Le scelte linguistiche del Concilio di Nicea, una via per il cammino sinodale

Alcune parole usate nel primo concilio ecumenico, di cui nel 2025 ricorreranno i 1700 anni, sono uno stimolo per la Chiesa di oggi.

Per il Concilio di Nicea, il soggetto della fede è il noi ecclesiale: «Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente […] e in un solo Signore Gesù Cristo». “Crediamo”, prima persona plurale, è la prima parola della professione di fede del primo concilio ecumenico del 325, emblematica della portata rivoluzionaria che la fede condivisa porta con sé. Chiara Curzel e Maurizio Girolami, in un articolo sul secondo numero di quest’anno di Studia patavina, rivista della Facoltà Teologica del Triveneto, mettono in relazione, tra l’altro, alcuni aspetti linguistici legati a quello storico evento con il cammino sinodale in corso nella Chiesa.

Celebrare Nicea, di cui l’anno prossimo ricorreranno i millesettecento anni, significa innanzitutto ripartire dal considerarsi un noi, per ricollocare l’io in una società fatta di relazioni e di persone che ne danno pieno significato. Allora, i padri conciliari usarono il soggetto plurale per dare rilievo alla nuova comunità che si stava creando, diversificata per luoghi e culture ma accomunata da una fede e un modo di esprimerla condivisi. Successivamente, la prassi liturgica ha portato alla modifica della formula nicena (il Credo) con l’adozione della prima persona singolare, per dare massima responsabilità all’individuo senza che la dimensione ecclesiale possa essere un alibi per nascondere il proprio impegno personale. Nell’attuale cammino sinodale, quindi, occorre ricordarsi l’importanza di un assunto fondamentale: «la fede è un dono dato a una comunità di discepoli e questi insieme credono, insieme celebrano, insieme testimoniano la loro appartenenza a Cristo».

Nel simbolo niceno, poi, il primo termine scelto per parlare dell’unico Dio è “Padre”. Al cuore della rivelazione cristologica, dunque della novità cristiana, sta il fatto che Gesù è sceso in terra rivelandoci questo volto di Dio e rendendoci partecipi della sua relazione filiale, figli nel Figlio. Uno dei termini chiave della discussione conciliare è legato proprio a questo rapporto: homoousios, consustanziale, è la definizione del Figlio rispetto al Padre, formulata in funzione antiariana. Nell’odierna società occidentale in cui nascono sempre meno figli, «Nicea ricorda che l’atto divino per eccellenza di Dio Padre è generare il Figlio, una generazione eterna senza interruzioni o interposizioni, che non ammette differenze di grado e sa accogliere come pienamente sensata la distinzione tra colui che dona e colui che riceve, senza incorrere in uno schema verticale di superiorità e inferiorità». Generare continuamente sulla base del patrimonio passato e non seguitare a ripetere è un insegnamento per la vita di tutti, anche per la Chiesa e i suoi riti.

Significativo è il fatto che al Concilio si scelse una parola, homoousios, non biblica, riuscendo così esprimere, anche se non in modo del tutto inequivocabile, il mistero della generazione. Questo ci richiama al compito di «cercare in ogni epoca e contesto le parole più proprie per esprimere la fede, senza che la ripetizione del già conosciuto possa diventare una coartazione allo spirito creativo che anima la vita di tutta la chiesa». La sfida che ci raggiunge da Nicea è quella di trovare le giuste parole per dire, in questo tempo, che Gesù è il nostro Signore.