Quella volta che sant’Antonio fece modificare una legge iniqua

In occasione degli ottocento anni dal suo incontro con san Francesco d’Assisi, ecco un ritratto del santo di Padova.

Ieri si è celebrato l’anniversario dell’incontro tra Francesco d’Assisi e Antonio da Padova, avvenuto ottocento anni fa in occasione del Capitolo generale delle stuoie (sulle quali dormirono le migliaia di frati giunti) del 30 maggio 1221. Questi santi, anche se partivano da visioni differenti, si sono profondamente influenzati. Secondo padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento di San Francesco ad Assisi, i due si sono abbracciati nella logica dei valori e della compassione, trovando una comunanza spirituale nella centralità della dimensione della povertà, seppur esplicitata in forme differenti.

Antonio mirava a una povertà nella quale spogliarsi anche di ogni sapienza e dottrina, abbassandosi verso uno stato essenziale, una kenosis (svuotamento). La cosa particolare è che lui si era formato sull’illustre magistero di Sant’Agostino e le cronache dell’epoca parlano della sua eccezionale eloquenza e della sua grande sapienza teologica. Ma lui non voleva essere trattato come una persona superiore, ma come un compagno dei frati, e si comportava in modo cortese, clemente e benigno. Questa sua purezza d’animo era una vera e propria grazia, che gli permetteva di abbassarsi senza mai far pesare questo abbassamento.

La mitezza che riservava ai confratelli andava di pari passo con l’assoluto rigore verso sé stesso: in lui non vi era spazio per l’ostentazione, il possesso di tutto ciò che fosse superfluo, parole che non fossero intrise di Vangelo. Proprio per queste sue caratteristiche, Francesco gli chiese di continuare a occuparsi di teologia (anche della predicazione a catari e albigesi), perché il suo approccio mite e caritatevole avrebbe prevalso su quello seduttivo della teologia, ovvero del pensiero puro che può scaturire violenza.

L’influenza di Antonio arrivò anche nelle stanze del potere. A Padova, dopo la sua invettiva contro gli usurai, che se ne fregano della povertà e prosperano sulla miseria altrui, il podestà decise di abrogare una legge iniqua che, di fatto, obbligava gli indigenti che avessero debiti a contrarre un prestito usuraio, pena il carcere o l’esilio. Così il 15 marzo 1231, con esplicito riferimento all’istanza dell’allora confessore dell’ordine dei frati minori, fu emanata la norma secondo cui la persona insolvente, dopo aver ceduti tutti i propri beni, non dovesse essere punita con il carcere o l’allontanamento.

L’attenzione francescana alla povertà dimostrò in quest’occasione il riconoscimento del valore assoluto della creatura umana, criterio fondamentale per difendere gli ultimi. Nel suo testamento, san Francesco scrisse «io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare»: tutti gli individui devono avere la possibilità di guadagnarsi di che vivere onestamente, in una condizione che non li umili e non li ponga alla mercé dell’avidità altrui.