Riempi la mia mano, Signore, e io darò i tuoi tesori

Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: la missione come condivisione.

Nella conclusione dell’enciclica che Giovanni Paolo II ha dedicato alla dimensione missionaria della chiesa, si legge: «La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità […] Ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione […]. La spiritualità missionaria della chiesa è un cammino verso la santità». Non potrebbero probabilmente esserci parole più appropriate per definire ciò che Teresa di Lisieux ha vissuto nella sua esperienza spirituale: il cammino interiore che l’ha portata, lei, monaca di clausura, ad essere proclamata patrona universale delle missioni.

1. La missione: azione di Dio nella propria vita

Se è vero che la chiamata alla missione scaturisce dalla chiamata alla santità, e per Teresa la santità dell’uomo è Dio stesso: «Ti domando, o mio Dio, di essere tu stesso la mia santità», prega Teresa (Pre 6), ne deriva per Teresa che anche la missione è esperienza della presenza – azione di Dio nella propria vita. Per Teresa il problema della missione, in modo esplicito si pone quando nel febbraio del 1893 la sorella Paolina (sr. Agnese), eletta priora, le affida l’incarico di sotto-maestra delle novizie, un incarico, come si esprime Teresa, che la portava a «penetrare nel santuario delle anime» per esercitarvi un’azione squisitamente soprannaturale, quale è quella di una formazione religiosa, che tende a «fare amare di più il Signore» (Ms C 311) da coloro che sono oggetto di questa azione.

1.1. Un impegno superiore alle mie forza

Analizziamo il comportamento di Teresa lasciandoci guidare dal racconto che lei stessa fa di questa esperienza: «Quando mi fu dato di penetrare nel santuario delle anime, capii subito che quel compito era al di sopra delle mie forze» (Ms C 310). Questa la prima annotazione di Teresa: si trova di fronte a un ministero superiore alle sue forze. Ma subito dopo aggiunge: «Si capisce che far del bene è una cosa tanto impossibile senza l’aiuto del buon Dio quanto far brillare il sole di notte» (Ms C 311). Posta di fronte alla missione da svolgere, Teresa, senza mezzi termini, ci dice che l’azione soprannaturale, se deve essere guidata da una logica di fede, a qualsiasi livello essa sia esercitata, è impossibile senza l’intervento di Dio. Come intraprendere allora la missione?

1.2. “Signore, riempi la mia mano”

Teresa si muove tra l’impossibilità e l’intervento di Dio. All’interno di questa duplice consapevolezza si pone la scelta di Teresa: «Allora mi sono messa tra le braccia del buon Dio, come un bambino piccolo, e nascondendo il volto tra i suoi capelli, Gli ho detto: Signore, sono troppo piccola per nutrire le tue figlie; se per mezzo mio vuoi dare loro ciò che conviene a ciascuna, riempi la mia manina ed io, senza lasciare le tue braccia, senza voltare la testa, darò i tuoi tesori all’anima che verrà a chiedermi il cibo» (Ms C 310). La consapevolezza della sua radicale impossibilità di intervento non la inibisce, non la chiude nel suo recinto, ma è occasione per allargare all’infinito il suo orizzonte, nell’infinito di Dio che la sta coinvolgendo in questo ministero specifico. Teresa entra nell’orizzonte di Dio attraverso l’abbandono, assumendo l’attitudine di strumento nelle mani dell’unico Artefice. Lasciando da parte la metafora, Teresa, così si esprime: «Madre mia, quando ho capito che mi era impossibile fare qualcosa da sola, il compito che mi ha imposto non mi è più parso difficile: ho sperimentato che l’unica cosa necessaria era di unirmi sempre di più a Gesù, e il resto mi sarebbe stato dato in aggiunta» (Ms C 311).

In sostanza per Teresa la soluzione ha una connotazione mistico/contemplativa. Teresa evidenzia che l’uomo chiamato alla missione, che è azione soprannaturale, non si deve preoccupare, prima di tutto, di agire, ma di unirsi a Dio, di lasciarsi coinvolgere nello spazio di Dio, cioè, di contemplare. E Teresa ci lascia intravedere, a partire sempre dalla sua esperienza, l’efficacia della sua intuizione: «Mai la mia speranza è stata delusa: il Buon Dio si è degnato di riempire la mia piccola mano tutte le volte che ciò è stato necessario» (Ms C 311). Il Dio Amore che si è piegato su Teresa, che lei accoglie, si è impadronito di lei, e rende Teresa partecipe del suo movimento di incarnazione, di discesa verso i fratelli. Abitata dalla presenza di Gesù, Verbo di Dio che si è fatto carne, che si è coinvolto nella storia dell’umanità, Teresa è coinvolta da Gesù a condividere la vita dei fratelli e dei fratelli in situazione.

2. La missione: condivisione della vita dei fratelli e delle sorelle

È in questo orizzonte che Teresa si sente in comunione con tutti i fratelli e sorelle. Lei non ha nulla da offrire, ma si sente sorella di tutti ed ha solo da condividere – lei fiammella inconsistente, debolissima come tutte le altre – la luce che le è stata donata. Con questa consapevolezza esercita il suo ministero missionario fra le sorelle della sua comunità e tra i fratelli lontani. Fermiamoci ad esaminare l’atteggiamento di Teresa nei riguardi di alcune sorelle della sua comunità, poi il rapporto con alcuni missionari e, infine, con i fratelli lontani.

2.1. Condivisione al Carmelo

a) Sr. Marta, sua compagna di noviziato

Questa ragazza, più grande di Teresa di otto anni, è sua compagna di noviziato. Rimasta orfana, passa un lungo periodo in orfanotrofio. Arriva al Carmelo portandosi addosso grosse carenze affettive, per cui si lega in modo dipendente alla priora. Teresa, con delicatezza la aiuterà a diventare libera negli affetti e a non legarsi alla priora «come il cane si attacca al padrone» (MC 308). Scrive Teresa: «A 15 anni quando ebbi la felicità di entrare al Carmelo, trovai una compagna di noviziato che mi aveva preceduta di alcuni mesi. Aveva 8 anni più di me, ma il suo carattere fanciullesco faceva dimenticare la differenza degli anni; perciò, Madre mia, lei ben presto ha avuto la gioia di vedere le sue due piccole postulanti intendersi a meraviglia e divenire inseparabili. Per favorire questo affetto nascente che le sembrava dovesse portare frutti, ci ha permesso di avere insieme ogni tanto dei piccoli colloqui spirituali. La mia cara piccola compagna mi affascinava con la sua innocenza, il suo carattere espansivo; ma d’altro lato mi stupivo nel vedere come l’affetto che aveva per lei, Madre, era diverso dal mio» (Ms C 306).

Due cose evidenzia Teresa: il fatto che l’altra novizia si attacchi alla priora con un affetto “diverso dal suo”, e il rischio che le conversazioni permesse perché aiutassero le due novizie «ad infiammarsi di più nell’amore del loro divino Sposo», finissero per esaurirsi in «conversazioni che somigliavano a quelle fra amiche nel mondo» (Ms C 307). Teresa vive con sofferenza questo stato di cose, anche perché vi è coinvolta direttamente. Con pazienza, comunque, sa aspettare (quasi quattro anni), fin quando non capisce che il tempo per intervenire è maturo, allora si fa carico della situazione della sorella che il Signore le ha posto accanto. E lo fa, nel dicembre del 1892, con “affetto e con espressioni dolci”, ma con decisione.

«Le mostrai – scrive Teresa – che amava se stessa e non lei, Madre; le raccontai come io stessa la amavo, e i sacrifici che ero stata costretta a fare all’inizio della mia vita religiosa per non attaccarmi assolutamente a lei in modo materiale, come il cane si attacca al padrone. L’amore si nutre di sacrifici; più l’anima si priva di soddisfazioni naturali, più il suo affetto diventa forte e disinteressato» (Ms C 308). Attaccarsi «come il cane si attacca al padrone», è il rischio che si corre tra le creature e anche nei monasteri. Teresa non evidenzia il rischio che correva nel compiere questa missione. Ma la sorella Agnese, conoscendo la suscettibilità della priora, racconterà più tardi di aver dissuaso Teresa dall’intervenire. Ricorderà M. Agnese: «Mi sembra ancora di vederla nella sacrestia: “preghi molto per me”, mi disse con tono grave. “La Santa Vergine mi ha ispirato di illuminare Suor Marta. Questa sera le dirò tutto ciò che penso di lei”. “Ma rischi di essere tradita, le dissi, e allora Nostra Madre non ti sopporterà più, e ti manderà in un altro monastero”. “Lo so bene, mi rispose, ma poiché ora sono certa che il mio dovere è parlare, non devo guardare alle conseguenze”».

La stessa sr. Marta racconta che Teresa aggiunse alla fine della conversazione: «Se nostra Madre si accorge che lei ha pianto, e le domanda che cosa la ha fatto soffrire, può, se vuole, raccontarle tutto ciò che le ho appena detto. Preferisco essere malvista dalla Priora, e che mi mandi via dal monastero, se vuole, piuttosto che mancare al mio dovere». Sapendo quanto Teresa ha lottato per entrare al Carmelo di Lisieux, si comprende meglio con quanta audacia si coinvolga nella vita della sorella e con quanta eroicità rischi tutta se stessa per aiutare una sorella a liberarsi da una dipendenza meschina e per educarla alla libertà e all’amore vero, gratuito, frutto della presenza di Gesù nella propria vita.

b) Educatrice delicata della sua priora (Madre Maria di Gonzaga)

Sempre nel Manoscritto C, rivolgendosi alla priora madre de Gonzaga, Teresa ricorda: «Madre amata, c’è un altro giorno in cui la mia anima si attaccò ancora di più alla sua, se ciò era possibile: fu quando Gesù le impose di nuovo il fardello del superiorato. In quel giorno, Madre diletta, lei ha seminato nelle lacrime, ma in Cielo sarà piena di gioia vedendosi carica di covoni preziosi» (Ms C 267). A cosa allude Teresa? Per comprendere è necessario capire cosa è avvenuto. Nel marzo del 1896, a conclusione del mandato di priora di madre Agnese (sorella di Teresa), madre Gonzaga aveva brigato per tornare ad essere di nuovo lei la priora, dopo la parentesi di tre anni. Ma in comunità alcune desideravano confermare la madre Agnese, per cui si creò una situazione di stallo e la madre Maria di Gonzaga solo al settimo scrutinio risultò eletta priora. Questo episodio aveva creato tensioni e sofferenze in comunità.

Teresa, sebbene avesse sperato che venisse riconfermata la sorella madre Agnese vedendo la sofferenza della vecchia priora, che si sentiva non accolta da molte sorelle, si assunse spontaneamente il compito di starle vicina e di aiutarla a ritrovare la pace. E quindi, qualche mese dopo l’elezione, il 29 giugno del 1896, scrisse alla priora una lunga lettera (L 190), dove, a forma di favola, racconta di una pastora che un giorno si accorge, con dolore, di non essere amata dal gregge, e di un agnellino che le sta accanto dispiaciuto di vederla soffrire tanto. Teresa racconta che l’agnellino fa un sogno in cui vede il Buon Pastore e a lui racconta le pene della pastora. E l’agnellino riceve un messaggio che deve riferire alla Pastora, dove è presente l’invito a leggere gli avvenimenti alla luce della fede. Nella favola, Teresa mostra una grande maturità umana e spirituale e offre degli insegnamenti straordinari. A ventitre anni, Teresa fa l’esperienza più pesante che possa toccare a una figlia: quella di dover fare da madre alla propria madre. Teresa diventa educatrice saggia e delicata della priora che l’ha accolta al Carmelo.

Mentre alcune suore mentivano per compiacere la priora, Teresa scelse di condividere il momento difficile della stessa, e nello stesso tempo scelse non di adularla, ma di dirle, con estrema delicatezza, verità brucianti: che la Priora e la comunità si stavano muovendo “terra terra”; che il pensiero e l’amore di Gesù non erano più all’origine dei pensieri, dei giudizi e degli affetti di molte religiose; che il buon volere di Dio si manifesta sempre attraverso gli avvenimenti umani; che ogni dolore deve essere vissuto come partecipazione al dolore di Gesù crocifisso; che bisogna stare con le sorelle, ma col cuore attaccato unicamente a Cristo. Con questo suo atteggiamento, Teresa in una comunità tentata di agire secondo una logica mondana, nel Corpo mistico della sua “piccola chiesa monastica” si collocava “nel cuore” e diventava lei, a vantaggio di tutte, epifania dell’Amore.

2.2. Sorella dei presbiteri missionari

È sempre in questo orizzonte che si pone il ministero di Teresa a favore dei fratelli presbiteri missionari. Ad essi Teresa non offre solo qualcosa ma condivide quello che lei stessa è. Lei stessa annota: «Ecco come mi sono unita spiritualmente agli apostoli che Gesù mi ha dato come fratelli: tutto quello che mi appartiene, appartiene ad ognuno di loro» (Ms C 333). Teresa vive questa esperienza di corrispondenza con i fratelli spirituali con gioia grande. La vede come segno della tenerezza di Dio che le consente di vivere i rapporti con i fratelli che non ha conosciuto (cf. Ms C 330). Accoglie questa vocazione/missione in clima di fede ma dà una connotazione umana molto densa a questo nuovo rapporto: li chiama fratelli e desidera entrare nella concretezza della loro esistenza, chiedendo di conoscere le date più significative della loro vita, conservando la loro foto, tenendo appesa alla parete della stanza di lavoro la carta geografica del territorio missionario ove operano i fratelli presbiteri, ponendo l’immagine ricordo dell’ordinazione in mezzo al vangelo che porta sempre sul cuore (cf. L 193 a p. Roulland). Con questi fratelli inizia la corrispondenza da sorella ma esercita un vero ministero di accompagnamento spirituale. Il suo è un accompagnamento che mira alla condivisione della “manna nascosta” (cf. L 261). In fondo Teresa vuole accompagnare i fratelli a scoprire il volto di Dio, svelato da Gesù, che ha sedotto la sua vita.

Proprio perché Teresa vive questa esperienza di Dio, superando vecchi schemi ascetici, educa i suoi fratelli a fissare gli occhi e il cuore sulla tenerezza di Gesù (cf. L 258) sulla misericordia di Dio: «Ah! fratello mio, quanto poco si conoscono la bontà e l’amore misericordioso di Gesù!» (L 261). E di conseguenza li invita ad andare a Dio seguendo la strada della confidenza che è la strada battuta da Teresa: «Fratello mio, ecco quello che penso della giustizia del buon Dio. La mia via è una via tutta di fiducia e d’amore; io non capisco le anime che hanno paura d’un così tenero Amico. Talvolta, quando leggo certi trattati spirituali, nei quali la perfezione è presentata attraverso mille ostacoli… il mio povero spirito si stanca molto presto; chiudo il dotto libro, che mi rompe la testa e mi inaridisce il cuore, e prendo la Sacra Scrittura. Allora tutto mi appare luminoso: una sola parola svela alla mia anima orizzonti infiniti; la perfezione mi appare facile; vedo che basta riconoscere il proprio niente e abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio» (L 226; cf. anche L 247; 258; 261).

Sebbene consapevole della sua imminente morte e pur vivendo nell’oscurità esistenziale (cf Mc 276-281), Teresa esercita, verso i fratelli presbiteri, il ministero della consolazione, tipico dello Spirito santo. È lo stare accanto, sostegno nella fede. «Quel che oggi volevo fare era consolarla» (L 258), scrive a D. Bellière, qualche mese prima di morire. Del resto questo ministero Teresa intende svolgerlo anche dal cielo: «Ah! fratello mio, lo sento, le sarò molto più utile in Cielo che sulla terra… Conto molto di non restare inattiva in cielo; il mio desiderio è di lavorare ancora per la chiesa e per le anime» (L 263). Legato al ministero della consolazione è il ministero del sorriso, manifestazione del sorriso di Dio. Sempre allo stesso D. Bellière, inviando la sua fotografia dice; «Creda, piccolo fratello mio, che se la mia fotografia non le sorride, la mia anima non smetterà di sorriderle, quando sarà accanto a lei» (L 258).

2.3. Condivisione con i lontani. Alla mensa dei peccatori

È sempre in questo orizzonte di condivisione che va esaminato l’ultimo periodo della vita di Teresa, quello che va dalla notte di Pasqua del 1896 alla fine della sua vita. Noi lo conosciamo perché Teresa stessa ce lo ha fatto conoscere. È questo un avvenimento che a prima vista appare scandaloso: come può accadere, infatti, che l’ultimo periodo dell’esistenza di una delle più grandi mistiche sia un periodo di notte, di crisi, di difficoltà immense? Non possiamo minimizzare questo evento dell’esperienza di Teresa.

a) Dalla luce della fede

Fino alla Pasqua del 1896 quella di Teresa è una vita dalla quale il sentimento spesso è molto assente: lei stessa ripete che non sente la presenza di Gesù, che egli è nascosto; ma essa comprende questa assenza dicendo che se l’Amato agisce così, è perché lei lo cerchi, lo trovi e l’ami di più. Ma se il sentimento è una riva dolce che essa ha accettato di lasciare, c’è in Teresa, fino alla Pasqua del 1896, una reale percezione della fede: «Godevo allora, scrive, di una fede così viva, così chiara, che il pensiero del Cielo era tutta la mia felicità». Quindi Teresa vive non in un sentimento di fede, ma nella luce della fede. Ci sono state precedentemente delle prove interiori, ma a partire dalla Pasqua del 1896 l’anima di Teresa è “invasa dalle tenebre più fitte”, lei parla di “tunnel oscuro”, aggiunge che vorrebbe far riposare il suo “cuore stanco delle tenebre che lo circondano”, “delle foschie”. I suoi paragoni le sembrano deboli in confronto alla realtà: «L’immagine che ho voluto darle delle tenebre che oscurano la mia anima è tanto imperfetta quanto un abbozzo paragonato al modello» (Ms C 278).

b) Alla notte del niente

Prima Teresa godeva della luce della fede, adesso è come cieca, e per chi diventa cieco il ricordo dell’antica luce diventa sofferenza: “il pensiero del cielo, così dolce” per lei, non è “più che fonte di lotta e di tormento”. Sembra che Teresa non abbia più vie d’uscita e per di più sembra che le tenebre assumano quasi una figura umana e le parlano con sorprendente prosopopea: «Tu sogni la luce, una patria fragrante dei più soavi profumi; sogni il possesso eterno del Creatore di tutte queste meraviglie; credi uscire un giorno dalle nebbie che ti circondano. Vai avanti, vai avanti, rallegrati della morte che ti darà non ciò che speri, ma una notte ancora più profonda, la notte del nulla» (Ms C 278). La prospettiva è drammatica: è la sparizione totale nella nebbia, la sepoltura nell’insignificanza, “la notte del nulla”. Teresa sente il bisogno di dire subito: «Non voglio andare avanti a scrivere: temerei di bestemmiare… Ho paura di aver già detto troppo» (Ms C 278). Cos’è che ferisce così profondamente Teresa? È l’incredulità radicale? È difficile parlarne, ma forse collocando Teresa nel suo tempo possiamo capire qualcosa.

c) L’incredulità dei contemporanei

L’esperienza di Teresa avviene in un periodo in cui l’ateismo comincia a manifestarsi in modo massiccio. L’entrata nella “notte del nulla” di Teresa è strettamente legata alla presa di coscienza dell’esistenza dell’ateismo. Teresa, infatti scrive: prima «non riuscivo a credere che ci fossero degli empi che non hanno la fede. Credevo che dicessero cose in contrasto col loro stesso pensiero quando negavano l’esistenza del cielo» (Ms C 276). Dopo: «Nei giorni così gioiosi del tempo pasquale, Gesù mi ha fatto sentire che ci sono veramente delle anime che non hanno la fede» (Ms C 276). Prima credeva che l’ateismo fosse una posizione ostentata, una finzione. Dopo si accorge che esistono veramente dei non-credenti. E intuisce che questo nuovo modo di considerare i non-credenti sia dovuto a Gesù stesso, che è una grazia aver aperto gli occhi e aver finalmente visto che i non-credenti esistono. Mentre Teresa prende coscienza di questo fatto, Gesù permette che Teresa stessa entri nel tunnel del niente.

d) Interroga Teresa

È l’incredulità dei contemporanei che improvvisamente interroga Teresa nel profondo del suo cuore. Ma è un interrogativo e non la distruzione della fede. Infatti, Teresa partecipa alle tenebre «che non hanno affatto capito che questo Re Divino era la luce del mondo» ma nello stesso tempo partecipa alla luce data da Gesù: «Signore, tua figlia l’ha capita la tua luce divina» (Ms C 277). Le due espressioni sono attaccate e non si può sopprimere né l’una né l’altra. Teresa quindi si trova in una situazione contraddittoria, a prima vista. Si trova in una sofferenza mai provata e in una gioia più grande che mai: «Nonostante questa prova che mi toglie ogni godimento, posso però esclamare: “Signore tu mi colmi di gioia con tutto quello che fai” (Sal 91)» (Ms C 279). Qual è il motivo di questa gioia? Teresa pensa che se Gesù le ha fatto vedere la realtà dell’incredulità e l’ha fatta perfino partecipare della notte dell’incredulità, è perché essa rovesci la situazione: perché viva quello stato di tenebre per i non-credenti stessi. È la gioia di non vivere la gioia della fede, perché quegli altri, i non-credenti che non conoscono tale gioia, la raggiungano: «Gli dico che sono felice di non godere quel bel Cielo sulla terra affinché Egli lo apra per l’eternità ai poveri increduli» (Ms C 279).

e) Si fa loro compagna e mangia il pane della prova

Teresa vive questa notte come condivisione di vita con Gesù e con gli increduli. Visto che gli increduli esistono, Teresa si fa loro compagna. Lei vuole mangiare alla loro tavola. Da quando conosce l’esistenza degli increduli, Teresa li guarda, non dall’alto, come la maggior parte delle sue consorelle che si facevano vittime per i peccatori e diventavano così come delle madri, che li partorivano alla vita della fede: Teresa li guarda come fratelli e si preoccupa soltanto di sedere alla loro stessa tavola: «Signore, la tua figlia l’ha capita la tua luce divina! Ti chiede perdono per i suoi fratelli. Accetta di mangiare per quanto tempo vorrai il pane del dolore» (Ms C 277).

La sua preoccupazione è di restare con quelli che mangiano il pane dell’incredulità: «non vuole alzarsi da quella tavola piena di amarezza» (Ms C 277); è pronta a restarvi per ultima finché «tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola luminosa della Fede la vedono finalmente brillare» (Ms C 277), Teresa dice: «Accetto di mangiarvi da sola il pane della prova fino a quando ti piaccia di introdurmi nel tuo regno luminoso. La sola grazia che ti domando è di non offenderti mai!» (Ms C 277). E da sola – in sorprendente somiglianza con l’Amato! che si ritrova come fallito in croce – Teresa, come aveva sperato, si ritrova a misurarsi con la morte a mani vuote, come fallita anche lei nel suo desiderio che “tutti quelli che non sono rischiarati dalla fiaccola luminosa della fede la vedano infine brillare”.

3. Per concludere

In questo nostro mondo Teresa desidera che sia presente ancora l’amore di Gesù, un amore alimentato da una fede oscura e senza sostegno (la fede dei mistici) e non da una fede avida di miracoli e di trionfalismi. E questo amore, ci ricorda Teresa, e in questo senso svolge la sua missione anche nei nostri riguardi, non verrà in questo mondo da una errata evangelizzazione esterna (organizzazioni, consulte, commissioni, statistiche, gruppi di pressione), o da una colonizzazione, o da una crociata. Questo amore di Gesù nascerà e crescerà nella fraternità-sororità di una vita condivisa con gli uomini: ecco cosa suggerisce Teresa, compagna di cammino degli increduli, loro sorella. Teresa, con il suo vissuto, è memoria che indica alla chiesa un modo nuovo di essere presente al mondo dell’incredulità, non più con il proselitismo e la lotta, ma con la comunità d’esistenza, con amore, tenerezza e umiltà.

P. Alberto Neglia
Mercoledì della spiritualità 2023 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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