Trovarsi fratello di Cristo abbandonato sulla croce

La sensazione di abbandono, che fa parte della vita, può diventare un’esperienza del bisogno di essere trovato.

La sensazione di abbandono fa parte della vita. C’è chi può sentirsi costantemente sospeso tra un abbandono e l’altro, come se si rinnovasse e morisse continuamente. Succede a don Alessandro Deho’, che su Pangea racconta come l’abbandono diventi «esperienza di essere bisognoso di essere trovato». In tali occasioni, si sente «la pecora smarrita del Vangelo che è al mondo, e fuori posto, solo per farsi ritrovare. Elemosino che Lui si accorga di me. L’abbandonato. E mi trovo fratello del Cristo abbandonato sulla croce». Con questa logica, il tempo presente assume comunque un valore, perché è un tassello di resurrezione che non va trattenuto. L’abbandono diventa dunque esperienza di morte, la quale è meno forte solo dell’amore, non della vita, quindi di Dio.

Pregare, che non è dire e non è fare, è imparare a morire, afferma il sacerdote. È lasciarsi dire, «deporre tutto di sé e lasciare che lo Spirito danzi in noi. Sentire i passi divini che ci percorrono. Annientarsi, lasciarsi fare». Solo così si può arrivare al centro di ciò che siamo, alla verità più profonda di noi, e scoprire il volto di Dio. Ma, per cercare di raggiungere questo obiettivo, sarebbe troppo facile massacrarsi di digiuni e preghiere. «La vera ascesi oggi è tornare a lasciarsi interrogare da chi incrocio sulla mia strada», perché essa è «il fratello che mi cammina accanto, sempre straniero, […] sempre il limite da amare, il fastidio, l’inciampo».

Quale linguaggio deve parlare la Chiesa per stare accanto ai fedeli in questo percorso? Solo uno, dice Deho’: quello del bisogno. «Cristo è il linguaggio del misero che risuscita amore nelle persone che incontrava. Mendicare, chiedere, implorare, essere affamati e assetati, piangere… il linguaggio delle Beatitudini. Tutto gli altri sono linguaggi che ci allontanano da Cristo». Bisogna invece stare attenti alla lingua del controllo. Sia nell’uso di termini postmoderni, presi in prestito dall’attualità, sia, all’opposto, in quello del latino, rimane il rischio di perpetrare le espressioni giudicanti del potere e non le parole scomode che facciano sentire il bisogno della conversione. «Lui, il Vivente, sono sicuro che parli ancora all’ingresso di una grotta, come ad Elia, con una “voce di silenzio svuotato”».