La santità è una vocazione di tutti i fedeli perché la Chiesa è tutta chiamata alla santità, che non è individuale ma ecclesiale.
La santità è una vocazione di tutti i fedeli perché la Chiesa è tutta chiamata alla santità, che non è individuale ma ecclesiale.
«Da ragazzo ero davvero convinto che essere santi implicasse l’essere dotati da Dio di capacità straordinarie, tali da suscitare meraviglia e ammirazione. Tale convinzione era corroborata dalla predicazione relativa al protettore del mio paese, che è sant’Antonio di Padova. Un canto a lui dedicato non cominciava forse con queste parole: “O dei miracoli inclito Santo…”? E proseguiva: “Per te riacquistansi beni ed onore; i morbi cessano, cessa il dolore. Ove tu vigili pianto non è: o sant’Antonio, prega per me!”. Ed io cercavo di mandare a memoria questi miracoli. […] Ho, poi, compreso che questa non era soltanto la convinzione di un ragazzo, ma un convincimento comune: la santità è qualcosa di straordinario e, di conseguenza, un dono divino molto raro. Nella maggior parte ci si doveva accontentare di essere “buoni cristiani”, ma occorreva scomodare la santità. Non che questo fosse l’insegnamento ufficiale della Chiesa».
Nel suo intervento di ieri al convegno “Modelli di santità e canonizzazioni a 40 anni dalla costituzione apostolica Divinus Perfectionis Magister” tenutosi presso la Pontificia Università Lateranense, il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi che ha organizzato l’incontro insieme al Pontificio Comitato di Scienze Storico, ha introdotto così una riflessione sulla vocazione universale alla santità e la santità canonizzata. È con il Concilio Vaticano II che la concezione come quella da lui raccontata ebbe una consistente inversione di tendenza. La costituzione dogmatica Lumen Gentium, in particolare nel capitolo intitolato De universale vocatione ad sanctitatem in Ecclesia, parla infatti della vocazione di tutti nella Chiesa in quanto la Chiesa stessa è tutta chiamata alla santità. La nozione di santità è dunque spogliata da ogni forma di individualismo e dona a ogni santità personale il carattere della ecclesialità.
Perché vi sia santità occorre però anche una risposta personale, altrimenti si cade nel quietismo o nell’indifferenza morale. È qui che si innesta l’opportunità della santità canonizzata, che ha come scopo l’offerta ai fedeli dell’imitazione, della venerazione e dell’invocazione di quegli uomini e quelle donne che sono giudicati insigni per lo splendore delle loro virtù evangeliche. Ma quale relazione c’è tra la chiamata universale alla santità e la dichiarazione ufficiale della Chiesa nelle canonizzazioni? Per dare una risposta, mons. Semeraro riprende il pensiero di Romano Guardini.
Se «Cristo entra nell’uomo per la fede e per il battesimo» (Il Signore), operando in esso e volendo esprimersi nella sua azione e nel suo essere, la figura del santo è «la maniera particolare in cui avviene questa irruzione di Cristo» (Figure sante). Apparentemente per una persona non c’è nulla di eccezionale in questo, ma, nell’esercizio delle virtù, il santo diventa l’uomo come Dio lo vuole, in uno stretto rapporto armonico tra ordinarietà e straordinarietà. Secondo questa idea portata avanti anche da Papa Francesco, la santità sta nell’apparire del Dio vivente grazie a una realtà dell’esistenza dove non si fa nulla di particolare, ma di volta in volta si compie quello che va fatto.
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