Fa’ che io ti rassomigli, Gesù

Santa Teresa di Lisieux nel 150° dalla nascita e 100° dalla beatificazione: alla ricerca del volto nascosto di Cristo.

Premessa

Il 9 aprile del 1888, all’età di quindici anni, Teresa Martin entra nel Carmelo di Lisieux. Qui vive gli ultimi nove anni della sua breve esistenza. Morirà a ventiquattro anni di tubercolosi il 30 settembre del 1897. Ma seppure nove anni di vita monastica al Carmelo non sono molti, ella li ha vissuti tutti intensamente, percorrendo un cammino spirituale ricco, articolato e complesso, e particolarmente innovativo per il clima spirituale e culturale del suo tempo. Non a caso nel XX secolo Pio X la dichiarerà «la più grande santa dei tempi moderni» e il filosofo francese Emmanuel Mounier affermerà: «Teresa è uno stratagemma dello Spirito Santo». È nostra intenzione, in questi nostri incontri, di voler cogliere l’originalità e l’attualità di Teresa, evitando di fare di lei un bel santino devozionale. Lei merita molto di più, perché con la sua vita e i suoi scritti ancora oggi ci aiuta a vivere la vita cristiana ponendo al centro la Parola di Dio e in particolare Cristo Gesù e il suo Vangelo.

Per questo sono opportune due avvertenze per comprendere l’itinerario della sua vita e per meglio orientarsi nella lettura dei suoi Scritti: la Teresa che entra nel monastero di Lisieux non è più la stessa – dal punto di vista del cammino di fede – di quella che incontriamo un anno dopo, almeno a partire dal maggio-giugno del 1889; inoltre, il suo linguaggio romantico-affettivo e devoto – tipico della cultura e della spiritualità del XIX secolo –, pur rimanendo formalmente sempre tale, assume in lei, man mano che cresce nel cammino della fede – una trasformazione semantico-simbolica, vale a dire una trasformazione di senso e di significato a livello simbolico più aderente alla novità del Vangelo.

Al riguardo, basti leggere la Poesia 51, che parla della rosa sfogliata come simbolo del dono esistenziale di sé a perdere, in conformità al dono esistenziale di Gesù, il quale testimoniò in maniera eloquente che amare è dare tutto di sé, senza aspettarsi il contraccambio. Il 9 giugno 1897, quasi quattro mesi prima di morire (morirà il 30 settembre 1897), lei conferirà all’evento della sua morte lo stesso senso e significato dato alla rosa sfogliata, cioè del dono totale di sé, così da sussurrare a madre Agnese (sua sorella Paolina): «sarà come una pioggia di rose» (QG 9,6,3, p. 991). Accostiamoci, allora, all’itinerario esistenziale e spirituale che Teresa ha percorso in nove anni di vita monastica al Carmelo, attraversando la complessità e la drammaticità dell’esistenza. Ci soffermeremo in questo incontro sulla ricerca del Volto nascosto di Gesù, ricerca che, a mio avvio, segna come un filo d’oro tutta la sua esistenza al Carmelo.

1. Il clima spirituale dominante dell’epoca

Entrando nella comunità del Carmelo di Lisieux, Teresa si ritrova a vivere la spiritualità tipica di quell’epoca, ovvero una spiritualità caratterizzata: dal rigorismo ascetico e meritocratico al fine di acquisire meriti davanti a Dio; dall’esercizio dell’offerta alla giustizia di Dio-giudice delle proprie sofferenze in riparazione dei peccati dell’umanità; e dal volontarismo, ovvero dal primato della volontà e dello sforzo personale, che pone in secondo piano il primato della grazia/gratuità di Dio e del suo Figlio Gesù. Se questa era la spiritualità dominante nel XIX secolo, tuttavia un’altra forma di spiritualità si era andata diffondendo. Si tratta della visione spirituale maturata dal vescovo francese s. Francesco di Sales, vissuto dal 1567 al 1622, proclamato nel 1877 da Pio IX dottore della Chiesa. Tramite i sui scritti, la sua proposta spirituale ebbe un certo influsso nella Francia del XIX secolo. Più che sul rigore ascetico, Francesco di Sales insisteva sulla fermezza accompagnata dalla dolcezza, dall’amore e dall’abbandono confidente alla volontà di Dio.

Di recente, in occasione del IV centenario della morte di s. Francesco di Sales, papa Francesco ha scritto una lettera apostolica, dal titolo Totum amoris est, dove presenta la spiritualità del santo vescovo tutta fondata sull’amore. Il papa cita una sua frase che riassume il suo modo di intendere il vissuto della vita cristiana animato dallo Spirito del Signore: «Nella santa Chiesa tutto appartiene all’amore, vive nell’amore, si fa per amore e viene dall’amore» (p. 8, secondo il testo delle edizioni Paoline). E a p. 23 mette in risalto il senso della vera devozione: essa «esige l’amore di Dio, anzi non è altro che un vero amore di Dio; non un amore genericamente inteso»; «è una sorta di agilità e vivacità spirituale per mezzo della quale la carità agisce in noi o, se vogliamo, noi agiamo per mezzo suo, con prontezza e affetto». Nella famiglia Martin, ormai è accertato, la spiritualità e gli scritti di Francesco di Sales erano conosciuti: Teresa, infatti, lo cita, alcune volte ricordando esattamente l’autore (cf. MA 201; 211; L 89; SD, II,3), altre volte confondendolo con Teresa d’Avila (cf. L 200; PR 7,1r°). Tuttavia anche Teresa, che è figlia del suo tempo, vive il clima dominante della spiritualità del XIX secolo. Lo evidenziamo subito.

2. La tendenza al volontarismo

Teresa entra nel Carmelo con l’entusiasmo e con l’intenzione esplicita e determinata di diventare santa. Così scrive a madre Agnese poco prima di entrare: «Voglio essere una santa…», e riportando la frase di un santo, del quale non ricorda il nome, scrive: «Non sono perfetto, ma voglio diventarlo» (L 45). Queste frasi manifestano la serietà del suo impegno, lei adolescente di quindici anni, ma nello stesso tempo rivelano in lei quella tendenza spirituale al volontarismo, al primato dello sforzo personale, che dopo qualche tempo dovrà ridimensionare, senza scadere nell’infantilismo e nella superficialità, ma custodendo sempre il senso della fermezza e dell’impegno. Così nella Lettera 76 – lei è già postulante nel Carmelo – scrive: «Voglio donare tutto a Gesù, non voglio dare alla creatura neppure un atomo del mio amore». Lei è convinta, come scrive al papà, che «occorre pur soffrire per guadagnare la vita eterna ed è per questo che [Dio] ci prova in tutto quello che abbiamo di più caro» (L 68). In questa fase della sua vita il verbo “voglio” è uno dei più sottolineati: «io voglio soffrire tutto ciò che piacerà a Gesù, lasciare che Egli faccia quel che vuole della sua pallina» (L 80).

Con il passar dei mesi, Teresa sperimenta che la comunità del Carmelo non è poi il dolce nido così come il papà spesso lo descriveva (cf. L 68). Lei inizia a rendersi conto che, vista e vissuta dall’interno, la realtà quotidiana della comunità è ben differente. Lei, ragazza di buona famiglia, si trovava ora come postulante a vivere in un ambiente non facile, dove alcune sue consorelle ironizzavano sia sulla sua scarsa attitudine alle pulizie del monastero, fatto di grandi corridoi e ampi locali, sia sul peso che lei poteva diventare per la comunità, poiché abituata nel mondo ad essere riverita come una reginetta coccolata e viziata. Sono probabilmente le “punture di spillo” cui accenna nelle lettere (cf. L 55; 74). A un mese dal suo ingresso nel monastero, Teresa pensava che per una carmelitana una giornata passata senza sofferenze è una giornata perduta (cf. L 47). Con il passar dei mesi, invece, sperimenta tutto il contrario, ovvero tutta la durezza dei propri limiti e della propria debolezza e fragilità, simile ad una “piccola canna” (cf. L 55).

Infatti un anno dopo, nel 1889, scrive alla sorella Celina: «“Gesù ha sofferto con tristezza. Senza tristezza l’anima, forse che l’anima soffrirebbe?!”. E noi vorremmo soffrire generosamente, nobilmente!… Celina, che illusione!… Non vorremmo cadere mai! Che importa, mio Gesù, se cado ad ogni istante: in questo modo io vedo la mia debolezza, ed è per me un grande guadagno… Se tu conoscessi la mia miseria! Oh, se sapessi!… La Santità non consiste nel dire cose belle, non consiste neppure nel pensarle o nel sentirle! La santità consiste nel soffrire e nel soffrire di tutto. “La Santità! bisogna conquistarla con la spada sguainata, bisogna soffrire, bisogna agonizzare”» (L 89). E a Madre Agnese confidava: «Io soffro, ma la speranza della Patria mi dà coraggio» (L 95). Quasi un grido, ma sostenuto dalla speranza.

Attenzione! Per Teresa questa è semplicemente una tappa del suo cammino spirituale, che col tempo supererà; non è il punto di arrivo del suo itinerario di fede e spirituale. Fra non molto Teresa abbandonerà l’idea che un’ascesi di sofferenza, anche la più rigorosa, conduce ad una santità certa e sicura, e che il cristiano nella sua sofferenza possa offrire e dare qualcosa al Signore per meritare da lui le sue grazie, i suoi favori e la vita eterna. No. La sofferenza per la sofferenza ci rende più disumani, ci abbrutisce. Bisogna comprendere bene il motivo che causa la sofferenza. Se si soffre perché questo lo chiede la fedeltà all’amore, al Vangelo, al bene che siamo chiamati a compiere, all’onestà, alla trasparenza nelle relazioni interpersonali, alla giustizia, allora, sì, che la sofferenza ci umanizza e ci rende santi, cioè ci rende simili al Figlio Gesù.

Al contrario, la sofferenza in sé ci fa diventare simili alle bestie, ovvero alimenta l’animalità che c’è in noi, ci rende disumani e disumanizza il mondo che ci circonda, disumanizza le nostre relazioni, anche quelle tra cristiani. Bisogna ricordare ciò l’apostolo Pietro scrive alle comunità cristiane che sperimentano la persecuzione: «È meglio soffrire operando il bene, che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio» (1Pt 3,17-18). La fedeltà all’amore è sempre una fedeltà a caro prezzo, cioè al prezzo della sofferenza. Ma è l’amore – non la sofferenza – che umanizza le nostre relazioni e rende vero – e non ipocrita – il nostro rapporto con Dio e con il suo Figlio Gesù, e i nostri rapporti con gli altri.

3. Il dramma della malattia del papà

Abbiamo visto come Teresa, dopo i primi tempi, si rense conto che la vita al Carmelo, vissuta dall’interno, specialmente per quanto riguarda le relazioni interpersonali nella vita comunitaria, era complessa e impegnativa, con alcune “punture di spillo” e con regole e osservanze che a quel tempo erano molto rigide e non facilmente sostenibili per una ragazza della sua età. Ed ella ne soffrì molto (cf. MA 212). Ma la sofferenza più grande le arrivò improvvisa con la malattia del papà: una forma di demenza senile dovuta a problemi di tipo circolatorio o neurologico con smarrimenti, fughe improvvise, allucinazioni e speculazioni finanziarie azzardate.

Già un primo attacco il padre lo ebbe nel primo maggio del 1887, dal quale si riprese (cf. MA 201. Ma poi gli venne un altro più forte e più grave il 23 giugno 1888 (cf. MA 202), cioè dopo qualche mese dall’entrata di Teresa nel Carmelo; poi ancora il 3 novembre 1888, dal quale però ancora si rimise (cf. MA 202). Ma accade che il 12 febbraio 1889 – un mese dopo la vestizione di Teresa (10 gennaio 1889) – il papà viene ricoverato in una casa di cura: in realtà una casa per malati mentali (cf. MA 206). Per stare vicine al padre, le sorelle Leonia e Celina andarono ad abitare in una pensione situata nei pressi della casa di cura (cf. MA 207). Nel paese corsero subito voci maligne e fangose riguardo alla malattia del padre (cf. L 81; 107); voci che ponevano in cattiva luce la correttezza morale del sig. Martin e colpevolizzavano Teresa, con qualche insulto irrispettoso nei suoi confronti (“la figlia del pazzo”), come se il suo ingresso al Carmelo fosse stata la causa della malattia del papà. In realtà egli era fiero della scelta della sua amata figlia (cf. MA 201).

A causa del suo stato di salute, il papà non poté partecipare al rito pubblico e solenne della velazione di Teresa (24 settembre 1890), che a quel tempo avveniva alcuni giorni dopo il rito della professione religiosa (8 settembre 1890), rito che si celebrava alla presenza della sola comunità. Il papà morì alcuni anni dopo, il 29 luglio 1894. Si comprende come tutto questo fu motivo di grande sofferenza per Teresa e per tutta la sua famiglia (cf. MA 206; 213-214). La vicenda della malattia del padre finì per mettere a dura prova la fede della nostra sorella, fino a farle sperimentare di essere come in un “sotterraneo” (cf. L 115), vivendo tempi di aridità spirituale, di silenzio da parte di Gesù (cf. MA 207; 215-219; 221), nonostante che, dopo due mesi dall’ingresso nel Carmelo, lei avesse ricevuto da parte del p. Pichon, suo direttore spirituale, una grande consolazione spirituale e l’augurio che nel tempo del noviziato ella assumesse come suo superiore e suo maestro direttamente Cristo Signore. E, infatti, così farà Teresa. Ma poi ella farà ancora di più: assumerà Gesù anche come suo “direttore spirituale” (cf. MA 196; 199).

4. La crisi come crescita: alla ricerca del Santo Volto nascosto di Gesù (1889-1890)

Teresa visse intensamente questa crisi come occasione di crescita. Tanto da poter affermare che «i tre anni di martirio di Papà mi sembrano i più amabili, i più fruttuosi di tutta la nostra vita; io non li darei per tutte le estasi e le rivelazioni dei Santi; il mio cuore trabocca di riconoscenza pensando a quel tesoro inestimabile che deve suscitare una santa gelosia negli Angeli della corte Celeste» (MA 206). Teresa attraversò questa crisi avanzando nel suo cammino di fede. Vediamone i passaggi.

L’affetto profondo verso il padre, la devozione al Volto Santo , che era praticata in famiglia e anche in comunità (cf. MA 200), e la meditazione delle pagine bibliche di Is 53,1-5 e 63,1-5, condussero Teresa a contemplare il Volto nascosto del Signore Gesù nel volto nascosto del papà malato di demenza senile precoce, il quale durante i momenti di crisi della malattia usava coprirsi il volto con un panno. D’altronde, a circa sette anni Teresa, quando il padre si dovette assentare per lavoro, in attesa ansiosa del suo ritorno, guardando alla finestra, ebbe la visione di un uomo anziano e un po’ curvo che veniva verso casa, ma che dopo un po’ scomparve dalla sua vista. A Teresa gli parve di aver visto il padre. Questa visione, che lei chiama profetica, gli rimase sempre impressa nella memoria (cf. MA 68). E si cercherà sempre di alzare il velo sul significato e sul senso di quella visione, che le rimaneva ancora un po’ oscura (cf. MA 69-70).

Finalmente il velo misterioso le viene alzato. Lei afferma che è stato il Buon Dio, ovvero, attraverso la meditazione attenta – su consiglio di madre Agnese (sua sorella Paolina) – delle pagine bibliche di Isaia che riguardano il IV Canto del Servo del Signore (in particolare Is 53,1-5) e il Messia sofferente (cf. Is 63,1-5). Così scrive, riassumendo l’esito della sua meditazione, riguardo a quell’uomo visto nella visione profetica: «Era proprio Papà che avevo visto, che camminava curvo per l’età… Era proprio lui che portava sul suo viso venerale, sulla sua testa incanutita, il segno della sua prova gloriosa… Come il Volto Adorabile di Gesù fu velato durante la Passione [cf. Lc 22,64; Mt 25,21], così il volto del suo servo fedele doveva essere velato nei giorni del dolore, per poter risplendere nella Patria Celeste presso il Signore, il Verbo Eterno!.. E dal seno di quella gloria ineffabile, quando già regnava in Cielo, che il nostro diletto Papà ci ha ottenuto la grazia di comprendere la visione che la sua reginetta aveva avuto a un’età in cui non è da temere l’illusione! È dal seno della gloria che egli ci ha ottenuto questa dolce consolazione di capire che dieci anni prima della nostra grande prova il Buon Dio ce la mostrava già, come un Padre fa intravedere ai suoi figli l’avvenire glorioso che prepara per loro e ci compiace di considerare in anticipo le ricchezze incalcolabili che devono essere la loro sorte» (MA 70).

Nella Lettera 108, indirizzata dal Carmelo a Celina il 18 luglio 1890, Teresa descrive la sua meditazione sulle pagine di Isaia, che accosta al Cantico dei cantici e all’Apocalisse, pagine bibliche che l’aiutano ad immergersi nella bellezza nascosta di Gesù. Infatti, le pagine di Isaia, parlando del Servo del Signore e del Messia, come pure del suo Volto sfigurato e deriso, e del suo corpo e la sua veste insanguinata, queste pagine bibliche ci parlano in maniera eloquente della esistenza offerta e donata del Messia Gesù (cf. anche L 95; Pr 16). Seguendo Gesù, ognuno di noi – come la sposa del Cantico dei cantici (5,2; 1,13; 5,10; 7,6), come i martiri dell’Apocalisse con le loro vesti bianche lavate nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,13-15) e come il papà di Teresa – è chiamato a dimenticare se stesso (cf. Giovanni della Croce, Canto dell’anima, strofa 8, in Salita del Monte Carmelo), per assomigliare al suo Volto, ognuno di noi – come Gesù – deve fare della sua esistenza un dono per gli altri, perché gli altri abbiano la vita. Ecco la meditazione di Teresa sulle pagine di Isaia.

La contemplazione del Volto nascosto/velato di Gesù nel volto velato e umiliato del padre malato mentale diventerà poco alla volta per Teresa la chiave interpretativa che le permetterà di accostarsi al mistero della follia/pazzia del nostro Dio che ha voluto amare nella più assoluta gratuità la creatura umana. È l’amore folle di Dio che ci ama così come siamo: poveri, fragili, infedeli. Perché il suo è un amore donato nella gratuità e non in base ai nostri meriti e alle nostre opere. Pian piano Teresa inizierà a vivere la vita cristiana e quindi la vita al Carmelo nella prospettiva non meritocratica, ma nella prospettiva della pura gratuità, che è manifestazione concreta dell’azione trasformante della Grazia divina. Dunque, la malattia del padre suscita in Teresa, dopo un primo momento di amarezza e di dolore, una reazione positiva di crescita progressiva nel suo cammino di fede, nonostante – non lo dobbiamo dimenticare – che lei continui ad avere prove interiori, fino a chiedersi se ci fosse un Cielo, cioè se esistesse veramente Dio (cf. MA 227).

5. Nella notte della fede alla tavola dei peccatori: dalla ricerca alla somiglianza del Volto nascosto (1896-1897)

Siamo negli ultimi due anni della sua esistenza. Va ricordato un fatto importante: Teresa, dopo essere passata per il tunnel dell’aridità (cf. L 110), a partire dalla Pasqua nell’aprile 1896 (prime emottisi della tubercolosi), entra “nella notte della fede”, il cui pieno senso e significato di questa sua notte oscura le si sarebbero chiariti soltanto negli ultimi mesi della sua esistenza, come testimonia il Manoscritto C. Tuttavia nella notte della fede, aggrappata e sostenuta dalla fede e dalla speranza in Gesù, Teresa continua la sua ricerca del Volto di Gesù.

Ma come descrive questa sua esperienza drammatica? La descrive: come essere continuamente assalita e travolta da una tempesta di dubbi sulla fede in Dio (cf. MB 261); come essere invasa dalle nebbie più fitte, dove il pensiero di Dio diventa un motivo di lotta e di tormento, dove la fede in Lui sembra essere tutta una illusione (cf. MC 276; 278); come essere davanti ad un muro alto fino al cielo, fino nasconderle il volto di Dio (cf. MC 280); come essere seduta alla tavola dei fratelli poveri peccatori e mangiare con loro il pane del dolore e dell’amarezza del fallimento esistenziale, e chiedere per se stessa e per loro la misericordia, il perdono, la salvezza e la luce della fede (cf. MC 277). In occasione della professione di sr. Maria della Trinità (30 aprile 1896), Teresa dedica alla consorella un componimento poetico (cf. Poesia 30), che pone in versi la Glossa sopra cose divine di S. Giovanni della Croce: «Senza sostegno e con sostegno, / senza luce ed allo scuro stando, / vado d’Amore consumandomi». La Poesia 30 mette in risalto la potenza trasformante dell’Amore (cf. L 197) – eco del Cantico spirituale B, 39,4 di Giovanni della Croce – e nello stesso tempo anche l’attuale condizione di notte oscura esistenziale e spirituale di Teresa:

«Al mondo (che gioia immensa!) / io ho detto eterno addio!…
Più di me levata in alto, / solo Dio ho per appoggio.
E io adesso lo proclamo: / stimo presso Lui vedere
e sentire l’anima mia / senza Appoggio appoggiata.

Benché soffra senza Luce / in una vita di un sol giorno,
io quaggiù posseggo almeno / dell’Amor la vita eterna!
Sulla via che seguo devo, / molti ostacoli riscontro,
ma d’Amore voglio vivere /nelle tenebre dell’esilio.

L’Amore, n’ho l’esperienza, / ben profitta (che potenza!)
del bene e male che in me trova: / in sé cambia la mia anima.
Questo fuoco che in me arde / senza sosta il cuor mi penetra.
Nella fiamma che m’attira / io d’Amore mi consumo».

E, componendo nel maggio 1897 la poesia Perché t’amo, Maria, Teresa, alla luce della pagina evangelica di Lc 2,51-52, contemplerà Maria come discepola esemplare che cerca Gesù nella notte oscura del suo cammino di fede: «O Madre, tuo Figlio ti vuole modello di chi nella notte Lo cerca con Fede» (P 54,15).

Teresa è molto malata. Sa ormai che la sua vita terrena sta per volgere al termine. Ella sta vivendo la sua notte oscura della fede seduta alla “tavola dei peccatori”, ovvero nella compagnia dei senza Dio, di coloro che sono lontani da Lui. Quasi un mese prima di morire confiderà di trovarsi immersa con il corpo e con lo spirito in un buco nero (cf. QG 28, 8, 3): è la sua “discesa agli inferi” in compagnia degli ultimi e dei peccatori. Ella accetta di condividere il loro fallimento, per intercedere per lei e per loro (cf. MC 277), per invocare, per lei e per loro, la salvezza e la luce proveniente dalla “fiaccola della Fede”, fino a quando lo vorrà Gesù: «O Gesù, se è necessario che la tavola profanata da loro sia purificata da un’anima che ti ama, accetto di mangiarvi da sola il pane della prova fino a quando ti piaccia introdurmi nel tuo regno luminoso» (MC 277).

E quando le tenebre si infittiscono sempre di più, ella si rivolge ancora a Gesù: «Gli dico che sono pronta a versare fino all’ultima goccia il mio sangue per testimoniare che esiste un Cielo [Dio]. Gli dico che sono felice di non godere quel bel Cielo sulla terra, affinché Egli lo apra per l’eternità ai poveri increduli. Così, nonostante questa prova che mi toglie ogni godimento, posso però esclamare: “Signore, tu mi colmi di gioia con tutto quello che fai” (Salmo 91,5). Perché c’è forse una gioia più grande di quella di soffrire per tuo amore?» (MC 279).

Nei mesi settembre-dicembre 1896, Teresa trascrive un versetto, molto significativo per lei, del profeta Isaia: «Se offri la tua anima a colui che ha fame e se riempi di consolazioni un’anima afflitta, la tua luce si leverà tra le tenebre e le tue tenebre saranno come il meriggio» (Is 58,10). Meditando questo versetto, ella trova il senso del suo stare alla tavola dei peccatori. Mentre da è Giovanni della Croce che viene illuminata circa il senso sponsale della sua notte oscura: è la notte in cui la creatura amata viene resa piccola, viene spogliata di tutto, viene resa povera per essere accolta “a mani vuote” nella comunione nuziale con il Cristo Sposo, e così diventare somigliantissima a Lui, che per primo si è voluto sedere a mensa con i peccatori per testimoniare il suo amore verso di loro e dare loro una possibilità di riscatto.

È questo cammino di crescita nella somiglianza a Gesù, suo Sposo, che Teresa di Lisieux ha vissuto nell’ultimo periodo della sua esistenza, a partire dalla Pasqua del 1896. Nella notte oscura della fede non ha smesso di cercare il Volto nascosto del Signore, e l’ha trovato. E a questo Volto diventata somigliantissima, facendosi sorella in umanità e nella fede di tutti i peccatori, di tutti i falliti della storia, per intercedere per loro e donare loro la speranza e la luce che promanano dal Volto Santo del suo Sposo e Signore. Nella preghiera che ella compone Al Volto Santo (Pr 16), significativamente pone come sottotitolo “Io sono il Gesù di Teresa”. È la prospettiva del cammino di fede e di santità a cui è chiamato ogni cristiano: diventare somiglianti a Cristo Gesù. Ed è, in fondo, anche la prospettiva missionaria della Chiesa e di ogni comunità cristiana. Ecco la preghiera di Teresa di Lisieux, che vogliamo pregare con lei:

«O Volto adorabile di Gesù,
unica Bellezza che rapisce il mio cuore,
degnati di imprimere in me
la Divina tua Somiglianza,
affinché tu non possa guardare
l’anima della tua piccola sposa
senza contemplare Te Stesso.
O mio Diletto,
per amor tuo accetto di non vedere quaggiù
la dolcezza del tuo Sguardo,
di non sentire l’inesprimibile bacio della tua Bocca,
ma ti supplico d’infiammarmi del tuo amore,
affinché esso mi consumi rapidamente
e mi faccia apparire presto davanti a Te».

Fr. Egidio Palumbo
Mercoledì della spiritualità 2023 della Fraternità Carmelitana di Barcellona Pozzo di Gotto

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