Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: Maria di Nazareth, donna feriale.
Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: Maria di Nazareth, donna feriale.
1. Accordo d’avvio
L’espressione “Maria donna feriale”, che io sappia, appartiene a don Tonino Bello. Le sue meditazioni su Maria, raccolte, appunto, sotto questo titolo, costituiscono una modalità diversa d’accostare la madre del Signore. Ne ho scritto ripetutamente. Da don Tonino stralcio un piccolo passaggio come accordo d’avvio: «Santa Maria, donna feriale, aiutaci a comprendere che il capitolo più fecondo della teologia […] è quello che ti colloca all’interno della casa di Nazaret […] Santa Maria, donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell’epopea, e insegnaci a considerare la vita quotidiana come il cantiere dove si costruisce la storia della salvezza». Come non riscontrare, oltre le peculiari coloriture espressive, la prossimità alla Poesia 54 di Teresa di Lisieux, da cui è mutuata l’espressione che titola questo mio intervento?
Per un certo verso non ci stupiscono le espressioni di don Tonino perché seguono un concilio, il Vaticano II, che ha collocato Maria all’interno della costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen Gentium, espressamente proponendo un’altra modalità nell’accostarla. Al documento conciliare ne sono seguiti altri, il più importante dei quali è la Marialis Cultus di Paolo VI. In essa, nell’attenzione alla dimensione antropologica, emerge una lettura di Maria assai lontana dalle caratterizzazioni del passato. Stupisce invece il linguaggio usato da Teresa, pur con qualche concessione, ben diverso dallo stile del suo tempo.
Ho avuto modo di riflettere sulla mariologia del secolo XIX in relazione al dogma dell’Immacolata Concezione su uno dei numeri di Theotokos, rivista su cui è stato monitorato, secolo dopo secolo, lo sviluppo della mariologia, specchio sempre della cultura coeva e della corrispondente immagine sia della Chiesa che della donna. Sappiamo come il trattato, articolatosi come tale solo dopo il Concilio di Trento, sia stato segnato da un pesante massimalismo, in diretta polemica con la visione minimalista protestante. Si aggiunga a ciò il sentire del secolo XIX, la sua verbale enfatizzazione del femminile, restandone intatta nel suo rigore organico la cornice androcentrico-patriarcale. Aggiungo che, nel contesto della proclamazione di lei quale dottore della Chiesa, ho lavorato in un corso di formazione permanente diretto a carmelitani, al tema: “Teresa di Lisieux e il femminile”. Vi farò brevemente cenno.
2. La lettura di Maria nell’Ottocento
C’è un rapporto costante tra il culto mariano e la condizione femminile. La madre del Signore appare come il principio stesso della riabilitazione della donna. Grazie a lei, la donna, così spesso ritenuta inferiore all’uomo, accede a una nuova condizione virtuosa rappresentata dalla verginità, dal martirio, dalla carità, dall’apostolato. Di queste virtù Maria sarebbe il tipo creato. Va da sé che tale lettura è unicamente diretta alla emancipazione morale della donna. Restano tutti intatti i paletti che la società borghese e la Chiesa le hanno eretto intorno, escludendola da ogni impegno pubblico, dal sapere, dalla politica. Lasciato il santuario della famiglia, la donna può fare soltanto beneficenza. E, d’altra parte, è proprio dell’ ‘800 l’insistere a livello religioso, a livello della percezione di Maria, sulle istanze del sentimento e del cuore. Vergine madre regina, addirittura dea, sono poi gli attributi significativi dell’eterno femminino – altro mirabolante approccio alla donna da Goethe in poi. Maria è colei che, al di sopra e al di fuori della colpa, ed è capace d’accogliere la preghiera di chi invoca il perdono.
Di certo l’esaltazione del femminile eterno, tutt’uno con l’esaltazione del cuore e del sentimento, produce espressioni appassionate verso Maria e verso la sua celestiale dolcezza. Ne offro un esempio: «O limpida fanciulla, o conca alabastrina, dove l’onda chiara e tranquilla tutte riflette le bellezze dell’eterno sole che in essa specchiasi con piacere; io spesso estatico ti contemplo e tutta veggo negli occhi tuoi la bellezza che chiudi nel cuore… Posso affermare solamente che t’amo, t’amo assai, t’amo al di là di quello che possa cuore umano e sensitivo amare le cose a lui più gradite e più care… Oh amore! Oh Maria! Oh felicità!… Oh mio bene, o mia gioia, o dolcissima sede di tutti i piaceri dell’anima mia, e sola de’ pianti miei alleggiatrice; o cara compagna dell’amor mio e del mio dolore, ora che t’amo, ora è che veramente vivo. Oh Maria! Oh Maria!». Né le espressioni poetiche certo, ma enfaticamente romantiche, con le quali, ad esempio, H. J. Newman celebra il mese di maggio, ci appaiono dissimili; anzi ulteriormente ribadiscono la celebrazione del femminile eterno e di Maria come sua personificazione. Dobbiamo all’Ottocento l’invenzione del materno, la sua sublimazione eroica. Per antonomasia la donna è madre ma con accenti diversi da quelli dei secoli precedenti.
Quanto a Maria, la maternità verginale ha cancellato la colpa di Eva. Da qui una intensa devozione mariana e un recupero del valore della maternità. Come Maria le donne sono invitate ad attivare una maternità spirituale. Si tratta tanto di promuovere la maternità nel suo ruolo propriamente educativo, ovvero nel ruolo alterocentrico che le consente di affrontare la maledizione della maternità, senza soccombervi. Mortalità nel parto e mortalità infantile rappresentano il vertice della tortura fisica e psicologica che l’essere madre comporta. Ciò produce un modello di madre eroica, capace d’offrire lietamente a Dio i giovani figli che la malattia le sottrae. Madri che addirittura pregano Dio di non risparmiare i propri figli (la stessa Zelia Guérin, la mamma della piccola Teresa, ne è un esempio!). Se si pone attenzione all’enfasi con cui certa manualistica mariologica sviluppa il tema della maternità spirituale di Maria, il suo andare oltre l’amore per il figlio, per farsi carico dell’amore di Dio per tutta l’umanità, non sarà difficile scorgere in Maria il modello di questa madre alterocentrica capace di chiedere a Dio di non risparmiare il proprio figlio.
A ciò si aggiunga il massimalismo che connota la cosiddetta mariologia dei privilegia cui attinge largamente la predicazione. Maria è proposta nella sua grandezza inarrivabile e in aggiunta la si circonda di tutto un apparato straordinario mutuato sull’onda lunga degli apocrifi, la cui narrazione scorre con modalità carsiche ed emerge con più vigore del silenzio o discrezione dei vangeli canonici. Vedremo che proprio questi aspetti disturbano Teresa che, se avesse potuto, altrimenti avrebbe predicato Maria, liberandola da quanto già Pio XII e poi la Lumen Gentium avrebbero indicato come “sterile e passeggero sentimento” e “vana credulità” (cf. LG 67).
3. La declinazione del femminile negli scritti di Teresa
Mi si consentirà, a modo di contestualizzazione di evocare il femminile, l’attenzione e il vissuto di genere, come emerge dagli scritti di Teresa. Ciò che a mio avviso risulta, pur con qualche interessante istanza, è il collocarsi della santa all’interno della concezione comune al suo tempo. Le flessioni relazionali, le stereotipie verbali e le immagini e metafore che le supportano, rispecchiano, grosso modo, i moduli propri della seconda metà dell’Ottocento. Non senza alcune anomalie, in verità non molte, benché singolari. La tipologia funzionale, ad esempio, cioè la declinazione delle relazioni è ovvia e scontata. L’uso dei termini madre/mamma, figlia, sorella, sposa, fidanzata non si allontana quasi mai dagli stereotipi culturali. Non vale la stessa cosa per la tipologia ecclesiale. Infatti la vediamo declinare diversamente termini quali: vergine, martire, apostola, missionaria, religiosa, carmelitana, eroina, santa. L’immaginario però di nuovo ci riporta alle stereotipie. Anche sotto il profilo istituzionale Teresa non va oltre, pur con qualche piccolissima eccezione. Non entro nel merito dettagliatamente. Sottolineo soltanto come l’aderenza al modello culturale si intreccia anche con esplicite rotture.
Tra di esse, denotano una comprensione altra di sé, diversa dalla stereotipia di genere, l’amore alla lettura, il pensare come orazione mentale; il desiderio di sapere; l’audacia dell’assumere Gesù stesso quale suo “direttore”; il parlare al papa; il trasgredire in Italia ai divieti, pena la scomunica; l’aspirazione a una religione più bella; la consapevole fierezza d’esercitare un ruolo ministeriale… Insomma una ragazza resiliente, malgrado le pieghe di un repertorio retorico sentimentale e romantico e di una incidenza eccessiva del termine “piccolezza” che però diventa per lei un punto di forza, perché alla fine ne dice l’ancorarsi alla categoria evangelica dei piccoli, oggetto dell’inno di giubilo del Signore, sacramento di lui nella concretezza delle scelte di vita. Papa Francesco sviluppa ampiamente questo tema e quello connesso della “piccola via” che ne esprime l’originalità controcorrente, benché non sia tanto una sua invenzione quanto un suo riappropriarsi sapiente di un tema evangelico negletto all’interno di una Chiesa autosufficiente e trionfalistica, incline alla magniloquenza e all’apoteosi più che a riconoscersi tramite, strumento della kenosis salvifica del Figlio di Dio.
4. Teresa e Maria
Non sono moltissimi i luoghi nei quali Teresa parla di Maria. Singolare è certamente la narrazione relativa alla guarigione e al sorriso che avrebbe ricevuto dalla Vergine nel maggio del 1883. Malata, la piccola Teresa si rivolge alla sua Mamma Celeste, supplicandola di avere pietà di lei… Scrive che all’improvviso la Beata Vergine le è sembrata bella, così bella… mai aveva visto niente simile. Dice che il suo viso emanava una bontà e una tenerezza ineffabili e ciò che è profondamente penetrato in lei è stato il “sorriso delizioso della Beata Vergine”. Allora, afferma, tutti i suoi dolori svanirono, mentre versava lacrime di gioia pura. A ragione pensa di non dover mettere a parte nessuno di ciò che ha vissuto, ma la sorella Maria intuisce quanto le è accaduto: vedendola con lo sguardo fisso verso l’immagine della Madonna comprende che è guarita. Comprende però che c’è dell’altro ancora. Teresa si confida con lei e ciò le darà non poco dolore nel passare del tempo (cf. MA 94-95). Scrive d’aver ritrovato (rinnovato) la felicità di quell’esperienza ai piedi di Nostra Signora delle Vittorie, a Parigi, anni dopo. E considera questa la seconda grazia della beata Vergine.
Nel giorno della sua prima comunione assieme alle sue compagne, com’era d’uso, Teresa compie l’atto di consacrazione a Maria. Scrive: «Era molto giusto che parlassi a nome delle mie compagne alla mia Mamma Celeste, io che ero stata privata così giovane della mia Madre terrena… Ci ho messo tutto il cuore per parlarle, dedicandomi a lei, come un bambino che si getta tra le braccia della madre e le chiede di vegliare su di lei. Mi sembra che la Beata Vergine dovesse guardare il suo fiorellino e sorriderle, non era stata lei a guarirla con un visibile sorriso?… Non aveva messo lei nel calice del suo fiorellino, il suo Gesù, il Fiore dei campi, il giglio della valle? (Ct 2,1)» (MA 110). Sottolineiamo la stereotipia del fiorellino e, ovviamente anche l’espressione “mamma celeste”, anch’essa piuttosto ricorrente nel linguaggio del tempo e negli scritti di Teresa.
Abbiamo già accennato alla sua visita al santuario di Santa Maria delle Vittorie a Parigi. Scrive che arrivata la mattina, ha subito iniziato a visitare le meraviglie della capitale. Una sola però l’ha deliziata: “Nostra Signora delle Vittorie”. Dice di non potere esprimere ciò che sentiva stando ai suoi piedi. Le grazie ricevute in quella circostanza l’hanno profondamente commossa e solo lo scorrere copioso delle lacrime ha manifestato la sua felicità come nel giorno della mia prima comunione. Teresa afferma che la Vergine le ha fatto sentire che era stata proprio lei a guarirla e a sorriderle. Scrive: «Capivo che lei vegliava su di me, che ero sua figlia, quindi non potevo darle che il nome “Mamma” perché mi sembrava ancora più tenero di quello di Madre… Con quanto fervore non supplicavo lei di custodirmi sempre e di realizzare presto il mio sogno nascondendomi all’ombra del suo manto verginale!… Ah! questo è stato uno dei miei primi desideri da bambina… Crescendo ho capito che era nel Carmelo che mi sarebbe stato possibile trovare veramente il manto della Beata Vergine ed è stato verso questo monte fertile che tendevano i miei desideri…» (MA 158).
P. François-Marie Léthel, carmelitano, assume a indici del rapporto di Teresa a Maria il sorriso, il manto, il velo. Del sorriso abbiamo già parlato e certamente costituisce il punto di partenza. Manto e velo hanno anch’essi una grande forza simbolica sia che li si distingua, sia che se ne faccia un tutt’uno. Nel brano che finiamo di citare la metafora passa al Carmelo colto esso stesso come mantello della Vergine. Altrove il mantello o il velo hanno la valenza immediata protettiva che viene dal rifugiarsi appunto sotto la protezione di Maria , facendosi partecipe della sua vita, della sua intimità relazionale, innanzitutto al figlio . Noto di passaggio che la traduzione iconografica occidentale della Madonna del Soccorso, spesso sotto il manto mette figure in scala ridotta, quasi che, pur senza volerlo, stare sotto il suo manto richieda il farsi piccoli.
Quello che mostrano queste immagini è compiutamente vissuto dalla piccola Teresa. E ciò evoca anche un suo nascondersi sotto il manto/velo di Maria. Il manto, infatti, copre e il velo nasconde. Metafore gentili ma esistenzialmente impegnative che si intrecciano con l’elemento più importante il farsi piccola di Maria, il suo collocarsi, abbandonarsi alla potenza dell’Altissimo confessando la sua costitutiva indigenza creaturale. Teresa non ha gli strumenti per ricondurre Maria, così come la tratteggia Luca, alla spiritualità dei poveri del Signore, ma per altra via, sapienziale attinge ad analogo modello discepolare. Questo il senso del suo affidarsi confidente alla misericordia di Dio, ad ogni costo, testardamente, spes contra spem. E in ciò Maria le appare come modello compatibile e affidabile anche nella crudezza di quella che la Lumen gentium 58, e poi Giovanni Paolo II nella Redemptoris Mater 12-20, hanno indicato come la sua “peregrinazione nella fede”.
5. “Perché ti amo, Maria” (Poesia 54)
A questa poesia ha fatto esplicito riferimento papa Francesco nell’esortazione apostolica C’est la confiance, pubblicata in occasione dei centocinquant’anni dalla nascita e nel primo centenario della beatificazione di Teresa. Vi cita espressamente la strofa relativa alla via comune. Contestualizza il cantico una riflessione della piccola Teresa in data 21 agosto 1897, e dunque poco prima della sua morte, raccolta da Madre Agnese nel Quaderno Giallo: «Quanto avrei voluto esser prete per poter predicare sulla Santa Vergine! Mi sarebbe stato sufficiente farlo una sola volta per dire ciò che penso. Avrei fatto comprendere quanto conosciamo poco della sua vita. Davvero non bisogna dire cose inverosimili di cui non si sa poi niente; per esempio che ancora piccina, di tre anni appena, sarebbe andata al tempio ad offrirsi a Dio con sentimenti d’amore ardente e del tutto fuori dell’ordinario; più semplicemente può darsi che vi sia andata solo per obbedire ai suoi genitori.
Perché dire ancora a proposito delle parole profetiche del vecchio Simeone, che la Santa Vergine, a partire da quel momento ha avuto costantemente la passione del Figlio sotto i suoi occhi. “Una spada trafiggerà la tua anima – aveva detto il vegliardo. Dunque non si riferisce al presente, lo vedete bene, mia piccola madre; era una profezia molto vaga relativa al futuro. Perché una predica sulla santa Vergine mi piaccia e mi faccia del bene, bisogna che tocchi la sua vita reale, e non supposizioni al riguardo; sono poi certa che la sua vita reale sia stata molto semplice. La si mostra irraggiungibile, mentre la si dovrebbe mostrare imitabile; bisogna farne risaltare le virtù, dire che viveva di fede come noi e darne prova tramite il Vangelo in cui leggiamo: “Essi non compresero ciò che diceva loro”. E leggiamo altrove parole non meno misteriose: “I suoi congiunti erano ammirati di ciò che si diceva di lui”. Questa ammirazione suppone un certo stupore, non trovate, piccola madre?
Sappiamo bene che Maria è la regina del cielo e della terra, ma è più madre che regina e non bisogna dire che a ragione dei suoi privilegi oscura la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere oscura le stelle. Mio Dio! Che cosa strana! Una madre che fa impallidire la gloria dei suoi figli! Io penso esattamente il contrario, penso piuttosto che accresce di molto la gloria dei beati. È giusto parlare dei suoi privilegi, ma non bisogna dire altro, e se durante una predica si è obbligati dal principio alla fine a esclamare e fare ah! ah! questo è veramente troppo. Come non temere che qualcuno proprio mentre sente così grandi elogi verso una creatura così superiore non abbia a dirsi: “Se le cose stanno così meglio andare a brillare in un cantuccio”. Ciò che la santa Vergine ha più di noi è che non poteva peccare perché priva del peccato originale, ma per il resto ha avuto meno possibilità di noi non avendo la santa Vergine da amare. Il che dà a noi tanta dolcezza di cui lei non ha goduto. Infine ho detto nel mio canto “Perché ti amo, o Maria”, tutto quello che predicherei di lei» (QG 21.8.3). Provo a tradurre a mio modo la Poesia 54. Poi ne tento un commento.
1
«Vorrei cantare, o Maria, perché ti amo!
Perché il tuo dolce nome fa trasalire il mio cuore
e perché il pensiero della suprema grandezza
non riesce a ispirarmi timore.
Se ti contemplassi nella tua gloria sublime
e ti sapessi aldilà d’ogni splendore dei beati,
non riuscirei a credere d’essere tua figlia:
davanti a te, Maria, abbasserei lo sguardo…!
2
Bisogna invece che una bimba possa amare sua madre,
che con lei pianga e ne condivida i dolori.
Mia cara Madre, su una sponda straniera
per attirarmi a te, quante lacrime versi!…
Meditando la tua vita lungo il santo Vangelo
oso guardarti e accostarmi a te.
Credermi tua figlia non mi è difficile,
perché ti vedo mortale e sofferente come me.
3
Quando un celeste messaggero ti propone d’essere la Madre
del Dio che deve regnare in eterno,
ti vedo preferire, Maria, quale mistero!,
il tesoro ineffabile della verginità.
Comprendo che la tua anima, Vergine Immacolata
sia più cara al Signore dello stesso paradiso.
Comprendo che la tua anima, umile e dolce valle,
può accogliere in sé Gesù, l’Oceano dell’Amore!
4
Ti amo Maria, quando ti dici ancella
del Dio che tu delizi con la tua umiltà.
Questa virtù nascosta ti rende assai potente,
attira nel tuo cuore la Santa Trinità.
Quando lo Spirito ti ha coperto con la sua ombra,
il Figlio uguale al Padre in te ha preso carne.
Grande sarà il numero dei suoi fratelli peccatori,
dal momento che dobbiamo chiamarlo: Gesù, il tuo primogenito!
5
O Madre amata, malgrado la mia piccolezza,
come te possiedo in me l’Onnipotente.
Ma non tremo costatando la mia debolezza:
il tesoro della madre appartiene anche alla figlia
e io sono tua figlia, o cara Madre.
Le tue virtù, il tuo amore, non sono forse anche miei?
Anche quando nel mio cuore scende la bianca Ostia
Gesù, il tuo dolce Agnello, crede di riposare in te…!
6
Tu me lo fai sentire che non è impossibile
camminare sui tuoi passi, o Regina degli eletti.
Lo stretto cammino verso il cielo, tu l’hai reso visibile
praticando ogni giorno le virtù più nascoste.
Seguendo te, Maria, amo restare piccola,
delle grandezze della terra colgo solo la vanità.
Da Elisabetta che riceve la tua visita,
imparo a praticare l’ardente carità.
7
Ascolto rapita, dolce Regina degli angeli,
il sacro canto che sgorga dal tuo cuore.
Da te apprendo a cantare di Dio la lode,
a gloriarmi in Gesù mio Salvatore.
Mistiche rose le tue parole d’amore,
il cui profumo avvolgerà i secoli a venire.
In te l’Onnipotente ha fatto grandi cose:
voglio meditarle e così benedirlo.
8
Quando il buon Giuseppe ignora il miracolo,
che tu vorresti nascosto nella tua umiltà,
tu lo lasci piangere vicino al tabernacolo
che del Salvatore nasconde la divina beltà!
O, come amo Maria, il tuo silenzio eloquente!
Per me è dolce e melodioso concerto
che mi svela la grandezza e la potenza
di un’anima che attende grazia dal cielo…
9
Più avanti a Betlemme, o Giuseppe, o Maria!
vi respingono tutti gli abitanti:
nessuno nella sua locanda vuole ricevere
dei poveri stranieri; posto c’è solo per i grandi,
posto c’è solo per i grandi; ed è in una stalla
che la Regina del cielo deve generare Dio.
O cara Madre, come trovo amabile,
come trovo grande un luogo così povero!
10
Quando scorgo l’Emmanuele avvolto in fasce,
quando del Verbo divino ascolto il dolce vagire,
o mia cara madre, non invidio gli angeli,
perché l’Onnipotente Signore mi si è fatto fratello!
Quanto t’amo, Maria, su queste rive
hai fatto sbocciare questo Fiore divino!
E come t’amo mentre ascolti pastori e magi
e tutto custodisci nel tuo cuore!
11
Ti amo, mentre mischiata alle altre donne
che si dirigono verso il tempi santo,
presenti delle nostre anime il Salvatore
al felice vegliardo che lo stringe tra le braccia.
Ascolto prima con gioia il suo cantico,
ma presto le sue parole suscitano il mio pianto.
Il futuro profeticamente squarciando
Simeone ti annuncia una spada di dolore.
12
O Regina dei martiri, sino al termine dei tuoi giorni
questa dolorosa spada trafiggerà il tuo cuore.
Devi lasciare subito la tua patria
per evitare di un re il geloso furore.
Dorme tranquillo Gesù tra le pieghe del tuo velo;
Giuseppe ti prega di partire all’istante.
Senza indugio subito obbedisci
e parti senza frapporre ritardo o chiedere ragioni.
13
Nella terra d’Egitto, mi pare, Maria
che nella povertà il tuo cuore resti gioioso.
Non è Gesù la tua patria più bella?
Che t’importa dell’esilio, se possiedi il cielo?
Ma a Gerusalemme, un’amara tristezza
grande come un oceano inonda il tuo cuore:
Gesù per tre giorni si nasconde al tuo affetto;
allora sì che soffri l’esilio in tutto il suo rigore!
14
Infine lo trovi e la gioia ti trasporta!
Dici al ben fanciullo che incanta i dottori:
Figlio mio, perché ci hai fatto questo?
Ecco tuo padre ed io ti cercavamo in lacrime.
E il Dio Fanciullo così risponde (oh profondo mistero!)
alla madre che verso di lui tende le braccia:
Perché mi cercavate?
Delle opere di mio Padre
devo occuparmi. Non lo sapevate forse?
15
Apprendo dal Vangelo che crescendo in sapienza
Gesù resta sottomesso a Giuseppe e a Maria;
e il mio cuore mi fa comprendere con quale tenerezza
egli in tutto obbedisca ai cari genitori.
Comprendo insieme il mistero del tempio,
le parole nascoste del mio amabile Re.
Madre, il tuo dolce Figlio vuole che tu sia l’esempio
all’anima che nella notte della fede lo cerca.
16
Dal momento che il Re del cielo ha voluto che sua Madre
subisse la notte nell’angoscia del cuore,
Maria, è dunque un bene soffrire qui in terra?
Soffrire amando è forse la felicità suprema?
Tutto quanto Gesù mi ha donato lo può riprendere:
digli pure di non curarsi di me.
Può ben nascondersi, sono pronta ad attenderlo
sino al giorno senza tramonto in cui la mia fede finirà…
17
So che a Nazareth, Madre piena di grazia,
Vivi poveramente, nulla volendo di più:
niente di straordinario, né miracoli, né estasi
rendono speciale la tua vita, o Regina degli eletti!
Il numero dei figli è ben grande sulla terra:
essi possono senza timore alzare verso di te il loro sguardo.
È per la via comune a tutti, Madre ineguagliabile,
che ti piace camminare per guidarli al cielo.
18
Voglio vivere con te, mia Madre cara, in attesa del cielo.
Mi abbandono rapita contemplandoti,
scoprendo gli abissi del tuo amore.
Il tuo sguardo materno i miei timori mette in fuga.
Tu mi insegni a piangere, tu mi insegni a gioire.
Tu non vuoi disprezzare le gioie pure e sante,
tu vuoi compartirle piuttosto e benedirle.
19
Vedendo a Cana gli sposi inquieti,
perché non possono nascondere il mancare del vino,
al Salvatore esprimi la tua sollecitudine,
sperando nel soccorso del suo potere divino.
Gesù sembra dapprima respingere la tua preghiera.
Dice: che importa, Donna, a te e a me?
Ma in fondo al suo cuore ti chiama Madre
e il primo suo miracolo lo compie per te…
20
Un giorno, mentre alcuni peccatori ascoltano le parole
di colui che vorrebbe accoglierli in cielo,
ti trovo con essi, Maria, sulla collina.
Qualcuno dice a Gesù che vorresti vederlo.
Allora davanti alla folla tutta il Figlio tuo divino
mostra l’immensità del suo amore.
Dice: Chi è mio fratello, sorella e Madre
se non chi compie la mia volontà?
21
O Vergine Immacolata, più tenera d’ogni madre,
ascoltando Gesù non ti rattristi,
ma ti rallegri che ci faccia comprendere
come la nostra anima diventi quaggiù la sua famiglia.
Ti rallegri che egli ci doni la sua vita
e i tesori infiniti della sua divinità!
Come non amarti, madre mia,
vedendo in te tanto amore e tanta umiltà?
22
Tu ci ami, Maria, come Gesù ci ama
e tu consenti per noi d’allontanarti da lui.
Amare è tutto donare e donare se stessi.
Tu hai voluto provarlo restando il nostro punto d’appoggio.
Il Salvatore conosceva la tua infinita tenerezza,
conosceva i segreti del tuo cuore di madre.
Rifugio dei peccatori, ecco come a noi ti lascia
quando si stacca dalla croce per andare ad attenderci in Cielo.
23
Maria, tu mi appari sulla sommità del Calvario
dritta presso la croce, come un prete all’altare,
offrendo per saziare la giustizia del Padre
il tuo diletto Gesù, l’Emmanuele.
Ha detto un profeta, o Madre addolorata,
non c’è un dolore che sia simile al tuo.
O Regina dei martiri, restando abbandonata,
tu prodighi per noi tutto il sangue del cuore.
24
La casa di Giovanni diventa la tua sola casa:
il figlio di Zebedeo deve sostituire Gesù.
É l’ultimo dettaglio che ci trasmette il Vangelo,
della Regina del cielo non mi parla più.
Ma il suo grande silenzio, o Madre cara,
non rivela forse che il Verbo eterno
vuole lui stesso cantare i segreti della tua vita,
per incantare i tuoi figli, tutti gli eletti del cielo?
25
Presto sentirò anch’io questa dolce armonia,
presto andrò a vederti in cielo.
Tu che sei venuta a sorridermi al mattino della mia vita,
veni di nuovo a sorridermi… Madre… ecco viene la sera!
Non temo più lo splendore della tua ineffabile gloria.
Con te ho sofferto e adesso voglio
cantare sulle tua ginocchia, Maria, perché ti amo,
e ancora e ancora ripetere che sono tua figlia!…».
La poesia si apre con uno slancio affettivo. «Perché ti amo, Maria!», ovvero «ti amo, Maria», ritorna martellante. Teresa vuole dar conto del perché ami Maria, del perché il solo suo nome le riempia il cuore di dolcezza. La grandezza della madre del Signore non provoca in lei nessun timore. Certo, ne proverebbe se si limitasse solo a considerarne i privilegi. Davvero non potrebbe considerarsi la sua piccolina, e piuttosto, dinanzi a Maria, dovrebbe abbassare lo sguardo. Con un linguaggio, che il femminismo bolla come maschile e che le grammatiche sino a qualche tempo fa consideravano neutro, Teresa, in tutta la poesia, solo una volta declina al femminile (petite) il suo essere figlia. Parla infatti di enfant, petit sia al singolare che al plurale. E questo ci riporta al tragicomico ricorrere al maschile per indicare entrambi i generi, ovviamente a scapito del femminile. La ragione dell’amore, di questa effusione di tenerezza, in Teresa nasce dal fatto di considerare Maria come una madre. L’estensione a Maria di una maternità, oltre il Figlio, è tema antico nella riflessione e devozione cristiana, basta riandare ad Agostino citato in LG 53. Ed è una estensione delicata della maternità di Maria alle membra tutte del corpo di cui Cristo è il capo. Non dimentichiamo che una estensione impropria di questa espressione ci ha portati a dire Maria madre della Chiesa.
D’altra parte proprio l’Ottocento registra quella che abbiamo già indicato come l’invenzione del materno. Impossibile sciogliere il nodo donna/femminile – maternità/materno. È la risorsa ultima della società borghese per ghettizzare le donne, solo esaltandole in questa loro funzione. E, benché si tratti di una insistenza culturalmente nuova, non si può dire che il ruolo delle donne, nella lunga storia delle culture patriarcali, sia stato mai separato dalla loro funzione riproduttrice. Teresa dunque si colloca a buon diritto nell’orizzonte del suo tempo. L’abbiamo sentita ricordare che Maria è regina e, pur precisando che è madre più e prima che regina, di fatto si fa eco del comune sentimento. Se torniamo ai versi di Teresa, la ascoltiamo affermare che tra madre e figli può esserci solo una relazione di amore, di totale condivisione. Necessariamente l’una e l’altro mischiano le loro lacrime e condividono il dolore. Sinceramente non so a cosa di riferisca Teresa parlando di “sponda straniera” dalla quale Maria versa molte lacrime per attirarla a sé. Forse ha presente più in generale il dolore delle madri, il loro versare tante lacrime per assicurare ai figli la salvezza. E mi sovviene ancora di Agostino, figlio delle tante lacrime che Monica, la madre, ha versato per lui. Questo quadro, se vogliamo stereotipato, ha una improvvisa impennata. Teresa, infatti, uscendo dalla ovvietà relazionale filiale-materna, si riconduce al Vangelo. È a partire dalle sue pagine che, meditando sulla vita di Maria, scopre come possa e debba guardare alla madre del Signore e sentirsene figlia.
Notiamo innanzitutto la chiamata in causa del Vangelo. Nota altrove che i libri non la interessano, tranne la Sacra Scrittura, l’Imitazione di Cristo e le opere di san Giovanni della Croce (cf. MB 241). Dunque, una professione, se non di povertà intellettuale, almeno di riduzione a superfluo della cultura quale la si recepisce, appunto, nei libri. Ciò malgrado non è che l’ ‘800 veda circolare molto la Scrittura nelle mani dei fedeli, siano pure religiosi e religiose. Ma ancora più sorprendente, pur nell’ingenuità degli strumenti critici, è questo affidarsi alle pagine evangeliche per scoprire la verità sulla Madre del Signore, il suo volto vero, la sua vera vita. Notiamo di passaggio che Teresa cita la Scrittura che le è familiare attraverso la recita dei Salmi, ma non soltanto. Cita spesso il Cantico dei Cantici com’è nella tradizione del Carmelo che assume a cifra della sua spiritualità la mistica sponsale. Eppure non possiede una Scrittura, ma solo una silloge e solo da un certo momento in poi. Non aggiungo altro, essendo stato questo tema esplicito oggetto di una delle relazioni.
Ciò che la Scrittura attesta è la condizione assolutamente normale della madre del Signore, la cui vicenda è iscritta nell’esperienza della sofferenza e della morte, come avviene ad ogni altra umana creatura. E il discorso non è generico e lontano: Maria è mortale e sofferente tanto quanto lo è la stessa Teresa… Dobbiamo scorgere in queste parole la condizione esperita della giovane carmelitana a cui certo nulla è stato risparmiato, malgrado la giovane età e, poi, malgrado la malattia. Devo confessare che ripensarne la vicenda nelle astrusità riprovevoli di una concezione della vita religiosa obsoleta, assai spesso più che ammirazione, mi ha indotto a provare per lei compassione. Seguendo la narrazione evangelica e meditando su Maria, la piccola Teresa ne scorre gli eventi. Legge all’annunciazione il preferire di lei la verginità all’essere madre – e anche questa è ovviamente una pia affabulazione, visto che i vangeli ci parlano di una vergine, ma non di un voto di verginità, iscritto invece nella narrazione apocrifa. Teresa la segue sul suo confessarsi serva, ancella del Signore, esprimendo così la sua umiltà, Avverte la grandezza della Madre del Signore, che diventa proprio in questa sua virtù nascosta una sorta, diremmo, di calamita che attrae in sé la santa Trinità. Teresa medita, riesprime a suo modo il mistero dell’incarnazione, in forza del quale Maria diventa madre di una moltitudine nel momento stesso in cui genera il suo primogenito. Cristo infatti ha come fratelli una moltitudine di peccatori e di tutti Maria è la madre.
Nel richiamare il mistero dell’incarnazione Teresa continua a seguire Luca: lo Spirito copre Maria con la sua ombra e, in aggiunta, riecheggia il Simbolo di fede e il Vangelo di Giovanni dicendo che il Figlio uguale al Padre in Maria prende carne. C’è una sinergia salvifica di tutte e tre le Persone divine e Tersa la coglie. E, meraviglia delle meraviglie, Teresa si spinge sino ad affermare che malgrado la sua piccolezza, come Maria possiede anch’essa in sé l’Onnipotente. Ciò perché madre e figlia compartiscono ogni risorsa, ogni ricchezza, ogni dono. Il tesoro di Maria, così Teresa lo chiama, appartiene anche a lei che ne è la figlia; e in particolare appella al suo ricevere il corpo del Signore, indicato come l’ostia bianca, secondo lo stereotipo melenso dell’Ottocento – potremmo a lungo insistere sulla segnaletica del bianco (e della contigua purezza) che a livello devoto canta i tre bianchi amori: Maria, il papa, l’Eucaristia. Ma, appunto, nel ricevere – ancora uno stereotipo – “Gesù, dolce agnello”, quest’ultimo crede di riposare nel grembo della madre.
Mi sovvengono le suggestioni patristiche, di Ambrogio innanzitutto, che chiedono al cristiano di accogliere anche lui il Verbo, anzi di generarlo. Né vanno dimenticate le gravidanze mistiche, la partecipazione al grembo di Maria sino a sperimentare appunto una gravidanza – si pensi a s. Brigida, ad esempio. Diciamo che c’è un crescendo d’identificazione, di condivisione tra la madre e la figlia, sino a compartirne il grembo. E, afferma ancora, che ciò non è impossibile. Maria ha reso visibile la via che conduce al paradiso, via stretta, percorribile tuttavia a partire dalle sue orme, seguendone i passi, ossia praticando le virtù più umili e nascoste, quelle che più la connotano e che – aggiungo io – connotano Teresa, il suo cammino, la sua esperienza spirituale. Insiste, infatti, nel dire che con Maria vuole restare piccola – ed è l’unica volta che usa il femminile. Di ciò che il mondo considera grande coglie sono la vacua vanità. E di nuovo, spostandosi sulla partitura evangelica, chiama in causa Elisabetta, la visita di Maria a Elisabetta, da cui apprende a praticare l’ardente carità, quella che fa – aggiungiamo noi – sussultare il bambino nel grembo dell’anziana madre e la fa sciogliere in una gioiosa confessione circa la beatitudine della giovane madre che la visita. Un fremere ardente di grembi, una danza nel segno dell’amore.
Di Maria ascolta il Magnificat e se ne fa eco e continua a seguire le vicende della Santa Famiglia, nel dubbio di Giuseppe, nella mancata ospitalità a Betlemme e canta la povertà del luogo dove Maria ha generato il Figlio divino. Dice nella strofa 10 che non invidia gli angeli dal momento che Gesù le si è fatto fratello. Nelle strofe che seguono, Teresa segue Maria al Tempio: gioisce con lei e si rattrista alle profetiche parole di Simeone; si fa compartecipe della spada che Maria continuerà a portare in cuore. Il canto scandisce la fuga in Egitto, lo smarrimento di Gesù al tempio. Ed è alla strofa 15 che troviamo un altro elemento interessante e anticipatore della riflessione mariologica a venire: «Madre il tuo dolce figlio, vuole che tu sia d’esempio all’anima che lo cerca nella notte della fede». Ecco, la notte della fede è ciò che vive la Piccola Teresa e che gli scritti suoi attestano. Canta il cielo e si chiede se davvero ci sia. Vive il dubbio, l’angoscia, l’oscurità di una fede voluta senza che niente la consoli o la confermi. E ciò malgrado continua ad attendere e sperare. Da qui la domanda: se il Figlio di Dio ha voluto che la Madre facesse questa esperienza, forse è un bene soffrire qui sulla terra? E risponde che sì, soffrire amando è la più grande felicità. Teresa afferma che Gesù può riprendersi ogni suo dono, può anche non curarsi di lei, può nascondersi. Lei però lo aspetterà sino al giorno senza tramonto in cui la fede finirà.
Per cultura e sensibilità, sono molto lontana dai toni doloristici. Non penso che siamo nati per soffrire, né che la sofferenza possa costituire la felicità. Ma prendo atto che nel rappresentarsi Maria nella sua compiutezza creaturale, Teresa la colga compagna nella peregrinazione della fede, ossia nella fatica di una fedeltà, spesso difficile. Diversamente da quanto ha appreso e afferma, Maria non aveva contezza dell’identità e della missione del Figlio. Come lui è cresciuta in età sapienza e grazia… La peregrinazione della fede accompagna il nostro incedere nella storia, accompagna la nostra crescita di credenti. E certo ce la fanno bene avvertire i tempi complessi che viviamo, la crisi che investe le Chiese, gli scandali, le risposte mancate e differite di partecipazione e di riforma. E ritornando alla vita nascosta di Maria a Nazareth – come non evocare ancora don Tonino Bello! – di nuovo la Madre del Signore appare a Teresa nel segno della povertà, dell’essere paga del poco che ha. Non c’è niente di strepitoso e singolare nelle sue giornate; non ci sono estasi e miracoli, niente rende eccezionale la sua vita. Per questo quanti – e sono tanti – vivono in una condizione di “piccolezza”, di apparente insignificanza, possono alzare lo sguardo verso di lei senza alcun timore.
È per la via comune a tutti, Madre ineguagliabile, che ti piace camminare per guidarli al cielo. Ecco: la via comune; camminare per la via comune. Questa la scelta di Maria, questo la rende più che madre sorella. Teresa non può aprirsi a Maria nel segno della sororità. Il Carmelo non ha ancora recuperato questa dimensione sua arcaica. Ma il senso è questo, pur se ricondotto alla prossimità scazonte della maternità. La via che conduce al paradiso è ordinaria, comune. Il cammino è comune nel senso doppio: della quotidianità e del dovere percorrere la strada assieme agli altri. L’insistenza sull’ordinario non deve farci dimenticare la dimensione plurale, comunitaria dell’essere fratelli, peccatori d’accordo – lo abbiamo sentito –, ma fratelli e figli, in una modalità che esige sinergia, relazione, inter-comunione. La strofa 22 che segue sembra ricondurci alla stereotipia. Ciò malgrado Teresa offre una definizione plausibile dell’amore come dare tutto e donare interamente se stessi.
Commenta papa Francesco nella esortazione apostolica C’est la confiance, n. 36: «Teresina vive la carità nella piccolezza, nelle cose più semplici dell’esistenza di ogni giorno, e lo fa in compagnia della Vergine Maria, imparando da lei che amare è dare tutto e donar se stessi. […] Teresina mostra, a partire dal Vangelo, che Maria è la più grande del Regno dei cieli perché è la più piccola (cfr. Mt 18,4), la più vicina a Gesù nella sua umiliazione. […] I Vangeli ci mostrano una vita umile e povera, trascorsa nella semplicità della fede. Gesù stesso vuole che Maria sia l’esempio dell’anima che lo cerca con una fede spoglia. Maria è stata la prima a vivere la “piccola via” in pura fede e umiltà».
Teresa afferma ancora che questo è l’amore che ci attesta Gesù e con lo stesso tipo di amore ci ama Maria. A dimostrarcelo lei ci rimane come sostegno. Il Salvatore che ben la conosce ce l’ha donata come rifugio dei peccatori quanto lasciata la croce è salito al cielo. Non seguiamo pedissequamente le strofe, ma siamo obbligati a riscontrare la strofa 23, quella relativa a Maria al Calvario. Qui invece Teresa condivide in tutto il sentire del suo tempo. Maria è la madre alterocentrica che chiede a Dio d’immolare suo figlio per il bene dell’umanità. Più esplicitamente: il Figlio deve placare la giustizia divina offesa. È strano che Teresina, che si è fatta vittima dell’amore misericordioso, ora indulga al tema della giustizia divina, recependo lo stereotipo che vede nella morte di croce l’unica possibilità di placare la giustizia di Dio. Non insisto su questa cristologia sacrificale e giudiziale, francamente improponibile nel nostro tempo. Tanto più che è sintonica proprio a quelle prediche enfatiche che Teresa preferirebbe non udire. Ne do un esempio citando il Ventura. Unica indulgenza, ma anche questo è un tema avvertito dalla devozione mariana tra la fine del secolo XIX e l’inizio del secolo XX, è il tema di Maria sacerdos. Lei che sta ai piedi della croce è colta quasi esercitasse una funzione sacerdotale. Sta come il prete all’altare.
E proseguendo sulle orme e sulla vita di Maria, Teresa la vede stabilirsi presso Giovanni. Dopo di che, dice, la Scrittura tace. In verità la menziona ancora in Atti 1,14 ed è davvero l’ultima volta. E la piccola Teresa si interroga se ciò non avvenga perché sia la Parola eterna a cantare la lode della Madre nella gioia dei santi in cielo. Abbiamo già anticipato come Teresa chieda ai tanti esagerati cantori di Maria di abbandonare ogni espressione indebita, ogni indiscrezione – come suggeriva già L.A. Muratori in un suo libello. Qui però ad essere suggerita non è la categoria apofatica del silenzio. Il congedarsi delle Scritture da Maria, a suo dire, rivela che la Parola eterna vuole cantare lui stesso la lode della madre, i segreti della sua vita deliziando così i figli di lei, gli eletti del cielo. Teresa si immagina la dolcezza di questi canti; sospira e anela alle celesti armonie che avverte non lontane. E rivolgendosi a Maria, che le ha sorriso al mattino della vita, le chiede d’essere presente ora che per lei giunge la sera. Anche Tonino Bello ha cantato Maria come “donna dell’ultima ora” e si è affidato a lei con tenerissime parole. No, Teresa non teme davvero lo splendore e la gloria di Maria: con lei ha sofferto e vuole, standole sulle ginocchia, cantare ancora perché la ama. Attende che le dica ancora e ancora che è sua figlia.
A conclusione vale la pena citare un passaggio del Manoscritto C che, tra l’altro, mi riporta a ricordi personali, visto che nella mia infanzia il rosario serale era una sorta di liturgia domestica obbligata. Mi annoiava a morte. Non riuscivo a capirne il senso. Soffrivo della sua monotonia e mi distraevo, mentre il mio implacabile genitore mi chiedeva a che mistero fossimo arrivati. Nell’edizione della Storia di un’anima che mi aveva regalata, di queste affermazioni di Teresa, ovviamente, non c’era traccia. Avrei avuto come contestargli quella tortura serale.
«Mi piacciono molto le preghiere dette comunitariamente perché Gesù ha promesso di essere in mezzo a quanti si riuniscono nel suo nome. Sento poi che il fervore delle mie sorelle si sostituisce al mio, ma – e me ne vergogno – confesso che recitare il rosario mi costa di più che indossare uno strumento di penitenza […] Mi sembra di dirlo male! Per quanto mi sforzi di meditare sui suoi misteri, non ci riesco… Per molto tempo mi sono rammaricata di questa mancanza di devozione che mi sorprende, perché amo tanto la Beata Vergine e dovrebbe essere facile per me offrire in suo onore preghiere che le siano gradite. Adesso mi dispiace meno; penso che la Regina del Cielo essendo mia MADRE, deve vedere la mia buona volontà ed esserne soddisfatta. A volte, quando la mia mente è in una tale aridità che mi è impossibile fare spazio a un pensiero per unirmi al Buon Dio, recito molto lentamente il “Padre nostro” e poi il “Saluto angelico”; queste preghiere mi deliziano, nutrono la mia anima molto più che se le avessi recitate frettolosamente cento volte… La Beata Vergine mi dimostra che non è in collera con me, non manca mai di proteggermi appena la invoco. Se ho qualche preoccupazione o imbarazzo mi rivolgo subito a lei; e sempre come la più tenera delle mamme si prende cura dei miei interessi» (MC 318)
Una sola piccola notazione. Teresa non sa che il rosario è succedaneo dei salmi, che le comunità religiose di vita attiva via via non recitano più alle ore canoniche, anche a ragione della povertà culturale che consegue alla frenesia, pur ammirevole, delle opere. Inconsciamente preferisce pregare con la preghiera del Signore e con l’Angelus, ossia preferisce pregare con la Santa Scrittura. In ogni caso, alla ripetitività della preghiera vocale preferisce la preghiera profonda, quel colloquio della sposa allo sposo che la ripetitività verbale offende e allontana. Le giova più recitare lentamente l’Ave Maria, anziché borbottarne cinquanta, una di seguito all’altra. E in ciò mostra la sua intima libertà.
Strano a dirsi, ma questa giovane di fine ‘800 ha risorse singolari di autonomia interiore. E poco importa se alla fin fine le riconduce alla stereotipia relazionale del materno. In ogni caso, il suo rapportarsi alla Madre del Signore ha una profondità teologale che oltrepassa le stereotipie linguistiche e colloca la stessa Maria nella vita del credente a partire dal Figlio che ella ha accolto nel suo grembo. Teresa rumina la Parola, la accoglie. In ciò prossima a Maria più di quanto non appaia nel suo dirsene figlia. Di Maria, malgrado tutto, coglie la dimensione sororale. Non ha gli strumenti, ma sopperisce con la lucidità che le viene da una fede libera da sentimentalismi e vana credulità. Questo il senso ultimo del suo dire. Questa è la via comune che con Maria ha percorso e assieme a Maria ci invita a fare nostra.
Cettina Militello
Mercoledì della spiritualità 2023 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto
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