L’alleanza tra Dio e l’uomo passa per una cura costante e la cura è prima di tutto accoglienza dell’altro.
L’alleanza tra Dio e l’uomo passa per una cura costante e la cura è prima di tutto accoglienza dell’altro.
Appena prima di espellere Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, con il primo peccato del genere umano già commesso, Dio realizza per loro delle tuniche di pelli e li veste (Gen 3,21). Inizia qui la storia della salvezza all’insegna della cura, nella quale il Padre non smette mai di provvedere alle sue creature con le quali ha stretto un’alleanza speciale, suggellata dalla discesa sulla Terra di suo Figlio fatto uomo. Per la teologa Valentina Venturini del Centro Pime, con quel gesto Dio «non ha l’intenzione di punire per il gusto di farlo o per ristabilire chissà quale ordine irrimediabilmente alterato, ma ha l’unico fine di insegnare all’uomo a diventare responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte». Egli ha applicato la giustizia, di cui gli uomini si faranno interpreti, restando fedele al suo progetto iniziale in modo equo e pedagogico.
Vestire coloro che hanno deliberatamente disubbidito pensando di essere indipendenti dal loro creatore significa prendersi cura di qualcuno che ha trasgredito alla fiducia concessa e alle regole dell’alleanza, senza avere nulla in cambio. È facile preoccuparsi per chi si ama ed è riconoscente, ma la sfida è un’altra. Per riuscire a essere veramente interpreti della legge che il Signore mostra di applicare per la salvezza di tutti e per vivere da suoi buoni alleati, dobbiamo assumere lo stile di Gesù. Secondo il teologo gesuita Christoph Theobald, ciò che lo caratterizza è il concetto di “santità ospitale”. Non tanto una dottrina o un pensiero, dunque, ma «un certo tipo di relazione che instaura con coloro che incontra e l’effetto che tali incontri hanno su queste persone e su di lui».
Gesù di Nazaret sembra così sorprendentemente distante dalla propria identità: raramente parla di sé in prima persona e rimanda ad altre definizioni di sé, come il Figlio dell’uomo. In questo modo, egli crea uno spazio ospitale nei confronti di tutti coloro che incontra, esprimendo anche un atteggiamento aperto a imparare dalle relazioni con gli altri. Nell’esperienza di questa ospitalità, «il versante antropologico della santità, quindi potenzialmente imitabile anche da parte nostra», colui che invita diventa ospite dell’invitato, con una reciproca e intenzionale costruzione di un legame. Quindi, non c’è separazione tra soggetto e apertura all’altro: una persona si scopre e si definisce proprio articolando il suo senso di ospitalità e incontrando altri individui.
Tale inversione non è scontata e nemmeno semplice. Infatti, l’essere umano è tentato a ricondurre con violenza l’altro a sé, in un’ottica di compiacimento, utilitarismo e possesso. Inoltre, prendersi cura non significa solamente rispondere al bisogno di chi lo manifesta. Più radicalmente, vuol dire fare spazio dentro di me per accogliere il prossimo scendendo dal piedistallo della mia presunta superiorità, mettendomi sul suo stesso piano, aprendomi al rinnovamento e spendendomi davvero. Se riusciamo a spenderci negli incontri in questo modo, allora possiamo sperare di avvicinarci alla santità ospitale di Gesù.
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