza. Per essa avendo dato tutte le mie ricchezze, penso, come la sposa dei Cantici, di non aver dato nulla. Capisco così bene che soltanto l’amore può renderci graditi al Signore, da costituire esso la mia unica ambizione» (Ms B 241, p. 230).
Per apprendere questa scienza o, ancor meglio, questa sapienza, Teresa ha compreso molto bene che bisogna rivolgere lo sguardo e l’attenzione verso l’unico Maestro, capace di introdurci nei segreti dell’amore. Nello stesso nome che ella ha scelto per sé: “Teresa del Bambino Gesù e del volto santo” è ben sintetizzato quel mistero di Amore, che si è reso visibile nella carne umana di Gesù di Nazareth. Sulle sue labbra c’è lo stesso stupore di Paolo, che nella lettera ai Romani esclama: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Dall’alto della sua Croce, segno compiuto del suo amore per l’umanità, Cristo ci ha donato il suo Spirito e così Paolo può affermare: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5,5). Teresa, nel nome che si è dato, unisce in un unico mistero quello dell’incarnazione del Figlio e quello della sua passione gloriosa. È il mistero dell’amore gratuito di Dio che ama abbassarsi, svuotarsi, rimpicciolirsi per farsi vicino alla sua creatura e così attirarla nel suo dinamismo di amore.
Il cammino di Teresa è stato un progressivo abbandono a questo amore misericordioso, cercando a sua volta di corrispondere senza opporre alcuna resistenza. Nel Manoscritto C così ella si esprime: «Il tuo amore mi ha prevenuta fin dall’infanzia, è cresciuto con me ed ora è un abisso del quale non posso scandagliare la profondità. L’amore attira l’amore, così, Gesù mio, il mio si slancia verso di te. […] Per amarti come tu mi ami, mi è necessario far mio il tuo stesso amore. […] Quaggiù non posso concepire un’immensità di amore più grande di quello che ti è piaciuto prodigarmi gratuitamente, senza mio merito alcuno» (Ms C 336, pp 304-305). In una lettera indirizzata alla sorella Celina ella accenna a questo amore folle del Signore: «Il solo delitto rimproverato a Gesù da Erode fu quello di essere pazzo…, ed io penso come lui! Sì c’era della follia nel cercare quelle povere cose, che sono i cuori dei mortali e farsene il proprio trono. […] Era pazzo il nostro Diletto a venire sulla terra a cercare dei peccatori per farne i suoi amici, i suoi intimi, i suoi simili» (L 148 [19/08/1894], p. 638).
Per Teresa, che ha avuto la grazia di poter intuire la profondità di questo amore folle del suo Signore, la vita non ha altra motivazione per essere vissuta se non quella di corrispondere a questo amore sovrabbondante, per cui ella può dire: «Ora non ho più alcun desiderio se non quello di amare Gesù fino alla follia». E più avanti aggiunge: «Nel celliere interno del mio Amato ho bevuto e quando sono uscita in tutta questa pianura non conoscevo più nulla […], perché ora tutto il mio esercizio è di amare». Qui c’è davvero racchiuso tutto il senso della vita cristiana, in quanto accoglienza gioiosa e stupita di questo diluvio di amore, perché esso trovi dimora nella creatura e da essa si espanda, impregnando di sé ogni relazione umana.
Quest’amore, in quanto dono gratuito di sé, puro spreco della propria vita, o come direbbe Teresa, «rosa sfogliata», proviene dal Signore: è davvero, insieme alla fede ed alla speranza, una virtù teologale, perché è Dio stesso che si consegna con il suo Spirito, se la creatura umana è disposta ad aprire la porta del suo cuore. Questa piena libertà, di cui gode la creatura umana, fa di Dio un mendicante di amore, per cui Teresa si sente di esclamare: «Oh! Dio mio, il vostro amore disprezzato resterà dentro il vostro cuore? Mi pare che se voi trovaste anime che si offrissero come vittime di olocausto al vostro amore, voi le consumereste rapidamente, mi pare che sareste felice di non comprimere le onde di infinita tenerezza che sono in voi» (Ms A 235, p. 222).
4. «Ho capito cos’è la carità»
Questa affermazione di Teresa non è il frutto di una indebita presunzione, ma il risultato del suo cammino spirituale ed umano. Ella la presenta come la sua grande scoperta, che le ha permesso di elaborare in maniera molto chiara la via da percorrere. Queste le sue parole: «Senza scoraggiarmi continuai la lettura e trovai sollievo in questa frase: “Cercate con ardore i doni più perfetti, ma vi mostrerò una via ancora più perfetta”. E l’Apostolo spiega come i doni più perfetti sono nulla senza l’Amore. La Carità è la via per eccellenza che conduce sicuramente a Dio. […] Capii che l’amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che è eterno. Allora nell’eccesso della mia gioia delirante esclamai: Gesù, Amore mio, la mia vocazione l’ho trovata, finalmente, la mia vocazione è l’amore» (Ms B 254, p. 238).
La scoperta di Teresa non riguarda un compito particolare da assolvere all’interno della comunità ecclesiale o della stessa società civile. Qui non è in gioco il carisma da abbracciare o il miglior servizio da offrire, ma la modalità di stare all’interno della Chiesa e dello stesso mondo. Chi sceglie la Carità, o diremmo ancora meglio, chi si lascia abitare dalla Carità come la via per eccellenza, sceglie una via che porta a Dio, ma Dio è la pienezza della vita, per cui dovremmo concludere che questa via porta alla pienezza della vita, della vita che non muore più. Abbracciare la via della Carità non significa ritrovarsi con degli atti da compiere, ma si tratta principalmente di far sì che gli atti e le decisioni che si prendono, debbano ritrovare in essa la loro ultima motivazione.
Teresa in senso esistenziale (e non semplicemente devozionale) parla della sua volontà di offrirsi totalmente all’Amore misericordioso, perché Lui «trasformi in fuoco questo niente» (Ms B 255, p. 239); e altrove dice: «Chiedo a Gesù di attirarmi nel fuoco del suo amore, di unirmi a Lui così strettamente che in me viva ed agisca Lui» (Ms C 338, p. 306). La conseguenza di questa scelta porta con sé l’abbattimento di ogni barriera e lo scardinamento di ogni clausura, perché per chi ama non ci sono più nemici da cui guardarsi, ma fratelli e sorelle di cui farsi carico nella preghiera e nella vita quotidiana. Per chi ama, il mondo non è più una realtà ostile, da cui fuggire, ma è uno spazio ospitale dove poter costruire una vera rete di fraternità.
5. L’amore non si nutre di parole, ma di opere
Nel suo breve itinerario di vita Teresa ha potuto contemplare il folle amore del Signore Gesù, a cui non si può non rispondere se non con lo stesso grado di follia, se è vero che «l’amore attira l’amore» (Ms C 336, p. 304). Scegliere di vivere di amore non significa, però, impegnarsi in una preghiera continua per poter stare sempre di fronte all’Amato, perché il rapporto di Alleanza, che si instaura tra il Signore e la creatura umana, coinvolge quest’ultima in quella stessa passione di amore, che il Signore nutre per questa umanità concreta.
Teresa, rivolgendosi alla Madre superiora così scrive: «Quest’anno, cara Madre, il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cosa è la carità; prima lo capivo, è vero, ma in un modo imperfetto, non avevo approfondito queste parole di Gesù: “Il secondo comandamento è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”. Mi dedicavo soprattutto ad amare Dio e amandolo ho capito che l’amore deve tradursi non soltanto in parole, perché “non coloro che dicono Signore, Signore! entreranno nel Regno dei cieli, bensì coloro che fanno la volontà di Dio”. Questa volontà Gesù l’ha fatta conoscere […] dice loro con tenerezza inesprimibile: “Vi do un comandamento nuovo di amarvi reciprocamente, come io ho amato voi, amatevi l’un l’altro”. […] Capisco ora che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, non stupirsi delle loro debolezze, edificarsi dei minimi atti di virtù, che essi praticano, ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare affatto chiusa nel fondo del cuore» (Ms C 288-289, pp. 265-266).
Volendo far comprendere meglio cosa possa significare l’aver ricevuto il dono della Carità, Teresa riprende l’immagine che Gesù usa nelle beatitudini, quando rivolto ai discepoli dice: «Voi siete la luce del mondo; […] non si accende una lampada per metterla sotto il moggio […] Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16). Ella così lo commenta: «Mi pare che questa fiaccola rappresenti la carità, la quale deve illuminare, rallegrare non soltanto coloro che mi sono più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno» (Ms C 289, pp. 266-267).
Per Teresa questo accostamento tra carità/amore e luce non è per nulla forzato, perché l’amore che si riceve in dono dal Signore è fuoco, è passione di amore, è Spirito che urge dentro di noi e che ci spinge ad operare nel segno della gratuità e della ricerca della bellezza, di cui l’altro/a è comunque portatrice. Dove una persona umana decide di vivere nella logica dell’amore tutta la casa ne viene illuminata, ma per casa è da intendere non soltanto l’ambito familiare o quello della comunità religiosa o ecclesiale, quanto piuttosto il mondo intero, che è la casa degli uomini, dove Dio vuole prendere dimora. Di fronte alla possibile tentazione di rinchiudere l’amore nell’ambito delle parole, Teresa si rivolge al Vangelo, perché, ella dice: «nel Vangelo il Signore spiega in che cosa consiste il suo “comandamento nuovo”» (Ms C 295, p. 272).
Per spiegare a se stessa e a quanti la leggono come vivere nel concreto la scelta di amare, ella riprende la pagina delle Beatitudini di Matteo e di Luca, dove emerge chiaramente che il comandamento nuovo di Gesù ci chiede di fare un bel salto di qualità. Scrive Teresa: «Dice in s. Matteo: Sapete che è stato detto: Amerete il vostro amico e odierete il vostro nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano» (Ms C 295, p. 272). E subito dopo lei stessa aggiunge: «Ma non basta amare, bisogna dimostrarlo. Si è naturalmente felici di fare un dono ad un amico, soprattutto ci piace far delle sorprese, ma ciò non è affatto carità, perché lo fanno anche i peccatori. Ecco ciò che Gesù mi insegna ancora: “Date a chiunque vi chiede e se vi prendono ciò che vi appartiene, non richiedete”. Dare a tutte coloro che chiedono è meno dolce che offrire spontaneamente per l’impulso del cuore (Ms C 296, p. 272).
Certamente la proposta di vita contenuta nella pagina delle Beatitudini può sembrarci molto ostica, ma continua Teresa: «quando la si accetta, sentiamo subito la sua dolcezza ed esclamiamo col Salmista: “Ho corso la via dei vostri comandamenti, dopo che voi avete dilatato il mio cuore”. Soltanto la carità può dilatare il mio cuore. Oh! Gesù, da quando questa fiamma dolce mi consuma, corro con gioia sulla via del vostro comandamento nuovo. Voglio correre in essa fino al giorno felice nel quale, unendomi al corteo verginale, potrò seguirvi negli spazi infiniti, cantando il vostro cantico nuovo, quello dell’Amore» (Ms C 296, p. 273).
P. Gregorio Battaglia
Mercoledì della spiritualità 2023 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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