Conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, è tra le testimonianze più note della Passione di Cristo.
Conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, è tra le testimonianze più note della Passione di Cristo.
Mentre era in corso la costruzione del nuovo transetto della basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, fu trovato, murato in una nicchia alla sommità dell’arco trionfale, un astuccio in piombo con tre sigilli del cardinale Gerardo Caccianemici, futuro papa Lucio II (1144-1145). Era il primo febbraio 1492 e, aprendo quella custodia posizionata simbolicamente nel punto centrale più alto della chiesa, tornò alla luce il Titulus Crucis, la tavoletta in legno di noce con l’iscrizione conosciuta con la sigla “INRI” posta sulla Croce. Come si legge su Vatican News, in realtà la scritta propone su tre righe la dicitura “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum” (Gesù Nazareno re dei giudei) in ebraico, greco e latino, con direzione da destra verso sinistra. Le tre lingue venivano usate solo per le iscrizioni solenni, per cui Cristo era ritenuto un condannato speciale.
Il cartiglio, posto su indicazione di Pilato, indicava la motivazione della condanna secondo il diritto romano, ovvero il fatto che Gesù si era proclamato re dei giudei, e assunse così una funzione derisoria, soprattutto se si considera anche la corona di spine e la canna come scettro. Tutti i Vangeli lo ricordano (Mc 15,26; Lc 23,38; Mt 27,37; Gv 19,19-20), evidenziandone quindi l’importanza. La sua prima testimonianza si trova nell’Itinerarium Egeriae, che racconta il pellegrinaggio di Egeria in Terra Santa nel 383: «viene portata una cassetta argentea dorata, nella quale c’è il santo legno della croce, viene aperta e tirato fuori, viene posto sulla tavola sia il legno della croce che il titolo».
Oggi il Titulus è visibile nella basilica romana che fu edificata nel sito della cappella fatta costruire da Elena, madre di Costantino, per conservare le reliquie che aveva portato con sé dal viaggio in Terra Santa tra il 326 e il 328, come racconta lo storico del quinto secolo Eusebio di Cesarea nell’opera De vita Costantini. Ella, cercando nei luoghi dove si era compiuta la Passione e la Risurrezione di Cristo, aveva tra l’altro preso la Croce e della terra di Gerusalemme. Però la testimonianza di Egeria, ma anche quella dell’Itinerarium del 570 circa di un pellegrino di Piacenza, implicherebbe che questo oggetto arriverà a Roma in un momento successivo.
Ma quello oggi conservato a Santa Croce in Gerusalemme è l’originale? Da una parte, c’è chi lo ritiene realizzato tra il decimo e il dodicesimo secolo sulla base di una datazione al radiocarbonio eseguita nel 2002. Dall’altra, alcuni storici lo giudicano autentico, o perlomeno una copia fedele contemporanea all’epoca della morte di Gesù, basandosi sui caratteri paleografici riconducibili al primo secolo. Altre discordanze, come la non esatta corrispondenza con le parole riportate dai Vangeli, e questioni, ad esempio il fatto che la presenza nella parte latina di “Nazarinus” anziché “Nazarenus” sarebbe un errore che un falsario non avrebbe mai commesso, continuano ad alimentare il dibattito.
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