In un tempo dominato dalla comunicazione, una serie di termini del Vangelo aiuta a vivere assieme al mistero divino.
In un tempo dominato dalla comunicazione, una serie di termini del Vangelo aiuta a vivere assieme al mistero divino.
In un’era dominata dai mezzi di comunicazione, un fiume di parole scorre nell’esistenza di ogni persona. Quanto distante è il radicalismo verbale di Gesù: «Il vostro parlare sia: sì, sì, no, no! Il di più viene dal maligno» (Mt 5,37). Sul sito del Cortile dei Gentili, il cardinale Gianfranco Ravasi ha ricordato l’operazione del biblista svizzero Jean-Michel Poffet: attingendo dai Vangeli, egli ha selezionato sette «piccole grandi parole», le quali una volta pronunciate cominciano a vivere, generando il bene o il male. I vocaboli, dunque, non muoiono una volta che sono detti, come si legge in Qohelet: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più dirle».
Il primo vocabolo, di matrice ebraica, è “amen”, ripetuto spesso meccanicamente al termine delle preghiere (tanto che lo si consuma in velocità, “in un amen”), ma che rivela fiducia, solidità, verità, adesione. Poi c’è “beato”, aggettivo inestricabilmente legato alle provocatorie Beatitudini di Cristo, le quali ribaltano la graduatoria dei valori della nostra società. È la volta di due imperativi: “vieni”, indirizzato da Gesù verso alcuni pescatori del lago di Tiberiade che stavano tirando a terra le reti e la cui vita cambierà totalmente, e “taci”, severo monito che risuona all’inizio della vita pubblica di Cristo per placare un indemoniato e durante la tempesta sul lago per placare la bufera.
Continuando con l’elenco, la preposizione “con” esprime l’amore in modo essenziale, tanto che il soprannome l’Emmanuele in ebraico è “Dio con noi” e nella Bibbia compare ben tremilacinquecento volte l’espressione «essere con». “Oggi” è sussurrato da Gesù morente al ribelle crocifisso accanto a lui («Oggi sarai con me in paradiso»), in un intreccio temporale tra passato, presente e futuro. Infine, il settenario si conclude con un corale “alleluja”.
Questi vocaboli fanno da contraltare al silenzio del Signore, che è sì Logos, Parola, ma è anche un mistero, termine che deriva dal verbo greco “tacere”. Il profeta Elia scopre infatti Dio in «una voce di sottile silenzio» (1Re 19,12) e Giobbe quando lo sperimenta dice: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). Per questo, il pastore protestante francese Gérard Delteil ha detto: «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Questo suo mutismo, che non va confuso con l’indifferenza che scandalizza molti (ad esempio di fronte alla Shoah o ai cataclismi della natura), va inteso come presenza nell’assenza, silenzio grembo della Parola, eros del tacere (due innamorati veri possono guardarsi negli occhi senza dire nulla), fede durante il vuoto della voce divina. È la responsabilità umana della libertà.
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