In Quaresima occorre lasciare spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla relazione primaria con Dio.
In Quaresima occorre lasciare spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla relazione primaria con Dio.
Nel tempo di Quaresima, il digiuno è una delle pratiche religiose che suscitano domande. Ha ancora senso al giorno d’oggi? Già nel resto dell’anno c’è chi lo pratica per dimagrire o depurarsi. Ma il suo significato non è solo fisico. Intendendolo così, si rischia di impoverire un comportamento dal profondo significato: adattarlo alle proprie intenzioni vuol dire non capire il digiuno di Gesù nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti (Mt 4,1-11, Mc 1,12-13; Lc 4,1-13).
Su Il Regno, Gaia De Vecchi spiega che solo introiettando la logica del Padre e vivendo in pienezza la comunione con Lui Gesù ha scacciato la tentazione di tutto ciò che lo avrebbe allontanato dalla sua vocazione. Non per niente, il primo tentativo di corruzione del diavolo è legato al cibo: un pezzo di pane. Ma Gesù gli risponde che non di solo pane vivrà l’uomo.
Le regole alimentari religiose, che vanno dal digiuno all’astinenza da determinati cibi, possono essere vissute per un verso come un auto-dominio in ottica ascetica e penitenziale, per un altro come mezzo per focalizzare l’attenzione sulla nostra relazione primaria con la vita. Il senso immediato di quest’ultimo caso è il fatto che se non mangio muoio, mentre quello mediato è legato al fatto che, attraverso la cucina, l’essere umano esprime simboli e valori di importanza vitale.
In Quaresima, con una rinuncia parziale dal cibo abbiamo la possibilità di capire ciò che è necessario per il vivere quotidiano e ciò che ci allontana dal vivere umanamente. Come capita anche in altri aspetti della vita, è nell’assenza che ci accorgiamo della presenza e dell’essenzialità di qualcuno o qualcosa. De Vecchi indica alcune domande essenziali che si deve porre il cristiano: di che cosa mi nutro? Come nutro la relazione con Dio e come me ne nutro? Che ruolo ho nella “fame” del fratello?
«Il digiuno ha quindi anche un senso penitenziale, ma non se intendiamo il “penitenziale” in senso psicologico, massacrante, bigotto, solipsistico, nel senso di sentirci solo peccatori e dannati in eterno (il senso della Pasqua a cui il digiuno deve farci avvicinare è esattamente il contrario!). Ha un senso penitenziale in questa ottica: lasciare lo spazio interiore per acquisire la consapevolezza del peccato che mi allontana dalla mia relazione primaria, che è quella con Dio. Ne emerge il valore relazionale della penitenza.»
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