La ringrazio di trattarmi come una vera sorella, questo titolo mi è caro

Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: l’esperienza di fraternità e sororità.

1. Premessa

Una cosa che sorprende, a proposito di Teresa di Lisieux, è il fatto che molti studiosi si siano interessati a lei, ai suoi scritti, alla sua esperienza spirituale; non solo agiografi, ma teologi: André Combes, René Laurentin, von Balthassar, Francois Six; filosofi: Henri Bergson, Jaques Maritain; scrittori: Giorgio Papasogli, Jean Guitton; romanzieri: Van der Meerch; cineasti: André Haguet; ecc. Recentemente, perfino l’UNESCO (Agenzia dell’ONU) si è interessato a lei e l’ha inclusa nell’elenco delle sessanta personalità i cui anniversari (che ricorrono nel biennio 2022-2023), vanno commemorati perché «hanno contribuito in modo universale al bene dell’umanità».

Teresa è annoverata tra le donne che «con la loro vita, le loro azioni e i loro scritti hanno promosso i valori della pace». Ci possiamo chiedere: quale la ragione, il motivo di tale interesse? Scrive mons. Combés (il primo studioso che ha analizzato con criteri scientifici gli scritti della santa): «Teresa è una santa rivoluzionaria, di una rivoluzione umile, silenziosa, che è poi la più profonda ed efficace. Teresa è una delle più commoventi e grandiose rivoluzioni provocate dallo Spirito Santo nell’evoluzione spirituale dell’umanità». E la paragona a S. Tommaso d’Aquino: «Quello che Tommaso è stato per il Medioevo nel campo del pensiero teologico, Teresa di Lisieux è stata, nel sec. XIX, nel campo della spiritualità».

Il filosofo e scrittore Jean Guitton paragona Teresa ad altre due grandi carmelitane a lei contemporanee, Elisabetta della Trinità (1880-1906) e Edith Stein (1891-1942): «Dobbiamo convenire che queste due giovani mistiche sono superiori a Teresa per talento, cultura, stile. Eppure devo confessare che io trovo in Teresa un non so che, un unicum che non trovo in Elisabetta della Trinità, in Edith Stein, o in Simon Weil. Queste sono delle intellettuali, schiacciate sotto il peso delle loro ricchezze culturali, ma a cui manca questo non so che di semplice e zampillante, presente in Teresa» (Il genio di Teresa di Lisieux). Forse è proprio l’esperienza “semplice e zampillante” dell’amore di Dio e dell’amore di fraternità e di sonorità da lei coltivato in modo eminente, che costituiscono la peculiarità di Teresa, quel non so che di unico e irripetibile che affascina chi ancora oggi si accosta a questa piccola-grande carmelitana.

2. La mia vocazione è l’amore

Tutta la vita di Teresa si è svolta sotto il segno dell’amore. Lei è una creatura che fin dall’infanzia si è sentita avvolta dall’amore di Dio, un amore smisurato, gratuito e generoso; a cui ha inteso rispondere con un amore altrettanto generoso e totale. Scrive Teresa: «Dio vuole che lo ami perché mi ha rimesso non molto, ma tutto! Non ha atteso che io lo amassi molto come Maria Maddalena, ma ha voluto che io sapessi che lui mi ha amato di un amore di ineffabile previdenza, così che io adesso lo ami alla follia». Più tardi, abbracciando con uno sguardo tutta la sua vita, Teresa così riassume l’iniziativa dell’amore gratuito di Dio in lei: «Il vostro amore mi ha prevenuto fin dall’infanzia, è cresciuto con me ed ora è un abisso di cui non posso scandagliare le profondità» (Ms C 336).

L’amore di Dio lievita tutta l’esistenza di Teresa e diventa in lei sorgente di amore fraterno, diventa itinerario di fraternità e di sororità che Teresa tesse e percorre in forma tanto silenziosa e umile, quanto ricco di frutti. Pertanto, il cammino della fraternità in Teresa scaturisce dal dono e dalla presenza in lei dell’amore di Dio: «Sentii la carità entrarmi nel cuore; da qui il bisogno di dimenticarmi per far piacere agli altri. E da allora sono felice». Dell’esperienza fraterna di Teresa cercherò di cogliere alcune traiettorie: la prima è quella che la lega al suo prossimo più prossimo, cioè le consorelle; poi quella che la lega ai sacerdoti missionari; infine la traiettoria che la sintonizza con i lontani più lontani: i peccatori e gli atei dei quali lei si è sentita sorella, sedendosi alla loro mensa non solo con la preghiera, ma condividendo il dramma della “notte oscura”, come vedremo.

3. La sororità con le consorelle

La carità fraterna è l’esperienza che Teresa ha descritto più diffusamente soprattutto nel Ms C, che è ritenuto il suo testamento spirituale perché scritto nel 1897, pochi mesi prima della morte. «Quest’anno il buon Dio mi ha concesso di capire cos’è la carità – scrive Teresa – anche prima lo capivo, è vero, ma in modo imperfetto; non avevo approfondito queste parole di Gesù: “Il secondo comandamento è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,39). Mi dedicavo soprattutto ad amare Dio» (Ms C 288). Teresa riconosce con semplicità di aver compreso pienamente il contenuto e il valore della carità fraterna solo dopo nove anni di vita religiosa e confessa con disarmante schiettezza di non aver riflettuto a fondo, prima di allora, sull’amore che si deve al prossimo. Ovviamente, l’amore per le consorelle era da sempre profondamente radicato nel suo cuore, ma all’inizio del 1897, meditando i cc.13 e 14 di Giovanni, Teresa comprende in tutta la sua profondità il valore del Comandamento nuovo che Gesù dà ai discepoli nel contesto dell’Ultima Cena: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Teresa si chiede: «In qual modo Gesù ha amato i suoi discepoli, e perché li ha amati? Non erano certo le loro qualità naturali che potevano attirarlo: c’era tra loro e Lui una distanza infinita: Egli era la Scienza e la Sapienza eterna: essi erano dei poveri pescatori ignoranti e pieni di pensieri terrestri: Tuttavia Gesù li chiama suoi amici, suoi fratelli (Gv 5,15). Vuole vederli regnare con Lui nel Regno del Padre suo, e, per aprir loro questo Regno, vuol morire sopra la croce, perché ha detto: “Non c’è amore più grande che dare la vita per quelli che si amano” (Gv 5,13)» (Ms C 288). Di fronte all’amore immenso di Cristo, Teresa constata l’imperfezione del suo amore verso le consorelle e comprende in cosa consiste la vera carità fraterna: «Meditando su queste parole di Gesù, -dice- ho capito quanto il mio amore per le mie consorelle era imperfetto; ho visto che non le amavo come le ama Dio!» (Ms C 289).

Teresa comprende che non basta amare il prossimo come se stessi, ma possiamo amare come Gesù ci ha amati. Ma è possibile amare così? Questa la grande domanda che ci poniamo tutti. È possibile, risponde Teresa, infatti è Gesù stesso che nella carità agisce e ama in noi e attraverso noi: «Signore so bene che Voi non comandate nulla d’impossibile. Voi conoscete meglio di me la mia imperfezione, e sapete che non sarei mai capace di amare le mie consorelle come le amate Voi, se non foste voi stesso, o mio Gesù, ad amarle ancora in me. Sì, lo sento, quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me. Quanto più sono unita a Lui, tanto più amo tutte le mie consorelle» (Ms C 290). La scoperta che fa Teresa è che l’amore fraterno va vissuto con il cuore stesso di Cristo. Si direbbe che lei rivive nella sua carne l’esperienza dell’apostolo Paolo quando dice: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).

4. I caratteri dell’amore fraterno

Fondato e radicato su queste motivazioni soprannaturali, la carità fraterna di Teresa verso le consorelle si esprime in atteggiamenti concreti ed esistenziali; infatti – afferma Teresa – «Non basta amare, bisogna dimostrarlo!» (Ms C 296). Una modalità di questa concretezza, per lei, è stato l’impegno a superare i sentimenti naturali di simpatia e antipatia: «Voglio praticare la carità ed essere amabile con tutte le mie consorelle, soprattutto con le meno amabili, per far piacere a Gesù e rispondere alla sua volontà. Dice il Signore in San Matteo: “Sapete che è stato detto: Amerete il vostro amico e odierete il vostro nemico; ma io vi dico: Amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano” (Mt 5,43-44). Senza dubbio, nel Carmelo non s’incontrano nemici, ma esistono simpatie e antipatie. Ci si sente attratti verso una consorella, mentre un’altra vi farebbe fare un lungo giro per evitare d’incontrarla; così, pur senza saperlo, ella diviene un soggetto di persecuzione. Ebbene!, Gesù mi dice che questa sorella bisogna amarla, che bisogna pregare per lei, quand’anche la sua condotta mi portasse a credere che ella non mi ami affatto: “Se voi amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori amano coloro che li amano” (Lc 6,32) (Ms C 295). Ed ecco la conclusione che ne traggo: io debbo ricercare in ricreazione la compagnia delle consorelle che mi sono meno gradite» (Ms C 323).

Così Teresa attua il suo proposito: «C’è in comunità una consorella la quale ha il talento di dispiacermi in tutte le cose, le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi sembrano molto sgradevoli […]. Io, non volendo cedere all’antipatia naturale che provavo, mi sono detta che la carità non deve consistere nei sentimenti, bensì nelle opere; allora mi sono dedicata a fare per questa sorella ciò che avrei fatto per la persona più cara. Ogni volta che la incontravo, pregavo il buon Dio per lei, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti, […] cercavo anche di farle tutti i favori possibili, e quando avevo la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei miei sorrisi mentre cercavo si stornare la conversazione […]. Un giorno, quella sorella, in ricreazione mi ha detto press’a poco queste parole, tutta contenta: “Mi potrebbe dire, suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l’attira verso di me?, perché ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere? Quello che mi attirava era Gesù nascosto in fondo all’anima di lei… Gesù che rende dolce quello che c’è di più amaro. Le risposi che le sorridevo perché ero contenta di vederla” (Ms C 292).

Per Teresa la carità deve essere universale, cioè deve abbracciare tutti: «“Nessuno, ha detto Gesù, accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma la colloca sul candelabro affinché rischiari tutti quelli che sono nella casa” (Mt 5,15). Mi pare che questa lucerna rappresenti la carità, la quale deve illuminare e rallegrare non soltanto coloro che mi sono più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza escludere nessuno» (Ms C 289). Inoltre, la carità deve essere paziente, indulgente, benevola: «Capisco ora che la carità perfetta consiste nel compatire i difetti degli altri, non stupirsi affatto delle loro debolezze, trovare motivo di edificazione nei minimi atti di virtù che si vede loro praticare. Ma soprattutto ho capito che la carità non deve in nessun modo restare chiusa in fondo al cuore! Quando il demonio cerca di mettermi davanti agli occhi i difetti di questa o di quell’altra consorella, che mi è meno simpatica, io mi affretto a ricalcarne le virtù, i buoni desideri» (Ms C 290).

Ancora, la carità deve essere premurosa fino a prevenire i desideri delle sorelle: «Non basta dare a chiunque mi chieda qualche cosa (Lc 6,30), bisogna che io vada incontro ai desideri, che mi mostri molto grata e onorata di potermi rendere utile». Ma subito aggiunge: «Sono ben lontana dal praticare quel che comprendo, tuttavia il solo desiderio che ne ho, mi dà pace». Infine, la carità deve essere delicata, anche nel dover dare un rifiuto: «Non sempre è possibile al Carmelo praticare alla lettera le parole del Vangelo (“dare a chiunque chiede”); si è talvolta costretti, per ragioni di ufficio, a rifiutare un piacere: Ma quando la carità ha gettato radici profonde nell’anima, essa si manifesta anche all’esterno. C’è un modo così garbato di rifiutare quello che non si può dare, che il rifiuto fa piacere quanto lo stesso dono» (Ms C 301).

Queste brevi citazioni, da una parte ci rivelano la sottile psicologia e la delicatezza d’animo di Teresa che sa cogliere ogni sfumatura per costruire autentici e maturi rapporti di sonorità nella vita del monastero; e dall’altra parte ci rivelano lo spessore della sua statura spirituale e, soprattutto, le motivazioni soprannaturali che animano i suoi atteggiamenti e i suoi gesti. Vorrei sottolineare un ultimo elemento della sororità di Teresa: la fedeltà alla vocazione della vita religiosa e dell’amore fraterno che lei rinnova ogni giorno, anche di fronte alla tentazione di un richiamo alla vita mondana. Ce ne parla lei stessa nel contesto del servizio quotidiano che rendeva a suor S. Pietro (una suora anziana, semiparalizzata a seguito di un’artrite diffusa che la rendeva di cattivo umore e molto esigente nell’assistenza che le dovevano prestare). Teresa, allora novizia, era incaricata di accompagnarla, al termine della preghiera, dal coro della cappella al refettorio, all’ora dei pasti. Lei stessa sottolinea che svolgeva questo servizio «con tanto amore che mi sarebbe stato impossibile far meglio se avessi dovuto condurre Gesù stesso» (Ms C 327).

Ricorda Teresa: «Una sera d’inverno stavo assolvendo, come al solito, il mio piccolo compito, faceva freddo, era buio. A un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale, e mi immaginai un salone tutto illuminato, splendente di dorature, con giovinette elegantemente vestite, le quali si scambiavano saluti e cortesie mondane. Allora il mio sguardo si posò sulla povera inferma che sorreggevo: invece di musica melodiosa, io udivo i suoi gemiti lamentosi; invece degli ori, vedevo i mattoni del nostro chiostro austero, rischiarato appena da un fioco lumicino. Non posso esprimere quel che passò nel mio animo! So soltanto che il Signore lo illuminò con i raggi della sua verità e che questi superarono talmente lo sfolgorio tenebroso dei festini terreni, che io non potevo credere alla mia felicità. Ah! per godere mille anni di quelle feste mondane, non avrei dato davvero i dieci minuti del mio umile ufficio di carità!» (Ms C 326).

5. La fraternità con i missionari

Un altro ambito in cui Teresa vive intensamente l’amore fraterno è la relazione con i sacerdoti. Già prima di entrare al Carmelo lei intuisce che un aspetto peculiare della sua vocazione sarà quello di farsi sorella dei sacerdoti, compagna di viaggio nel loro ministero e, soprattutto, avverte l’esigenza di pregare per loro, perché evangelizzino i fedeli con la parola e con l’esempio, con la coerenza della vita. Al riguardo ella scrive: «Pregare per i peccatori mi rapiva, ma pregare per le anime dei preti che io credevo pure più del cristallo, mi pareva sorprendente! Ho capito questa mia vocazione (di pregare per i sacerdoti) in Italia. Per un mese ho vissuto con molti santi sacerdoti e ho visto che, se la loro dignità sublime li innalza al di sopra degli angeli, essi tuttavia sono uomini deboli e fragili…come mostrano nella loro condotta e hanno bisogno di molte preghiere» (Ms A 157).

Un sogno che Teresa coltiva già nell’infanzia è quella di essere missionaria. Scrive: «Nonostante la mia piccolezza… vorrei essere missionaria, non soltanto per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo, ed esserlo fino alla consumazione dei secoli» (Ms B 251). Questo sogno rivela l’ampiezza dei suoi orizzonti e la voglia di abbracciare il mondo intero per portare ad ogni creatura la bellezza del vangelo. Il Signore, a volte, realizza a modo suo, anche i sogni impossibili delle sue creature. Qualcosa di simile è accaduto a Teresa che nel Ms C scrive: «Da grandissimo tempo avevo il desiderio, che mi pareva completamente inattuabile, di avere un fratello sacerdote… Pensavo spesso che se i fratellini miei non fossero volati in cielo, avrei avuto la felicità di vederli salire all’altare… Gesù non solamente mi ha fatto la grazia che desideravo, bensì mi ha stretta con i vincoli dell’anima a due apostoli suoi, i quali sono divenuti fratelli miei».

Racconta che un giorno, nel 1895, mentre era al lavoro in lavanderia, Madre Agnese la chiamò e le lesse la lettera di un giovane seminarista il quale «Chiedeva una sorella che si dedicasse in modo particolare alla salvezza dell’anima sua e l’aiutasse con preghiere e sacrifici quando fosse missionario, affinché egli potesse essere strumento di salvezza per molte anime. Prometteva un ricordo costante, quando avesse potuto offrire il santo sacrificio, per colei che divenisse sua sorella. Madre Agnese mi disse che voleva me come sorella del futuro missionario» (Ms C 329-330). La felicità di Teresa fu grandissima. Vedeva realizzato in modo insperato il sogno di avere un fratello sacerdote e per di più missionario. Il seminarista era Maurizio Bellière dei Padri Bianchi che svolse il suo ministero in Africa, ad Algeri. L’anno dopo, nel maggio del 1896, Madre Gonzaga affidò a Teresa un secondo seminarista prossimo all’ordinazione presbiterale, p. Adolfo Roulland della Società delle Missioni estere di Parigi. Ordinato presbitero il 28 giugno di quell’anno, si imbarcò per la Cina il 2 agosto seguente. Alcuni giorni dopo la sua ordinazione p. Roulland fece visita al Carmelo di Lisieux e s’intrattenne in colloquio con Teresa nel parlatoio del monastero.

Con i due missionari Teresa, da subito, avvia una fitta corrispondenza con cui tesse la rete di un’autentica “fraternità apostolica” solidale e feconda che genera una vera crescita umana e spirituale in tutti i protagonisti. «I miei fratelli missionari – dice Teresa – occupano un posto grande nella mia vita» (Ms C 333). Si presenta a loro come sorella e li chiama fratello, fratello mio. Scrive a p. Roulland: «Fratello mio, sono sicura che mi permetterà di non chiamarlo con altro nome, dal momento che Gesù si è degnato unirci con i vincoli dell’apostolato. Mi dà tanta gioia pensare che da tutta l’eternità nostro Signore ha formato questa unione, e che sono stata creata per essere la sua sorella» (L 173). «La ringrazio di trattarmi come una vera sorella… titolo che mi è tanto caro» (L 178). Alla vigilia della sua partenza per la Cina, gli assicura tutta la sua vicinanza e collaborazione, «come una sorella creata apposta da Dio per aiutarlo a salvare le anime» (L 173). «È per questo scopo che mi sono fatta carmelitana, e non potendo essere missionaria d’azione, ho voluto essere missionaria d’amore e di penitenza» (L 177). Come Teresa immagina la sua presenza, il suo ruolo nell’apostolato dei sui fratelli missionari?

È consapevole che le armi di cui dispone e che può mettere in campo sono: la preghiera, l’offerta dei sacrifici e delle mortificazioni; ma, soprattutto, intende mettere a disposizione dei fratelli i doni spirituali con cui il Signore ha arricchita lei. Scrive Teresa: «Ecco in qual modo mi sono unita spiritualmente agli apostoli che Gesù mi ha dati come fratelli: tutto quello che mi appartiene, appartiene a ciascuno di loro»; quindi offre volentieri l’accompagnamento spirituale, il consiglio e il sostegno morale nei momenti di scoramento nella loro fatica apostolica. Ma, ancor più, intende far percepire ai missionari il suo stare accanto, il lavorare insieme, in sintonia. Teresa è convinta di essere poca cosa, addirittura un nulla, da sola. Ma stando accanto a questi fratelli, con la preghiera e il sacrificio, diventa una presenza potente. Scrive a p. Roulland: «La vita non è che un giorno, lavoriamo insieme all’opera della salvezza delle anime. Io posso fare ben poco, o assolutamente nulla da sola, ma mi conforta il pensiero che al suo fianco posso servire a qualche cosa. Infatti lo zero, per se stesso, non vale nulla; se però si mette vicino all’uno, diventa potente, purché s’intende, si collochi al posto giusto e non prima! È proprio lì che Gesù mi ha collocata e spero di rimanervi sempre, seguendola da lontano con la preghiera e il sacrificio» (L 202).

Teresa, pertanto, vive in perfetta sintonia con i fratelli missionari ed è convinta che tale sintonia di cuore e di intenti rimarrà intatta anche oltre la sua morte che avverte ormai vicina. Scrive al chierico Bellière: «Sento che le nostre anime sono fatte per comprendersi… Ciò che domandiamo al Signore è di lavorare per la sua gloria, di amarlo e di farlo amare… In cielo desidererò la stessa cosa che ho desiderato sulla terra: amare Gesù e farlo amare… Non conosco l’avvenire; però se Gesù realizza i miei presentimenti, le prometto di rimanere anche lassù la sua sorellina. Allora non vi saranno più né clausure, né grate e la mia anima potrà volare con lei nelle lontane missioni. Il nostro ruolo non cambierà: a lei le armi apostoliche, a me la preghiera e l’amore» (L 187). Il medesimo concetto lo esprime a p. Roulland: «La distanza non potrà mai separare le nostre anime; perfino la morte servirà a rendere più intima la nostra unione. Se andrò presto in cielo, domanderò a Gesù il permesso di venire a trovarla a Su-Tchuen per continuare insieme il nostro apostolato… La mia sola arma è l’amore e la sofferenza, mentre la sua spada è quella della parola e delle fatiche apostoliche» (L 173).

6. La fraternità con i lontani

Teresa si sente sorella anche di quella fetta di umanità fatta di uomini e donne lontani da Dio: i peccatori e gli atei. Non solo prega per i peccatori e per i senza-Dio, ma viene condotta dal Signore a vivere nella sua pelle la loro stessa esperienza, non quella del peccato, ma quella della notte oscura della fede, la prova dell’incredulità, il silenzio di Dio. Gli ultimi diciotto mesi della sua vita sono, infatti, un tormento sia nella carne, che nello spirito. Agli sbocchi di sangue nella notte tra il giovedì e il venerdì santo del 1896, sintomi della tubercolosi ormai evidente, si aggiunge la terribile prova della crisi di fede. Teresa è investita dalla stessa incredulità radicale dei materialisti. Lei che riteneva che gli atei «parlassero contro il loro stesso pensiero, mentre negano l’esistenza di Dio», adesso si trova a vivere nella sua carne la loro stessa esperienza. Così scrive: «Gesù ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del cielo, un tempo per me dolcissimo, non fosse più se non lotta e tormento». Ebbene, Teresa accoglie questa nuova esperienza come un gesto di solidarietà con gli atei, accetta di mangiare alla stessa mensa dei peccatori: «O Gesù, se è necessario che la mensa profanata da essi, venga purificata da un’anima che vi ama, io accetto di mangiarvi da sola il pane del dolore, fino a quando vi piacerà. La sola grazia che vi chiedo è di non offendervi…».

Questo dramma intimo, Teresa lo vive nella solitudine e con sofferta serenità. Nessuno se ne sarebbe accorto se lei stessa non l’avesse confidato alla Priora e alle consorelle. Scrive a Madre Gonzaga: «Le sembra forse che io esageri la mia prova; in realtà, se lei giudica dai sentimenti che esprimo nelle poesie che ho composto quest’anno, le sembrerò un’anima colma di consolazione, per la quale il velo della fede si è quasi squarciato, e tuttavia… non è più un velo per me, è un muro che si alza fino ai cieli e copre le stelle. Quando canto la felicità del cielo, il possesso eterno di Dio, non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che io voglio credere!» (Ms C 280).

La notte oscura della fede, questo tunnel buio in cui Teresa viene a trovarsi e che lei accetta con piena consapevolezza, mi sembra sia la misura della sua vicinanza e della sua fraternità verso tanti uomini e donne del suo tempo, che vivono lontani da Dio, in una radicale solidarietà con loro. Teresa nella sua prova ha continuato ad aver fiducia e a sperare nel “Dio nascosto”. La sua fede nuda e tenace risuona come invito silenzioso ma pressante, rivolto ai non-credenti di ieri e di oggi, ad aprire il cuore alla speranza. Sul letto di morte lei ha ripetuto più volte: «No, non mi pento si essermi offerta all’Amore!», a riprova che tutta la sua vita è stata una “consegna” all’amore di Dio e all’autentica fraternità e sororità con tutti: con i vicini e con i lontani.

P. Aurelio Antista
Mercoledì della spiritualità 2023 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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